Il flauto e l’estasi della ripetizione – Riflessione (disordinata) su Florian Schneider e sui Kraftwerk

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di Mauro Fenoglio

All you daughters and sons
Who are sick of fancy music
We dig repetition
Repetition in the drums
And we’re never going to lose it

(The Fall, Bingo–Master’s Break–Out, 1978)

“La scienza e la tecnologia si moltiplicano attorno a noi. Dettano il linguaggio con cui parliamo e pensiamo. O usiamo quei linguaggi, o rimaniamo muti”.
(J. D. Ballard)

Parte 1 – DEL FLAUTO E DELLE AUTOSTRADE

In principio era il flauto. Un uomo lo porta alla bocca sulla sommità di una collina e prova a trarne suono. Potrebbe essere iniziato tutto cosi 30 o 40.000 anni fa. Uno dei flauti più antichi è stato scoperto nella grotta di Hohle Fels, a Ulm in Germania. Aveva la forma di una V ed era ricavato da un osso d’avvoltoio. Un flauto, in Germania, e tutto inizia. Sembra davvero buffo. Chissà se Florian Schneider lo sapeva. Chissà se avrebbe mostrato un abbozzo di sorriso, uno dei suoi, elusivi ma carichi di un’umanità gentile, davanti al sottile gioco delle coincidenze. Il suo primo strumento era proprio il flauto, all’Accademia delle Arti a Remscheid, Germania, prima che tutto iniziasse. Quando incontra Ralf Hütter, nel 1968, prima di fondare con lui due anni dopo i Kraftwerk. Florian se n’è andato definitivamente il 7 maggio 2020 e con la sua dipartita, in qualche modo, tanti cerchi si sono chiusi. Difficile dire qualcosa di nuovo sull’enormità dei Kraftwerk per la musica moderna. Tante parole sono state giustamente spese, tante analisi fatte sulla loro importanza (fra i tanti contributi, il capitolo a loro dedicato da Davis Stubbs nel suo libro sul Krautrock, Future Days, e il commovente ricordo di Simon Reynolds per NPR in questi giorni). Cercare di racchiudere una parabola che unisce musica a un’idea di futuro, al progresso, alla tecnologia è un po’ come cercare di sintetizzare le ragioni stesse della storia del ‘900. Tante volte i Kraftwerk sono stati paragonati ai Beatles, sia per la loro importanza capitale per la musica popolare, sia per la presenza di due amici / rivali (Schneider e Hütter) che ne riassumevano, con le loro singolarità, le varie anime. In realtà ci sono differenze. L’oggetto musicale del quartetto di Liverpool (quel modo aureo di creare una canzone, nella cura delle sue linee armoniche, nei suoi cambi melodici) rimane comunque legato a loro come gruppo e riferimento, anche a distanza di decenni, attraverso chi ne ha ereditato il modus operandi creativo. Nel caso del quartetto tedesco, le direttrici tracciate per lo sviluppo elettronico, sono diventate oggetto che prescinde da loro come autori. Le modalità con cui produttori e sound designer hanno imparato ad interagire con le macchine sono certo basate sui loro primi esperimenti, sui loro teoremi, ma il valore specifico sta proprio nell’averli lasciati ad un’umanità varia, che li ha declinati nel tempo secondo narrative nuove, in ambienti a loro impensabili, molto spesso non riportabili direttamente a quel rigore teutonico e stilizzato. Ma come mai la morte di Schneider colpisce così tanto, quando i Kraftwerk esistono ancora attraverso Hütter? Forse perché Schneider è uscito di scena nel 2008, quando tutto era già stato ampiamente detto (il periodo cruciale del gruppo va dal 1974, anno di Autobahn, al 1986 di Electric Cafè), lasciando al compagno la sola rappresentazione, sublime ed eterna, del lato più visuale e immediatamente iconico del concetto uomo – macchina. Forse, perché Florian, figlio dell’architetto Paul Schneider-Esleben, (che disegnò l’aeroporto di Bonn / Colonia e trasmise al figlio quell’entusiasmo innocente per la tecnologia e il progresso, imparato fra le linee essenziali del BauHaus) alla fine era l’ultimo retaggio umano dei Kraftwerk. L’anello mancante fra il flauto e il Kling Klang (lo studio “portabile” del gruppo). Con quel sorriso elusivo, con le sue rare (ma molto divertenti e surreali) apparizioni ed interviste, il suo dichiarato amore per gli asparagi, Florian è sempre stato conscio del lato umano della sua opera, dei rischi nascosti dietro l’abbraccio ebbro fra uomo e tecnologia. Come ebbe a dire a Lester Bangs in una celebre intervista del 1975, proprio agli albori della trasformazione definitiva dei Kraftwerk, “Una persona che fa musica sperimentale deve essere responsabile del risultato di tali esperimenti. Possono essere molto dannosi a livello emozionale”. Per poi spiegare con tranquillità al famoso giornalista, cosa lui intendesse per emozione: un moto non solo del cuore, ma anche mentale. Buffo che Florian sia partito dallo strumento più antico del mondo per arrivare a ridisegnare il futuro della musica del ‘900. Quasi che fosse uno dei suoi scherzi, celati dietro quell’abbozzo di sorriso. La sorgente della musica, la sua origine e il suo traguardo. La celebrazione dell’opera attraverso il commiato dell’uomo. Il flauto, che ancora si ascolta dietro le linee dritte verso il sol dell’avvenire, mentre si guardano le automobili veloci scorrere sull’autostrada, nell’Autobahn disegnata per loro da Conny Plank, nel 1974. La fine del flauto che lascia la scena a qualcos’altro.

Parte 2 – RIPETIZIONE RIPETIZIONE RIPETIZIONE

Nel 1977 l’Europa è all’apice come idea e terreno di sfida. Due blocchi si contrappongono, con entusiasmo e violenza, ognuna con la sua idea di mondo, che sia esso il futuro parco giochi dell’individuo o il tesoro della collettività. È scontro e creazione, fra cortine di ferro ed edonismi nascenti, fra generazioni che non si ascoltano, fra campagna che muore e città che promette, fra fabbrica e commercio. L’Europa e terreno strategico, campo di battaglia d’idee e di paure, sogno di libertà. Ed è dal cuore del continente che parte un treno. Il Synthanorma Sequencer, un mostro analogico a 32 passi e 16 canali, progettato dall’azienda Matten & Wiechers per i Kraftwerk, detta il ritmo del viaggio. Che parte da Parigi e incontra David Bowie e Iggy Pop, benedicendo l’epica berlinese per i secoli a venire. Che è la prima epopea paneuropea, decenni prima che si possa parlare di Europa unita, ma è anche punto nodale nello sviluppo della musica elettronica dei decenni successivi. La sequenza Trans-Europe Express, Metal On Metal e Abzug nell’album del 1977 è il definitivo salto di specie del concetto di ripetizione come motore creativo. Dai circoli ristretti dell’avanguardia più concettuale alle molteplici espressioni del pop. In quel tragitto di quasi 13 minuti, ritmato dallo sbuffare sincopato del sequencer, si nascondono tutte le possibilità d’applicazione del concetto di ripetizione alla musica popolare. E non si parla solo di campionamento, ma del concetto stesso della riproduzione di una traccia all’infinito come strumento d’espressione, anche, e soprattutto, emozionale. Ian Curtis che chiede ai compagni Joy Division di utilizzare la musica di Trans-Europe Express per introdurre i loro concerti (cosa che farà anche Madonna in seguito con Metal On Metal) è un cerchio che si chiude, su una delle più dolenti applicazioni della ripetizione della storia della musica pop, per narrare il tormento umano. E cosa dire del paradigma della ripetizione, come base d’operazioni necessaria per dare modo agli Autechre d’avventurarsi fra gli spigoli delle loro astrazioni. E cosa sarebbe dell’IDM di Aphex Twin, se non avesse scoperto il codice della ripetizione, come fondamenta su cui costruire, mattone su mattone, le sue architetture post ambientali. E cosa sarebbe stato dei Daft Punk, figli robotici irriverenti, perduti nel loro carnevale interstellare Discovery, dove la ripetizione diventa euforia. E pensare che nello stesso anno esce un altro disco che immerge mirabilmente il concetto di ripetizione nel pattume della melma urbana. L’esordio omonimo dei Suicide è il rovescio sudicio della medaglia delle speranze di Trans-Europe Express. Come dice Martin Rev nella loro biografia “I Kraftwerk non erano radicali come noi nel formato, per cui potevano attrarre più persone. Con noi, la maggioranza urlava – Se questo è il futuro, non lo vogliamo!”. In qualche modo un riconoscimento d’affinità. La lista di spunti sarebbe interminabile, per dire di quanto valga l’inizio di quel viaggio in treno. Lo sbuffo del sequencer, Parigi, Vienna, Berlino. L’Europa come arcadia tecnologica che sfreccia davanti allo sguardo innocente di Florian. Molto, se non tutto, inizia così.

Parte 3 – FRAMMENTI DI VITA

Se si parla di British Invasion, quando si analizza l’arrivo dei Beatles in America negli anni 60, si dovrebbe parlare di ennesimo scherzo del destino per i Kraftwerk. Certo, il campionamento di Trans-Europe Express e Numbers operato da Afrika Bambaataa per la sua Planet Rock, nel 1982, lancia la festa dell’electroclash, di cui si sentirà l’eco fino (almeno) a fine secolo. Le possibilità pop della ripetizione, svelate e confermate su larga scala. Ma l’esperimento più eccitante (e paradossale) si compie a Detroit. Siamo a cavallo fra la fine dei 70 e l’inizio degli 80. Detroit non è più il sogno metropolitano di Motor City, la città fabbrica, dove l’industria regala progresso. La crisi del petrolio e l’automazione crescente la trasformano in un incubo post industriale, dove l’unica salvezza aggregativa sono i rave e la musica. Il DJ cittadino Electrifying Mojo fa suonare ripetutamente Trans-Europe Express e We Are The Robots. dalle frequenze del suo programma Midnight Funk Association. Un gruppo di compagni di liceo, Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson (passeranno alla storia come Belleville Three) ascolta avidamente e impara in tempo reale. Riconoscono nell’epica algida di quelle ripetizioni, uno strumento per dare forma al suono post industriale della loro città. Nasce la techno. Uno dei più affascinanti manifesti di post umanità emozionale. Sembra quasi paradossale che un gruppo d’accademici tedeschi, abbia cosi tanta influenza su un genere cosi radicato nella realtà della comunità di colore, cosi legato (almeno all’inizio) ad una città americana, a migliaia di chilometri da Dusseldorf. Eppure, il futurismo pulsante che anima la linearità dei Kraftwerk, il superamento dell’umanità cercato come orizzonte ultimo, diventano motore creativo per una comunità di produttori giovani che, altrimenti, si sarebbe abbandonata alla desolazione di una città in decadenza post industriale. Derrick May ne da una descrizione perfetta: “la techno è come avere George Clinton e Kraftwerk chiusi in un ascensore, con solo un sequencer a fare loro compagnia”. Un’affinità sempre riconosciuta anche dei tedeschi (Hütter è sempre stato un fan degli Stooges e della Detroit pulsante e violenta degli anni 60 -70) che hanno suonato più volte in città. Se volete un memoriale, cercatelo nell’apice emozionale di quella meraviglia di Strings Of Life di Derrick May (a nome Rhythm Is Rhythm), che completa l’allunaggio della ripetizione nel dancefloor. Oppure fra gli abissi liquidi (e digitali) dei Drexciya, dove la ripetizione diventa magia minimale. Il flauto non ha mai viaggiato cosi lontano, per scoprire il cuore malinconico dell’uomo dietro alle macchine.

Parte 4 – COMMIATO

Il lascito di Florian Schneider è in tutte le parole amorevolmente spese da altri (e in parte in questo estremo tentativo di raccogliere disordinatamente qualche traccia ulteriore) e nella sua musica. L’uomo non ha mai amato parlare di sé. Forse non ne ha mai avuto veramente bisogno. Le istruzioni per l’uso sono tutte nei suoi dischi. L’avvenire è, ancora e nonostante tutto, una possibilità per chi verrà dopo. Il 900 ha fatto tutto quello che c’era da fare. Nel 2020, fra Marzo e Maggio, ancora per incredibile paradosso, sono scompars* due delle colonne portanti delle musiche più avventurose del 900. Prima Genesis P Orridge dei Trobbing Gristle, l’essere che ha indagato, mettendo in gioco il proprio corpo, sul concetto di mutazione nella società post industriale. Poi Florian Schneider dei Kraftwerk, lo sguardo innocente sulle possibilità della tecnologia, prima che il futuro perdesse completamente forma. Due artisti che hanno regalato la propria esistenza umana all’opera che hanno rappresentato con dedizione. Se ne sono andati entrambi, senza farsi vincere dal virus del 21esimo secolo, vittime di mali incurabili del secolo scorso. Coincidenza e paradosso ancora una volta. Come se, in un momento in cui il futuro diventa una nebulosa che atterrisce, il 900 avesse capito che era arrivato il momento di passare la mano. Il flauto torna nell’astuccio, il lattice soccombe alle ferite. La missione è compiuta. L’Europa è ormai un concetto marginale e il futuro sta in qualche cameretta in Venezuela, a El Cairo, in Corea, a New York o a Los Angeles. Ovunque voi siate: Arca, Zuli, Yaeji, Caterina Barbieri,100 Gecs, ora tocca davvero a voi. Repetition, repetition, repetition.

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