Il canto del dolore che è arrivato troppo presto. I 20 anni di Sing The Sorrow degli AFI

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AFI sing the sorrow

Sing The Sorrow degli AFI è stato il loro disco che ha messo assieme qualità e successo e che l’11 marzo 2023 compie 20 anni dalla sua pubblicazione

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Marco Vezzaro

Un tardo pomeriggio del 2007 avevo vent’anni ancora da compiere e tremavo, perché già stavo aspettando la telefonata più importante della mia vita. Nelle case dei nostri genitori, e la casa dei miei non faceva eccezione, il telefono sta piazzato sopra un mobile in ingresso, ed è un altare consacrato alle conversazioni, pensato per far sentire quello che diciamo alla cornetta da ogni angolo della casa. È una sorta di negativo del concetto di telefonata che abbiamo oggi, che è assurdo legare a una stanza, a un’idea dello spazio, e si ritira sempre più nell’intimo e nel segreto.  

Non ero a mio agio a pensare che in tutta la casa i miei familiari mi avrebbero sentito parlare per venti minuti buoni in un inglese stentato da scolaro di provincia, emozionato come mai nella mia vita, me li immaginavo ridersela e darsi di gomito, “è al telefono con il suo idolo il nostro bambino, sssht”. Volevo sparire, ma chi non si sa tuffare lo fa sempre in avanti. Così il telefono che fissavo imbambolato da mezz’ora alla fine è suonato, ho alzato la cornetta, e un tizio credo della Geffen mi ha chiesto in inglese se ero Marco. Ho detto sì, e lui ha detto, sempre in inglese, “Bene Marco, sei al telefono con Davey degli AFI“. 

Tutti i ventennali di quest’anno per me fanno un po’ più male degli altri, perché non avevo mai pensato prima a quanto il 2003 sia stato il mio ultimo anno da bambino. Avevo già quindici anni, e tutti i sintomi di chi è intrappolato in un corpo che non sta al passo; solo fino a due anni prima avevo sofferto come un cane per non essere più il bambino popolare che ero nel mio paese, la città e il liceo mi avevano inghiottito, la mia classe mi aveva messo il timbro di sfigato, avevo passato un anno a tentare di farmi accettare a suon di vestiti firmati e tagli di capelli con il gel della marca giusta, ma il gel non faceva che fissarmi in una plastica posizione da ridicolo. La musica che ascoltavo, sempre più veloce, sempre più ruvida e violenta aveva finito per suggerirmi di lasciarli perdere, “vieni con me, mandali a cagare, loro e i loro Belstaff”. 

Alla fine l’avevo fatto. La notte in cui avevo conosciuto The Art of Drowning, nel 2002, era stata quasi un incontro religioso: insonnia, eccitazione, magone, la certezza dogmatica di aver trovato la mia strada, quello che cercavo. 

D’altronde, alla vigilia del marzo 2003, gli AFI questo erano, senza mezzi termini: un culto. Un fan club agguerrito chiamato The Despair Faction, un sito che aveva un message board popolatissimo, attivissimo, una specie di sezione a tema musicale di deviantART pieno di pischelli dark perduti, adoranti, un social prima dei social, in cui utenti con nickname tratti dai loro testi postavano disegni a matita della band, tatuaggi che si erano fatti per onorarli, oltre a continue indiscrezioni sul nuovo, imminente disco che stavano per pubblicare. Un disco che si vedeva arrivare da lontano come un cumulo di nembi, di cui si diceva un gran bene, un disco che aveva tutti i presupposti per essere IL loro disco. 

E io, beh io mi sentivo l’eletto, il sacerdote prescelto per portare in Italia il culto degli AFI, e per quanto ne sapevo nessun altro li conosceva qui. Se oggi la percezione che abbiamo di noi stessi affonda nella consapevolezza di essere dei microbi in un globo pieno di gente più fica di noi, nel 2003 le cose, ancora per pochi mesi, erano un pochino più semplici.

Davey Havok, Adam Carson, Hunter Burgan e Jade Pudget avevano dato vita alla creatura musicale che semplicemente fondeva tutti gli ingredienti giusti per me: canzoni hardcore veloci, velocissime; una voce ruvida ma melodica, a suo agio sia in acuti arrabbiati (The Prayer Position) che in melliflui bassi di velluto (Ever and a Day); una chitarra punk ma con quella pienezza orchestrale che pompava le parti più epiche; una patina dark, ombrosa, triste senza perdere energia; e i cori, cazzo, i cori più grossi e potenti che avessi mai sentito, uno stadio in una caverna, ancora oggi non so rappresentare qui per iscritto la sensazione della prima volta in cui ho sentito Sacrifice Theory e Of Greetings and Goodbyes.

Ma gli AFI sono questa cosa qui da poco, pochi anni, cioè da quando si è unito a loro Jade Pudget. Prima galleggiano in una carriera di band hardcore atipica, pubblicando nel 1995 l’esordio Answer That and Stay Fashionable, un disco ispirato a Le Iene di Tarantino e testi dall’ironia graffiante (I Wanna get a Mohawk), poi l’interminabile Very Proud of Ya (20 canzoni e 38 minuti, che per un disco di genere sono un’eternità), l’arrabbiatissimo e per certi versi cringe Shut Your Mouth And Open Your Eyes. 

La svolta, appunto, è Black Sails in the Sunset, nel 1999, il primo disco con Pudget, che compone con l’ep All Hallows e con The Art of Drowning una sorta di trilogia unica per il punk-rock californiano, la sua anima più dark e spooky. Sono tre dischi di cui sono stato innamorato alla follia, che hanno definito il mio modo di pensare la musica, l’energia, l’approccio alla voce e alla scrittura. Sono tre dischi che mi portano ai primi mesi del 2003, quando sono un quindicenne che veste tutto di nero, indossa calze a rete sulle braccia, si tinge di nero corvino i capelli, sfoggia un devilock che poco più avanti passa alla storia come “ciuffo emo” e di cui ho rinunciato presto a spiegare la vera genesi a chi lo fraintendeva, è in grado di mettersi con cura il mascara sugli occhi anche senza specchio, e per gli AFI ha una vera ossessione. 

E con la musica l’ossessione, a quindici anni, c’entra poco. In un mondo ristretto, in cui la socialità ancora non può fare il giro del pianeta ma è costretta ad esaurirsi presto o tardi su binari morti, gli AFI per me sono un riscatto, sono una cosa che conosco solo io, e che conosco fino al dettaglio più piccolo, sono la mia occasione di sentirmi unico, e di dimostrare alle persone che mi hanno dato dello sfigato che gli sfigati veri sono loro. Gli AFI sono miei e non li devo spiegare, e il nuovo disco sta arrivando. Solo che questo nuovo disco che sta arrivando, con mio grande sgomento, rischia di mandare in frantumi tutto questo. 

Afi Sing The Sorrow

Di Sing The Sorrow, dicevo, si parla ancora prima di sentirne una nota. A frequentare il message board, a grandissima maggioranza statunitense, ormai la band sta per fare il salto, e infatti è la prima prova su major, la Dreamworks, dopo una lunga militanza nella NITRO di Dexter Holland. Il produttore è un certo Butch Vig. Quando mi rendo conto che la mia band preferita, il mio culto, la band di cui mi sentivo un missionario fa un disco con il produttore di Nevermind dei Nirvana, comincio a preoccuparmi davvero. È finita, diventeranno famosi, avranno un sacco di fan, tornerò ad essere uno dei tanti, dei troppi, anche qui in Italia. 

Un giorno, finalmente, succede: compare nel message board il thread di un fan, che ha sentito il primo singolo su KROQ, e l’ha registrato. Scarico l’mp3, in una qualità atroce, ma all’epoca non aveva importanza. C’è lo speaker che annuncia secco “Here’s the AFI’s song Girl’s not Grey, on KROQ”. 

Girl’s Not Grey è un inno punk rock crepuscolare maestoso. La produzione è pulita, piena, rotonda. La dinamica pesta, poi corre, poi si ferma, poi corre di nuovo. Davey mostra una voce mai così padrona di sé. Il ritornello ha sempre quei loro cori come li fanno solo loro. Il bridge mi sconvolge. Girl’s Not Grey sono gli AFI come li conoscevo e li adoravo, ma lustrati e pronti per il campionato più importante. Vorrei piangere per la rabbia, se non fosse che il pezzo mi piace da morire, mi dà le stesse vertigini alla pancia delle altalene. Manca un mese all’11 marzo 2003 quando, tracklist alla mano, riesco a scaricarmi, canzone per canzone, tutto il disco da KaZaa. Qualità tutte diverse, alcune canzoni sono solo un frammento di 15 secondi che si ripete fino a raggiungere la durata effettiva dichiarata. È un mondo, quello, che non esiste più e di cui non ho alcuna nostalgia. 

Il disco alla fine esce, e si conferma come un’opera rock crepuscolare oscura curatissima, dalle radici punk rock. Si apre con un inno studiato per caricare i live, Miseria Cantare, e poi con un pezzo che non ho mai amato e che mi aveva fatto temere il peggio, la semiballata The Leaving Song pt. II. Il vero inizio però è non appena Adam Carson spinge sull’acceleratore. Bleed Black è un potenziale singolo mai uscito, a cui è stata preferita un’altra ballata, Silver and Cold. Dancing Through Sunday è di nuovo i woah woah, e un inusuale assolo hard rock con tanto di tapping, che atterra su Girl’s not Grey. Il pezzo forse più dirompente del disco è Death of Seasons, una suite hardcore-metal epica in anticipo sui tempi, con un inserto techno, una cosa da far spalancare le bocche a tutti. Nella seconda parte del disco, gli AFI si giocano le cartucce meno immediate, piazzando però uno dei loro pezzi più obliqui e precursori della loro produzione successiva, This Celluloid Dream, e la sublime ghost track This Time Imperfect.

È tutto al posto giusto. Il loro look, le illustrazioni circolari di Alan Forbes nell’artwork, i testi al culmine dell’ispirazione dark, la produzione pulita fino alla perfezione, il sound gonfio. Gli AFI, in effetti, il salto lo fanno. Da band hardcore underground diventano la nuova sensazione dell’alternative rock, vanno su MTV, vanno a suonare all’Hard Rock Cafè di Los Angeles, vanno regolarmente in radio e televisione. La gente che conosco e che conosce le mie ossessioni comincia a scrivermi “oh ma sai che quel gruppo lì che piace a te, gli Afidi, li ho visti su MTV l’altro giorno”. Credono di farmi piacere, ma un po’ mi pugnalano a farmelo sapere. Del resto li chiamano Afidi per non rinunciare comunque a prendere in giro le mie ossessioni, i miei occhi pesti di matita nera, le mie pose di emulazione che mi fanno sentire me stesso anche quando sto cercando soltanto di essere un altro da me.

D’altro canto, per gli AFI il meglio deve ancora arrivare, e arriva di lì a poco, nel 2006 con Decemberunderground, quando trainati dal singolo Miss Murder esordiscono al numero 1 di Billboard. Sono solo 3 anni dopo, ma il mondo è cambiato: c’è un sito che si chiama Myspace, c’è Soulseek, il punk-rock-metal alternativo nel mondo si chiama, su tutti i giornali, e per uno dei più mastodontici malintesi della storia della musica, “Emo”. È popolato da adolescenti con ciuffi neri o colorati piastrati fino a coprire tutta la faccia, estetiche timburtoniane, borse e maglie a righe o di Emily The Strange, band che rimescolano hardcore e metal in chiave dark, portando la compresenza di scream e melodico all’estremo, quasi a voler trovare la chimica perfetta. Ci sono gruppi come i Finch, i Dead Poetic, gli Underoath, i From First to Last, i Further Seems Forever, i Thursday, gli A Static Lullaby, i Funeral for a Friend, i The Used, i Saosin, mentre a bucare il mainstream ce la fanno i My Chemical Romance e i Silverstein diventando fenomeni enormi. In una tavola apparecchiata come questa, Decemberunderground, che è un disco pasticciato e bipolare, diventa il più grande successo commerciale degli AFI, che con questa ondata in realtà c’entrano poco. Ed è invece l’ondata che c’entra tantissimo con Sing The Sorrow, un disco compatto e irripetibile che ha senza dubbio avuto un impatto dirompente su tutte quelle band, una sintesi a tratti geniale tra sensibilità dell’epoca, venuta da una band che forse non aveva davvero i mezzi per realizzarla; perché in fondo è sempre stato un quartetto hardcore punk, poco tecnico (a partire proprio da voce e chitarra, i suoi elementi più caratterizzanti), e sempre meno in grado di reggere live ciò che prometteva su disco. 

Il percorso degli AFI è il percorso di una band estremamente prolifica, che ancora oggi fa dischi e non si è mai sciolta, e che da oltre quindici anni non riesce ad azzeccare un disco, ma che è sempre andata avanti per la propria strada, senza mai avere paura, trovandosi quasi per caso a influenzare una stagione intera di musica alternativa. È una band che ha cercato senza sosta una cifra stilistica, l’ha trovata e mantenuta per tre dischi eccezionali, poi ha tentato di evolverla per farla arrivare davvero ovunque, ma ci è riuscita addirittura troppo in anticipo, finendo per lasciare il raccolto a chi è venuto dopo. Sing The Sorrow, l’11 marzo 2023 compie 20 anni. Non è stato, alla fine, il mio disco preferito degli AFI, ma è forse il disco che ho aspettato di più nella mia vita, in un’era in cui aspettare un disco era uno sport diverso, nuovo, e che oggi già non esiste più. È stato anche il disco con cui ho dovuto imparare a lasciar andare una band che volevo tutta per me, e il fatto che facesse così male non poteva che significare che anch’io dovevo lasciar andare quest’idea comoda e insensata di essere qualcun altro perché quello che ero non mi piaceva e non piaceva a nessuna delle persone che vedevo ogni giorno. 

Ci ho messo un sacco, a dire il vero. Tanto per dirne una, quel pomeriggio del 2007, mentre ero al telefono con Davey balbettando, stavo facendo un’intervista per un giornale cartaceo su cui scrivevo, si chiamava “Sonic Magazine”, una persona che non ringrazierò mai abbastanza mi aveva regalato prima la possibilità di scriverci, e poi di fare delle domande al mio idolo, e mentre lo facevo mi stavo dimenticando che non ero e non mi ritenevo affatto in grado di farlo. Parlandoci, sentendolo mentre rispondeva cortese e interessato alle domande che gli facevo, mi resi conto che quella era la più brutale prova che io non fossi lui. Quando riagganciai la cornetta, mi rimase in mano la sensazione che non fosse così semplice scorgere il confine tra realizzare un sogno e infrangerlo. 

Redazione Rumore
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