Editoriale 323: Quello che non c’è

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Di Rossano Lo Mele

Solo negli ultimi mesi, sul mensile “Mojo” ha scritto di: il rapporto misterioso tra Robert Mitchum ed Elvis Presley. Le registrazioni semi clandestine di Laura Nyro. Le prime hit sconosciute di Frank Sinatra. Il bizzarro rapporto di collaborazione tra la songwriter “classica” Allee Willis e i Pet Shop Boys all’apice della loro popolarità. Fred Dellar è un fuoriclasse del giornalismo musicale e mi è capitato di pensare a lui durante un convegno dedicato proprio a questa professione. Quando si tengono incontri pubblici su questo tema si sa sempre da dove si parte – la traccia iniziale, il passaggio da carta a digitale – ma non si sa mai dove si finisce.

L’incontro, dicevo, tenutosi a Varese all’interno di un festival a tema (il mondo del giornalismo tutto) ospitava chi scrive e un paio di altri relatori. Franco Zanetti – firma storica delle cose di musica, beatlesiano, beatlesologo, nonché da oltre 20 anni una delle teste dietro il sito generalista Rockol – e Paolo Madeddu, che si definisce CEO di se stesso presso il sito amargine.it (in realtà ha firmato e firma su tante testate, ma il suo rapporto burrascoso con discografia ed editori l’ha portato a divenire per l’appunto l’editore di se stesso). Due menti fini con esperienze diverse che proprio la loro esperienza hanno portato al tavolo. Quale futuro è ipotizzabile per questo mestiere? Zanetti, che ne ha viste un tot, forse anche per ragioni anagrafiche tende a mostrarsi più scoraggiato. Racconta che il solo Rockol riceve una decina di candidature di collaborazione alla settimana (il che vuol dire che siamo oltre le 500 proposte l’anno, un numero non lontano da quello di “Rumore”). Gran parte dei ragazzi/e che si avvicinano al mestiere non conoscono le basi della lingua italiana, ha proseguito. Poi ci ha raccontato una storia quasi struggente: un po’ di tempo fa ha incontrato uno di questi candidati alla stazione di Milano Centrale. Arrivava lì da Roma con la mamma, perché troppo piccolo, appena diciottenne. C’era della stoffa nel ragazzo, racconta Franco. Parte la collaborazione con reciproca fiducia, ma ben presto il neo maggiorenne scopre che andare ai firma copie, realizzare e diffondere continui autoscatti con i cantanti di turno gli portava più visibilità sula rete. Addio collaborazione, per scelta del ragazzo, nonostante le basi di partenza per uno così giovane fossero incoraggianti. Non ci sono più soldi, racconta Zanetti, e non c’è più tempo per aspettare, oltre all’assenza delle nozioni di base. Manca – a differenza del passato, quando lui cominciò, negli anni 70 – la triade gratificazione personale, remunerazione e status sociale. La moderatrice chiede ai molti ascoltatori in sala quali sono le firme che seguono di più. Vengono fuori nomi consolidati del giornalismo musicale (il nostro sommo ex direttore, Claudio Sorge, Paolo Carù e poco altro). Il che conferma l’idea di Zanetti: un mondo interrotto. Con relativa sfiducia.

Madeddu, che ha eloquio elettrico e raffinato, oltre a un punto di vista originale, non è d’accordo. Osserva come lo storytelling ombelicale abbia portato questo mondo a una specie d’implosione, quello che potremmo definire un’auto fiction permanente. Io io io io. La narrazione che del resto anima i social media. Provo a sintetizzare il Madeddu pensiero: sprofondati in questo baratro, ci sono sostanzialmente solo due vie d’uscita per il giornalismo musicale contemporaneo. La prima consiste nell’affidarsi ai dati: puri, crudi, numerici, basici. Come fa per l’appunto Madeddu sul suo sito. Analizzare l’andamento delle produzioni discografiche a partire da cifre (album venduti, streaming, biglietti strappati). Una via forse poco poetica, ma con il pregio dell’oggettività (apparente, almeno). L’altra via di fuga – che condivido pienamente – consiste in quella che lui chiama il completamento. Ossia, in un mondo e in un tempo dove tutti parlano delle stesse cose – ciò che ha visibilità e ci sta sotto gli occhi, sempre, specie tramite i social media – vince chi è in grado di raccontare altro. Quello che sfugge. Quello che non c’è. Quello che è nascosto agli occhi, alle orecchie. C’è tanta musica in giro, ma ci sarebbe bisogno di molteplici punti di vista per analizzarla. Uno sguardo pulviscolare, laterale. Come ha scritto la formidabile giornalista inglese Laura Snapes (“The Guardian”, Pitchfork.com) non mandate richieste di collaborazione così tanto per, a siti e giornali. Spiegate chi siete, perché dovrebbero prendervi, sviluppate un progetto (o una serie) di articoli e interventi. Mostrate la vostra specialità, diversità. Fred Dellar ha ormai la faccia (e l’età) di un pacioso pensionato. Ma è ancora di quelli come lui che ha bisogno questo mestiere. A “Mojo” sono mica scemi: infatti non lo mandano in pensione e gli lasciano gestire una pagina di culto da anni. Nascosta dentro il giornale, da stanare, come tutte le cose preziose che non si vedono. 

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