Intervista ai Julie’s Haircut: “L’unica cosa che ci accomuna tutti è l’ascia della mortalità”

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di Letizia Bognanni

Nel silenzio elettrico dei Julie’s Haircut è racchiuso un mondo fatto di mille suggestioni. Suggestioni musicali, visive, artistiche a 360 gradi, curiosità, spiritualità, viaggi, fisica e metafisica. In The Silence Electric è il titolo del nuovo album della band, l’ottavo, il nono se consideriamo (e dobbiamo considerarla) la colonna sonora Music From The Last Command, un doppio che di fatto rende questo il loro secondo album dell’anno. Un disco che nasce da un processo di “osmosi” con la musica: “Abbiamo accolto gli imprevisti, lasciando che fossero le canzoni a guidarci alla loro forma finale, piuttosto che cercare di forzarle verso una direzione precisa”, spiega infatti Luca Giovanardi, dal quale ci siamo fatti raccontare in cosa consiste questo processo: e dalle risposte, allo stesso modo in cui viene fuori un disco dei Julie’s Haircut, è nata una conversazione libera, si potrebbe dire jazz, che passa dalle improvvisazioni in studio alla psicologia junghiana e alla psicomagia di Alan Moore, dalle osservazioni pragmatiche su quanto è difficile fare un certo tipo di musica in Italia alle speculazioni sul tempo di Sant’Agostino. Prendetevi il tempo per leggerla tutta. E per ascoltare l’album.

Parliamo del disco, in particolare mi ha incuriosito questa descrizione: “realizzato attraverso un singolare processo di osmosi”. Cosa significa?

“Be’ diciamo che a volte i comunicati stampa vengono scritti da persone, in questo caso uno scrittore inglese, che interpretano a modo loro quello che noi potremmo aver detto durante un colloquio, poi il problema è che a noi tocca fare le interviste e cercare di fare l’esegesi di quello che volevamo dire (ride). Com’è? Un particolare processo di osmosi… per di più in questo caso è una traduzione dall’inglese, comunque penso che quello che volesse dire è che per quanto ci riguarda, ma è così già da un po’ di anni, la produzione dei nostri dischi viene fatto attraverso un procedimento che non è esattamente quello che viene seguito per la stragrande maggiornza delle produzioni discografiche, nel senso che noi molto raramente entriamo in studio con un’idea precisa e chiara di tutto quello che c’è da fare, con uno schema… anzi devo dirti che dopo un po’ di anni un pochino invidio quelli che entrano in uno studio di registrazione e magari hanno già appesa al muro la tabella di marcia, a volte mi capita di vedere in studio queste cose di gruppi che stanno registrando o hanno appena finito, con le caselline riempite, a noi non succede mai. Il nostro modo di lavorare è apparentemente molto disordinato ma in realtà non è questione di ordine o disordine ma appunto di un procedimento che va avanti lasciando il più possibile libere le canzoni di svilupparsi verso una direzione che viene dettata dalle canzoni stesse mentre vengono fatte, è un po’ difficile da spiegare. Per la verità per questo album in un certo senso rispetto agli ultimi tre o quattro dischi è quello dove questo procedimento è stato tenuto più a briglia, perché ci sono meno improvvisazioni, siamo arrivati in studio con alcune canzoni già un pochino impostate, che per noi è una rarità, alcuni dei dischi precedenti nascevano totalmente da improvvisazioni in studio. Però lo stesso, pur tornando a una certa forma-canzone non abbiamo voluto in nessun modo imbrigliarla nei cliché della struttura della canzone classica, e per fare questo abbiamo proceduto soprattutto cercando un’idea di suono più che di strutturare le canzoni secondo il classico schema strofa-ritornello-ponte etc. Abbiamo cercato di lasciarci affascinare da una certa idea di suono però in canzone, alla base di ogni canzone c’è un ambiente sonoro che ci affascinava e ci piaceva e su quello abbiamo iniziato a costruire la canzone. Non so se si possa parlare di “osmosi” ma credo che intendesse dire che le canzoni sono cresciute in maniera molto organica e naturale all’interno dello studio di registrazione e non erano, come dire, predestinate”.

A questo proposito, spesso com’è ovvio si leggono paragoni con altri artisti, io però nel vostro caso ho spesso l’impressione che più che da altra musica siate ispirati da forme di arte diverse, da visioni, dal cinema… è così?

“Sicuramente, ma da sempre, per noi è anche difficile dare dei riferimenti musicali, capisco che ci sia bisogno di far inquadrare un disco, ma la verità è che noi siamo degli ascoltatori onnivori, poi siamo sei musicisti, quindi sei teste pensanti, ognuno coi propri gusti e le proprie preferenze ovviamente, abbiamo tanti ascolti in comune, cose che piacciono a tutti, ma ci sono anche cose che ad alcuni piacciono mentre altri le detestano, per cui è difficile per noi riuscire a trovare riferimenti sonori così precisi. Poi è ovvio che non scriviamo su un’isola deserta, ci sono delle influenze evidenti nella nostra musica, che si inserisce in una tradizione ed è lontano da noi volerlo negare, però effettivamente quando siamo in studio non pensiamo mai ‘voglio fare una canzone che suona come…’, magari quando avevamo vent’anni poteva succedere, perché sei più acerbo, hai meno sicurezza. Adesso come adesso abbiamo fatto pace col fatto che abbiamo tonnellate di ascolti sulle spalle, di tonnellate di generi differenti, per cui tutte queste cose vanno a confluire nella musica che facciamo, e diventa difficile secondo me andare a isolare ‘questa cosa mi ricorda questo o quell’altro’, anche perché a persone diverse ricorderà cose diverse. Credo che la band sia matura e abbia una sua personalità, non abbiamo bisogno di questi riferimenti. Come dici tu, credo che un bel libro o un bel film che ti ha colpito molto possa essere un’influenza anche maggiore rispetto a un bel disco che hai sentito molto ultimamente, anche perché la musica che facciamo ha anche un riferimento visivo molto importante, anche se non è necessariamente accompagnata da immagini, però è una musica molto immaginifica, questo aspetto è importante. È più facile che io venga sorpreso, soprattutto negli ultimi anni, da un film che non conoscevo piuttosto che da un disco. I dischi che mi colpiscono così profondamente sono rari, ci sono e c’è anche tanta musica contemporanea che mi piace, però effettivamente quel moto di sorpresa che ti mette dentro una scintilla che magari ti fa scaturire qualcosa è davvero più facile che mi venga da una lettura o dalla visione di un film, perché la musica ormai l’ho scansionata in lungo e in largo per decenni. Anche il resto, però la musica, facendola anche, risulta meno sorprendente per questi aspetti. Credo che valga così anche per i miei compagni di band ma credo che funzioni così in generale, in tutti i lavori creativi se uno vuole andare a cercare delle influenze sono influenze che derivano da qualsiasi cosa fai nella vita”.

Fra l’altro prima di quest’album avete lavorato proprio con il cinema, con la sonorizzazione di The Last Command. Com’è andata?

“È stata una cosa interessante e anche impegnativa, perché fra l’altro è capitato esattamente in mezzo al tour dell’album precedente, per cui eravamo parecchio impegnati, però la proposta ci è arrivata dal Museo del Cinema di Torino, era molto stimolante e l’abbiamo colta al volo nonostante fosse un periodo particolarmente impegnato. È stato impegnativo ma anche molto gratificante, tanto è vero che abbiamo fatto cinque o sei repliche dal vivo e nel frattempo poi in un weekend abbiamo registrato la colonna sonora – ecco anche questa è una cosa interessante anche da un punto di vista discografico perché in un anno pubblicheremo due album di cui uno doppio a neanche sei mesi di distanza, una cosa un po’ d’altri tempi, quasi anni 60. è una cosa singolare però è il frutto di un periodo che risale alla metà del 2017 in cui veramente abbiamo lavorato molto sodo, abbiamo fatto tantissima roba fra cui anche questa sonorizzazione, che è stata un’esperienza bella perché ci ha permesso innanzitutto di esplorare territori che non esploreremmo in un nostro disco di inediti, a livello di sonorità ma anche di scrittura: ci sono dei pezzi quasi funk, dei pezzi di elettronica, è molto varia e ci siamo divertiti ad esplorare anche strumenti diversi dal solito… e poi è stata una bella esperienza perché è durata solo due giorni, i 17 pezzi della colonna sonora, siccome era un bel pezzo che non facevamo l’esperienza di arrivare in studio, come dicevo prima, con un’idea precisa di tutto quello che dovevamo fare, perché la colonna sonora l’avevamo scritta, suonata, imparata, suonata dal vivo, sapevamo esattamente tutti i temi com’erano, l’abbiamo dovuta un po’ condensare rispetto al film, che dura un’ora e mezzo, e l’abbiamo registrata dal vivo in studio nel giro di due giorni. Un lavoro velocissimo e devo dire soddisfacente, mi piace com’è venuta fuori, è molto naturale”.

A proposito di esperienze inusuali, da dove viene questa fascinazione che si avverte spesso, nei titoli ma non solo, anche nel vostro immaginario in generale, per rituali, esoterismo, magia?

“È un interesse che per la verità viene da molte parti. Personalmente viene da un interesse che ho da molti anni da un lato per la psicologia junghiana. Io sono sempre stato uno molto scettico nei confronti della scienza psicologica, mentre invece mi sono completamente innamorato di Jung proprio perché ha un approccio assolutamente scientifico da un certo punto di vista, ma dall’altro fa molto molto leva sul mondo della sfera emotiva umana. E oltre a lui c’è tutta un’altra serie di autori che usano l’argomento della magia, un argomento molto frainteso in generale, come perno per spiegare la condizione umana. Io come Alan Moore, che è un altro dei miei eroi, sono convinto che effettivamente dall’illuminismo in poi tutto quello che era l’aspetto magico dell’uomo sia stato eccessivamente spazzato sotto il tappeto, in nome di un positivismo e di una presunta capacità della scienza di poter rispondere a qualsiasi quesito. Secondo me il fraintendimento e la paura forse degli stati magici dell’uomo deriva dall’idea che ci si è fatti che la magia sia una sorta di ciarlataneria. In realtà tutte le scienze prima dell’illuminismo erano intrise in qualche modo di un aspetto magico, eppure erano scienze. Mi viene in mente parlando di Jung la storia dell’alchimia, che è una scienza magica, ma scientifica, dall’alchimia nasce anche la moderna farmacologia. L’idea che possa convivere il lavoro di laboratorio con un lavoro di ricerca interiore. Questo aspetto mi piace molto, sono convinto che la condizione umana non sia scissa a metà fra queste due cose, ma che queste due cose siano complementari, che l’aspetto razionale e l’aspetto emotivo siano continuamente presenti nell’uomo, e se tu cerchi di eliminare uno dei due in nome dell’altro in qualche maniera ti fai una violenza. E questa violenza secondo me è totalmente presente nel mondo di oggi, che non a caso recupera gli aspetti magici sbagliati, più cialtroneschi, come se sentisse questa mancanza, questo vuoto, a cui per esempio le religioni hanno risposto per tanto tempo, adesso c’è una crisi nei credo tradizionali, ma bisogna fare attenzione, io mi reputo un agnostico, non sono credente di nessuna confessione religiosa, però credo che non si debba pensare che le risposte che venivano date da questi tipi di culti più o meno ufficiali fossero idiote di per sé. C’è comunque una evidenza umana che è quella della sfera emotiva, che è quella del nostro inconscio, che se non trova una risposta la deve andare a cercare in maniera anche violenta. E questo secondo me è un aspetto di cui poco ci si cura e che invece è importante. Per cui in questo senso ci interessa molto. Ci interessano quelle scienze che bene o male indagano anche questi aspetti della natura umana e non si fermano al materialismo puro”.

Invece questo senso di soffocamento, di oppressione che ammettete essere presente nel disco, a partire anche dall’immagine di copertina, a cosa è dovuto?

“Un senso di soffocamento c’è, è evidente, anche nella musica, è difficile da spiegare ma penso che sia una diretta conseguenza di come viviamo il mondo oggi. Noi in realtà non siamo persone così tristi, io sono felice nel mondo, però nello stesso tempo non è un mondo che mi piace e di cui essere soddisfatti, è un mondo che è pieno di dinamiche che vanno assolutamente contro quello che io penso sia buono. Per cui evidentemente a livello sonoro abbiamo restituito questo senso un po’ anche di impotenza. È un momento davvero strano questo, perché è difficile individuare anche i nemici veri, è un momento in cui per esempio nonostante viviamo ancora in una realtà scientifica positivista, allo stesso tempo siamo nel momento storico della verità liquida, voglio dire c’è sempre stata una fede indefessa nell’esistenza di una verità, mai come oggi invece il concetto di verità è qualcosa di cangiante, difficile da afferrare, anche nelle cose banali: leggi una notizia e devi sempre prenderti due o tre giorni di tempo per cercare di capire se questa notizia era vera o completamente inventata o aveva un fondo di verità ma era stata raccontata nella maniera completamente sbagliata. E questo succede dove l’informazione e la comunicazione è sempre più istantanea, deve essere sempre solo ora e adesso, non c’è più il tempo di elaborare le informazioni e anche le emozioni che ti suscitano queste informazioni, e questo è molto problematico, soprattutto nel momento in cui non puoi fidarti del tutto di queste informazioni: se è una notizia che ti fa arrabbiare, se è una notizia che ti fa piacere, prima di capire se è affidabile o meno devi prenderti il tempo, e questo prendersi il tempo non va molto d’accordo col mondo odierno. In questo io vedo una problematicità difficilmente risolvibile”.

È una cosa che si può dire anche della musica. La vostra ad esempio è un tipo di musica su cui occorre soffermarsi, e spesso non viene data oppure non ci diamo noi questa possibilità, presi come siamo dall’”obbligo” di dover ascoltare immediatamente “il disco dell’anno del giorno”.

“Sì, sono conseguenze di quello che dicevamo prima, è tutta una rincorsa a mangiarsi il tempo, come se noi potessimo vivere al di sopra del tempo. Ma il tempo è una cosa seria! Sant’Agostino, che ha scritto secondo me le più belle pagine in assoluto sul concetto di tempo, lo analizza usando come contraltare il tempo divino: il tempo di Dio, dice Sant’Agostino, è un tempo che non si muove, è un tempo immobile ed eterno. Quella è l’eternità. Il mio senso di mortalità deriva dal fatto che percepisco di non poter vivere il tempo in quel modo. Se questa cosa qui diventa esasperata… A me sembra che adesso corriamo continuamente dietro al tempo cercando di mangiarlo, e siamo sempre più incoscienti della nostra condizione di mortali. Tutti vivono come se fossero eterni, e non è così, e anche qui si creano degli scompensi che poi portano a delle problematicità. E nella musica certo che è così, anche perché il mercato musicale è davvero talmente strano da risultare inspiegabile: escono centinaia di dischi in un mercato che è crollato completamente. Se tu vedi la curva di quanto funzionava il mercato, a livello proprio economico, man mano che questo decresceva, aumentava l’offerta. È una cosa molto strana, di solito quando una cosa non ha successo si smette di farla. Invece, credo ovviamente, sicuramente per via delle nuove tecnologie che hanno reso tutto molto più economico, veloce e accessibile, il che secondo me è una buona cosa, si è moltiplicata la possibilità di produrre cose che però vanno ad asfissiare il mercato, per cui davvero diventa difficile anche darsi il tempo di amare un disco, perché i dischi veramente belli non sono quelli che, oddio per carità, ci sono le cose talmente belle che le senti la prima volta e bum, è amore al primo ascolto, però ci sono anche tantissimi dischi che hanno bisogno di essere conosciuti, ci devi entrare dentro, anche dal punto di vista sonoro. Ad esempio il nostro non è un album che dal punto di vista del suono ti accalappia immediatamente, hai bisogno di entrarci dentro, probabilmente ci vogliono uno, due, tre ascolti per riuscire a entrare dentro a quell’ambiente sonoro. Poi magari se ci entri dentro ti regala anche qualche cosina in più, però ci vuole il suo tempo”.

Che oggi sembra di non avere perché appunto, sembra che tu debba ascoltare tutto subito, perché poi devi parlarne.

“Esatto, anche parlare delle cose, non è un obbligo. Capisco che per te possa esserlo, però anche il giornalista musicale non ha l’obbligo, secondo me, di dover parlare di tutto, altrimenti non hai la possibilità di conoscere nulla. Non esiste un umano in grado di consumare tutta la musica che esce ogni giorno. Ormai esce troppa roba, ed è molto difficile riuscire a individuare delle cose davvero valide in mezzo a questa marea. Perciò davvero per il benessere personale uno dovrebbe ogni tanto, non solo nella musica, ma in generale, fare un passo indietro e cercare di recuperare il tempo per riuscire a godere delle cose, proprio perché l’unica cosa che ci accomuna tutti è questa: l’ascia della mortalità. Ecco, secondo me renderti conto di essere mortale non deve portarti a fare la corsa, a dire ‘oddio, devo fare tutto perché domani posso morire’, no, devo godermi il più possibile le cose che mi piacciono perché domani posso morire”.

Parlando di cose più prosaiche, proprio oggi leggevo un articolo che parlava di una tendenza – che poi non so se si possa definire tendenza, secondo me si è sempre fatto – dei musicisti italiani ad andare molto a suonare all’estero. Voi ci avete sempre suonato, ci sono delle differenze effettive oppure magari è un falso mito quello che fuori dall’Italia sia tutto più bello?

“Certo che ci sono delle differenze, ogni paese ha le sue specificità, ha dei pubblici diversi, tradizioni diverse, quindi è ovvio che ci sono differenze. Poi da qui a dire meglio o peggio, dipende, andare a suonare all’estero vuol dire tutto e niente, bisogna vedere il tipo di esperienza singola: se sei il cantautore che va a suonare a Berlino in un locale da 300 paganti dove vanno tutti gli immigrati italiani stai facendo un tipo di esperienza. Se sei una band come noi ad esempio, che non ha un seguito di massa, e va a Berlino a suonare per i berlinesi è diverso, ti stai creando un pubblico differente che è al di fuori della tua sfera culturale. Per me è comunque un bene, è un’esperienza che ti fa crescere tantissimo ed è anche giusto che anche l’Italia cerchi di fa conoscere le sue cose al di fuori. Il problema semmai del nostro paese è che le cose che vanno per la maggiore all’interno del nostro territorio sono totalmente insignificanti al di fuori dell’Italia, mentre in altri paesi alcune cose che funzionano sono esportabili. Da noi invece dal mio punto di vista mi sembra di vedere che abbiamo delle cose di nicchia che funzionano a livello internazionale, quello che facciamo noi per esempio, oppure Zu, ce ne sono tante di band italiane che hanno un proprio pubblico di nicchia anche fuori che non è fatto di italiani all’estero, però sono appunto di nicchia, mentre le cose grosse che da noi vanno per la maggiore sono cose che all’estero vengono percepite come qualcosa di piuttosto irrilevante. E questo fa sì che l’Italia non venga considerata un paese che porta della grandissima musica. A me ad esempio quando vado in Inghilterra capita continuamente di parlare con il nostro pubblico, con addetti ai lavori, e chi segue la musica cosiddetta alternativa o indipendente, l’Italia continua a conoscerla solo per le cose di quarant’anni fa, tipo il prog anni 70, il primissimo Battiato e queste cose qua, mentre il cantautorato di oggi è totalmente irrilevante, per non parlare della trap che da loro ormai è preistoria. Siamo un pochino indietro, c’è gente valida ma mancano forse anche un po’ le strutture, tant’è che anche noi alla fineper riuscire a realizzare qualcosa di decente siamo andati a lavorare per un’etichetta inglese. Se vuoi fare quello che facciamo noi, in Italia in questo momento a chi fai riferimento? E al di là di gruppi come noi che hanno una lunga storia alle spalle faresti fatica anche a trovare un pubblico. Ecco, per dire anche qualcosa di positivo, mi sembra che in ambito elettronico siamo un pochino più avanti, forse proprio perché è una musica che di per sé è meno legata a una tradizione territoriale, nasce e si sviluppa in un periodo in cui già si erano un po’ aperti i confini, per cui in quell’ambito mi vengono in mente dei nomi che hanno più rilevanza internazionale, ma è comunque gente che esce dall’Italia per lavorare. Mi piacerebbe vederli crescere qui, solo che diventa anche inutile perché poi ti rendi conto che le cose che funzionano qui fuori dal paese sono irrilevanti, quindi fa molto più comodo sedersi in poltrona e far crescere queste cose sul tuo territorio, limitarti a quello, tanto funzionano. Secondo me manca lo spirito anche un po’ incosciente, un po’ sbruffone, di essere convinti di fare della roba che può piacere qui ma anche a un inglese, un americano, un giapponese. Poi sono convinto che anche noi, nel fare questa sorta di avant rock, non so come chiamarlo, essendo italiani ed emiliani lo faremo sempre all’emiliana, ed è quello il valore aggiunto, che ti fa essere diverso dalle miriadi di gruppi inglesi, per cui il pubblico a cui cominciamo a piacere è proprio quello che sente in noi, credo, qualcosa di diverso rispetto alla maniera che hanno i loro autoctoni di fare quella roba lì. Ed è una cosa che noi abbiamo sempre avuto, fin da ragazzini quando non c’erano le strutture né le possibilità per diventare un nome internazionale. Noi abbiamo sempre pensato di essere un gruppo italiano sì, ma non un gruppo fatto per il pubblico italiano, il nostro intento era fare una musica che piacesse a tutti, non agli italiani”.

A proposito di ragazzini ma anche di psicologia, io ho una memoria che funziona in modo strano, mi restano in mente delle cose assurde, e mi ricordo per esempio una vostra mini-intervista, forse una rubrica su una rivista, di vent’anni fa, in cui elencavate “cose che sono Julie’s Haircut/Cose che non sono Julie’s Haircut”, e ne veniva fuori un’immagine parecchio nerd, mi sembra che abbiate mantenuto abbastanza questo spirito outsider.

“Sì, forse da ragazzini eravamo ancora più alfieri di un sentirsi fuori dalla massa, poi sai maturando, invecchiando, sono cose che ti interessano meno, ma soprattutto te ne curi meno perché fanno ormai parte del dna, non hai bisogno di star lì a sottolinearle, però sicuramente ci sono cose che ci appartengono e cose che non ci appartengono. Ora non ho idea di che intervista fosse e ho i brividi a pensare a cosa avevamo potuto dire, si cambia molto nella vita, però è vero, noi agli esordi avevamo molto questo sentire comune nella band, che non era programmatico, però sicuramente c’era un’idea emotiva di quello che era il gruppo e le idee molto chiare su quello che faceva parte oppure no del nostro universo”.

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