Intervista ai Notwist: “Bisogna trovare il modo di rompere la monotonia distruggendo le cose che sai fare meglio”

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Il Giappone, il lockdown, l’ispirazione, la lingua inglese e quella tedesca: i Notwist raccontano il nuovo album Vertigo Days

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Stefania Ianne

I due fratelli bavaresi che fanno musica da tempo immemore, ovvero i Notwist (che avevamo già intervistato alcuni anni fa), ritornano sulla scena con Vertigo Days, un nuovo disco atmosferico arricchito da una serie di collaborazioni tra le più disparate e immaginabili. Dopo 31 anni Markus e Micha Acher non hanno perso la voglia di innovare e crescere musicalmente e, nella nuova realtà post covid-19, nonostante il blocco mondiale causato dalla pandemia, ci fanno viaggiare con la mente e spesso ci fanno anche ballare. Li incontro virtualmente in una giornata grigia invernale, i due sono distanziati ai lati opposti di un divano per tre e il poliedrico Cico Beck è metaforicamente ai comandi seduto davanti al monitor che riflette la mia immagine. Cominciamo dagli inizi nella provincia bavarese e terminiamo in Giappone dove il gruppo ha approfondito la propria conversazione musicale con i componenti di Tenniscoats e Zayaendo, e da dove è nata anche la veste grafica/artistica del nuovo disco. Il giro del mondo virtuale sul disco e nella nostra conversazione è completato dal racconto delle collaborazioni con artisti nordamericani e sudamericani del calibro di Ben LaMar Gay e Juana Molina, tutto nel nome di una fratellanza musicale che rompe le barriere dei generi oltre che i muri virtuali e reali che si stanno creando tra le varie nazioni. Ecco cosa ci raccontano.

Ci volete raccontare come siete entrati nel mondo musicale e come siete riusciti a sopravvivere per tanto tempo?

Micha Archer: “Sono il fratello di Markus e il bassista nel gruppo e abbiamo iniziato a fare musica insieme da quando eravamo bambini. Nostro padre era un musicista professionista e abbiamo imparato da piccoli vari strumenti. Io ho poi studiato la tromba e Markus la batteria e la chitarra. Nostro padre era veramente un amante della musica e non avevamo scelta, abbiamo dovuto imparare a suonare. La musica è stata parte di tutta la nostra vita”.

Purtroppo tantissimi ragazzini iniziano ma alla fine abbandonano perché sentono la musica come una costrizione. Com’è stato per voi? Sentite di essere stati costretti a imparare o vostro padre ha esaltato un talento naturale?

Micha: “Per noi è stato un processo molto naturale, abbiamo amato la musica da subito e da giovanissimi abbiamo iniziato a formare vari gruppi e a sperimentare alla ricerca di un nostro suono originale. È diventata la parte più importante della nostra vita da subito, da ragazzini”.

Come gruppo esistete da tantissimi anni (n.d.r. 31 anni). In che modo avete scelto il nome The Notwist quando avete iniziato?

Markus Archer: “Abbiamo scelto il nome per un concorso musicale. La prima incarnazione dei Notwist è stata una session ad una festa dove abbiamo suonato delle canzoni punk rock e poi le abbiamo registrate per questo concorso indetto da una radio di Monaco. Chiedevano alle band che avevano appena iniziato di inviare i propri demo-tape e una giuria oltre agli ascoltatori della radio potevano votare per il gruppo preferito tra i partecipanti. Abbiamo deciso di inviare il nostro demo perché per quanto ci riguardava tutti gli altri gruppi partecipanti erano terribili, e visto che anche le nostre canzoni lo erano, abbiamo pensato che forse avremmo avuto una chance (ride al ricordo, nda).

A quel punto vi serviva un nome…

Markus Archer: “Abbiamo iniziato a pensarne uno che fosse stupido, divertente volevamo trovare un nome che sembrasse tipico di un gruppo punk rock inglese underground. Doveva iniziare assolutamente con l’articolo ‘The’ e poi avevamo in mente qualcosa che iniziasse con ‘No’, con una negazione in ogni caso. E ricordo che ero a scuola e ho iniziato a scrivere ‘The No…’ ed è venuto fuori ‘The Notwist’ e mi sono detto, perfetto, suona assolutamente underground (ride ancora, nda) e abbiamo deciso di tenere questo perché è rimasto impresso ed era facile da ricordare. Qualcuno a un certo punto ci ha chiesto se il significato intrinseco nel nome sia che non vogliamo scendere a compromessi, ma non è questo, non c’è mai stato un significato associato al nome, ma questa definizione ci va benissimo”.

Mi dicevate che vostro padre è un appassionato e un professionista della musica. Cosa vi faceva ascoltare? Avete iniziato con un genere in particolare oppure era un po’ una miscela di generi?

Micha Archer: “Ci faceva ascoltare la musica jazz ma in particolare era un appassionato di quel genere dalle origini, del Dixieland e per anni abbiamo suonato nella sua Dixieland band quel tipo di musica. E quando siamo cresciuti abbiamo iniziato a formare vari gruppi nella nostra cittadina di Weilheim e qui abbiamo iniziato i Notwist e a scrivere la nostra musica. Solo in seguito ci siamo trasferiti a Monaco e siamo entrati a far parte della scena musicale di Monaco e siamo ancora qui”.

Il nuovo disco sembra rompere le barriere e tutte le collaborazioni sono delle piccole gemme musicali. Come siete riusciti a coinvolgere artisti così disparati e provenienti da tutto il mondo, dall’Argentina al Giappone, passando per gli Stati Uniti?

Markus: “Ci piace collaborare con altri artisti e abbiamo la possibilità di sperimentare con la nostra etichetta Alien Transistor e con altri nostri progetti musicali come i 13 & God in cui collaboriamo con dei musicisti nordamericani. E poi abbiamo creato il nostro festival Alien Disko che è andato avanti per 4 anni ogni dicembre a Monaco di Baviera. Durante il festival eravamo liberi di invitare gruppi che ci piacciono molto provenienti da tutto il mondo, soprattutto gruppi che trascendono i confini dei generi tradizionali, artisti visionari con la mente aperta a tutte le possibilità. Quindi alcuni degli artisti presenti sul disco conosciamo da tempo, altri li abbiamo conosciuti durante il festival e siamo diventati amici.

Per esempio Ben LaMar Gay…

Markus: “Lui con il suo disco ci è piaciuto moltissimo e lo abbiamo invitato a suonare al festival. Si è innamorato di Alien Disko ed è ritornato l’anno successivo quando abbiamo suonato insieme. Siamo rimasti in contatto da allora e per questo gli abbiamo proposto di collaborare ad una canzone per Vertigo Days. Per quanto riguarda gli artisti giapponesi siamo diventati amici dal primo anno del festival e abbiamo creato una band in cui suoniamo insieme. In realtà non siamo solo parte dei Notwist da sempre, abbiamo sempre collaborato e facciamo parte di una serie di gruppi, di progetti musicali e in questo ennesimo disco dei Notwist abbiamo pensato di dare uno spazio a questi artisti con cui collaboriamo e che ci ispirano in continuazione, superando le barriere nazionali. Dall’altro lato avevamo bisogno di rendere i Notwist interessanti ancora una volta per noi stessi perché dopo 30 anni sempre con le stesse persone ti stanchi di sentire sempre la tua voce, ti stanchi del tuo stile e senti il bisogno di rimettere il progetto in discussione e di trovare un modo per rompere la monotonia, di distruggere le cose che sai fare meglio e introdurre un altro punto di vista. Per esempio, con Juana Molina le abbiamo semplicemente inviato dei loop, delle idee e lei ha creato questa canzone che è sua ma allo stesso tempo è dei Notwist, appartiene a entrambi ma è una canzone che non avremmo mai pensato di creare senza di lei. Ed è meraviglioso vedere quanto possiamo divergere dal suono tipico dei Notwist, dal nostro metodo normale di lavorazione”.

Hai citato Juana Molina e il suo contributo in spagnolo nella bellissima Al Sur, e nel disco ovviamente anche Saya dei Tenniscoats canta in giapponese nell’atmosferica Ship. Ma l’inglese rimane la lingua dominante di Vertigo Days. Come vi sentite nei confronti della vostra lingua madre, il tedesco? Avete mai scritto qualcosa in tedesco e se la risposta è negativa, perché no?

Markus: “Non ho mai scritto qualcosa in tedesco, anche se ci ho pensato a lungo. Ma quando ho iniziato da adolescente ho iniziato a scrivere in inglese perché tutti i musicisti e i gruppi che ascoltavo all’epoca, come Neil Young, cantavano tutti in inglese, era quella la lingua della musica rock non ci pensavo nemmeno a scrivere in tedesco. Ma poi negli anni 90 è nato un movimento di gruppi che hanno iniziato a cantare in tedesco non nella maniera tradizionale, hanno trovato un modo insolito e speciale di usare la lingua tedesca e sono diventati molto famosi e hanno influenzato tantissimo le nuove generazioni e ci sono piaciuti moltissimo, come i Blumfeld e poi i Tocotronic, facevano parte della scena di Amburgo”.

È in quel periodo che avete iniziato a considerare la lingua tedesca?

Markus: “Sì, ho iniziato a riconsiderare l’idea di cantare in tedesco e ho scoperto che non era tanto una scelta tra cantare nella tua lingua oppure no ma per quanto mi riguarda diventa una scelta fondamentale come scegliere lo strumento che vuoi suonare o lo stile che preferisci e penso che il suono di alcune lingue si adatti meglio alla musica, è come uno strumento che è più semplice da suonare e lingue come il giapponese, lo spagnolo, il francese, il brasiliano sono tutte lingue che il pubblico in tutto il mondo ama ascoltare e associa alla musica. Tra l’altro per me è più facile scrivere in inglese e per me è un passo molto importante quello della traduzione. Ogni volta che ci ritroviamo con musicisti che provengono da tutto il mondo, l’inglese è inevitabilmente la lingua della comunicazione e mi rendo conto che per me è più facile parlare di argomenti più personali o complessi in inglese piuttosto che in tedesco. Perché quando traduci qualcosa mentalmente aggiungi una certa distanza all’argomento ma allo stesso tempo focalizzi la tua attenzione come succede con la poesia, forse è il modo per spiegarlo meglio. Quindi per quanto mi riguarda mi prende un sacco di tempo ed è complicato ma allo stesso tempo è più semplice esprimere qualcosa (in una lingua straniera nda) perché insieme con la musica stai comunicando qualcosa che non esprimi con il tuo linguaggio quotidiano, non stai descrivendo la tua vita di tutti i giorni ma qualcosa che viene dal subconscio”.

In Italia negli anni ’90 del secolo scorso è successa esattamente la stessa cosa con la riscoperta della lingua italiana nella scena rap, un movimento iniziato a livello di università e centri sociali. Ma il dominio della lingua inglese a livello culturale e non solo ha ripreso il sopravvento. Come vi ponete nei confronti di questa forza che tende poi ad appiattire la diversità culturale a livello mondiale? Pensate che il mondo musicale occidentale non abbia più niente da aggiungere? E viste le vostre collaborazioni con artisti giapponesi pensate che in qualche modo il futuro musicale sia dell’oriente?

Markus: “No, non credo. Credo che dobbiamo mantenere la curiosità e l’interesse per le varie scene e i vari stili musicali. Ora siamo fortunati ad avere internet: possiamo scoprire la musica dei posti più remoti al mondo. Siamo stati fortunati a conoscere il gruppo giapponese dei Tenniscoats e la loro scena perché, anche se abbiamo internet, a meno che non conosci il giapponese è quasi impossibile trovare una chiave di lettura per capire i caratteri giapponesi. Il Giappone è molto isolato e anche se negli anni ’90 qualche gruppo si è avventurato fuori dai confini nazionali alla ricerca di un pubblico internazionale, adesso hanno fatto un passo indietro e sono ritornati a essere molto tradizionalisti e isolati; è un fenomeno che sta succedendo in molti paesi. Abbiamo voluto invitare gruppi provenienti da tutto il mondo in questo disco perché vogliamo far capire che odiamo assolutamente questa tendenza dimostrata da molti paesi a chiudere le frontiere, ancora di più adesso a causa del coronavirus, questa tendenza all’isolazionismo, un ritorno al nazionalismo ultraconservatore che si sta sviluppando in tantissimi paesi”

È stato stimolante il confronto con questi artisti?

Markus: “È stato molto positivo confrontarsi con gruppi provenienti da tutto il mondo, tutti con lingue e stili diversi per cercare di spingere nella direzione opposta. E succede un po’ dappertutto, per esempio i nostri amici giapponesi hanno voglia di collaborare a livello internazionale perché il Giappone è molto conservatore e allo stesso tempo quando abbiamo iniziato a lavorare insieme ci hanno detto subito: ‘vogliamo cantare in inglese’ e questo perché in Giappone pensano tutti che il Giappone sia un paese meraviglioso e vogliono cantare in giapponese per esaltare la cultura giapponese, ma al contrario loro vogliono cantare in inglese per dimostrare che possono uscire dai limiti dei confini nazionali. Quindi sta succedendo di tutto e il contrario di tutto, ma è molto pericoloso in questo momento il fatto che la cooperazione internazionale viene vista di cattivo occhio. Per noi lavorare tutti insieme e cercare il modo migliore di risolvere le crisi insieme è fondamentale, lo vediamo con quello che sta succedendo con il coronavirus, il mondo dovrebbe cercare di fermare la diffusione del virus insieme in qualche modo”.

Il vostro processo creativo sembra essere molto democratico. Come lavorate insieme e come riuscite ad armonizzare la presenza di una struttura creativa e strumentale tradizionale con un’intensa presenza elettronica?

Cico: “Direi che amiamo molto sia la componente elettronica che quella acustica della musica e facciamo del nostro meglio per modificare il suono della componente elettronica tramite l’uso di nastri per armonizzare la presenza del suono elettronico, ma allo stesso tempo ci piace molto il contrasto del suono caldo lo-fi accanto a quello digitale, quindi direi che alla fine non ci sono regole fisse, ci piace creare un suono organico ma amiamo anche il contrasto tra suoni discordanti. E per quanto riguarda la fase della composizione, non so come ha funzionato in passato perché questo è effettivamente il mio primo disco con i Notwist, ma all’inizio ci siamo ritrovati e abbiamo iniziato a lavorare improvvisando insieme. Abbiamo registrato il tutto e abbiamo lavorato molto in fase di editing. Ma per alcune canzoni abbiamo seguito il metodo più classico di lavorazione: Markus ha creato gli accordi, la melodia e le parole e abbiamo mantenuto lo scheletro della canzone semplice: partendo da Markus alla chitarra abbiamo aggiunto basso e batteria ed è finita lì”.

Ovviamente la tecnologia, la programmazione sta svolgendo un ruolo sempre più grande nel processo creativo. Come vi ponete nei confronti dell’evoluzione tecnologica? Usate la programmazione nella creazione della vostra musica?

Cico: “Penso che con l’integrazione della tecnologia informatica si può andare molto avanti nella musica ma il nostro approccio è molto più classico e tradizionale. Ovviamente usiamo i programmi standard esistenti per registrare la nostra musica con l’ausilio dei computer ma non abbiamo un’intelligenza artificiale che crei la nostra musica per noi”.

E dove trovate la vostra ispirazione? Nick Cave ha un po’ sfatato l’idea del processo creativo come un qualcosa di magico dichiarando che per lui si tratta di un processo quotidiano monotono, come andare in ufficio dalle 9 alle 5 di pomeriggio anche se poi ovviamente tutto quello che scrive non finisce nei suoi dischi. Come funziona per voi?

Cico: “Penso che l’ispirazione sia connessa in maniera molto integrale con quello che vediamo e ascoltiamo, le cose che ci influenzano. Non potrei mai rimanere chiuso nel mio studio a cercare l’ispirazione, è importante per me ascoltare musica e poi devo uscire, andare al cinema, vedere delle mostre per essere ispirato”.

Parlando di artisti, sono rimasta molto colpita dalle fotografie che accompagnano il vostro disco e leggo che sono state create dall’artista giapponese Lieko Shiga, ancora un’altra connessione con il Giappone. Come avete scelto quest’artista?

Markus: “Mentre stavo lavorando alla canzone Loose Ends mi sono venute in mente queste fotografie. La canzone soprattutto all’inizio ha un suono onirico e tenebroso che mi ha immediatamente ricordato queste opere; sono talmente intense che è impossibile dimenticarle e ho condiviso queste sensazioni con il gruppo. Da quel momento possiamo dire che queste fotografie hanno determinato l’atmosfera del disco, hanno avuto un’influenza molto importante: la musica è diventata la colonna sonora che accompagna queste opere fotografiche. È tutto iniziato un po’ di tempo fa quando ho trovato un libro delle sue fotografie in un negozio e le ho amate immediatamente. Poi l’ho cercata su internet e ho scoperto che potevo comprare un altro suo libro fotografico direttamente dal Giappone. Dal suo sito personale mi ha risposto lei stessa: è una persona squisita, mi ha detto che aveva vissuto per un anno in Germania, a Berlino, e che aveva amato la Germania. Tra l’altro abbiamo scoperto di avere delle conoscenze in comune, una band giapponese per cui ha creato la copertina dell’album. Mi sono ricordato di questa conversazione e nel frattempo Lieko è diventata famosa ma ho pensato, chissà magari ci darà l’autorizzazione ad usare le sue foto per il disco. E così le ho scritto di nuovo e lei è stata gentilissima e si è dimostrata entusiasta all’idea di contribuire in qualche modo e insieme abbiamo scelto queste foto. E noi consideriamo la sua presenza sul disco e il suo contributo molto importante, tanto quanto la presenza degli ospiti musicali come Ben LaMar Gay e tutti gli altri”.

Stiamo vivendo un periodo molto particolare in questo momento con la pandemia e diverse restrizioni a livello mondiale. Vedo che siete tutti nella stessa stanza, come vi stanno trattando in Germania, quali sono le regole da seguire?

Markus: “Siamo in un periodo di lockdown versione light, i negozi sono aperti ma i ristoranti e tutte le venue culturali, i musei, i cinema e i teatri sono chiusi e sono sicuro che tantissimi club non riapriranno più perché quello che sta succedendo li sta uccidendo. E dappertutto dobbiamo osservare il distanziamento sociale. A parte la famiglia puoi vedere fino a cinque persone nel rispetto delle regole”.

Durante l’estate, quando le regole erano più elastiche, siete riusciti a suonare davanti al vostro pubblico. Avete iniziato a presentare i nuovi brani in quelle occasioni?

Cico: “Abbiamo fatto un concerto davanti al pubblico e un altro concerto in cui abbiamo suonato nella versione acustica dei Notwist e poi abbiamo fatto un paio di concerti in streaming. Come Notwist non abbiamo fatto tanto ma nelle nostre incarnazioni più piccole abbiamo fatto dei concerti per strada e nei cortili. Markus e Micha hanno fatto dei concerti sui tetti e le persone chiuse in casa potevano vederli dai loro balconi”.

Avete scelto di pubblicare il vostro nuovo disco, Vertigo Days, a fine gennaio, pensate che riuscirete a iniziare la promozione nel futuro immediato?

Cico: “Abbiamo in programma dei concerti a fine gennaio e a marzo ma sinceramente soprattutto quelli a gennaio non sono realistici. Abbiamo in programma dei concerti in versione acustica a marzo ma per quanto riguarda dei concerti veri e propri tutti dicono non si potranno fare prima del prossimo autunno. Stiamo morendo dalla voglia di suonare dal vivo!”.

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