Live Report: Kula Shaker @ Alcatraz, Milano, 25 Febbraio 2016

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di Diego Ballani / immagini dal foto-report di Starfooker

I vecchi arnesi del pop inglese anni 90 sono fra gli ultimi custodi del guitar pop più genuino. Se poi parliamo del gruppo di Crispian Mills, che all’interno della genia britpoppara si è sempre distinto per i riferimenti psichedelico-hendrixiani, la faccenda si fa ancora più interessante. Crispian è un rocker di razza, che grazie ad un innato carisma riesce a rendere credibile l’esotismo da cartolina su cui poggia l’estetica del progetto. Ha una fisicità plastica che ne fa un tutt’uno con la chitarra e una band affiatata che lo accompagna lasciandogli la scena ed esaltandone le doti di frontman.

Quello dei Kula Shaker visto all’Alcatraz è uno show che lascia poco all’improvvisazione (la scaletta ricalca per filo e per segno quella delle sere precedenti) eppure, grazie alla perfetta alternanza di brani classici e nuovi, alla sapiente gestione del climax e al sincero entusiasmo profuso da tutta la band, finirà per non scontentare nessuno dei presenti, che in gran parte (sottoscritto compreso) non vedevano l’ora di ciondolare sui moti ondulatori di Govinda.

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Quella di Mills e soci è una versione liofilizzata dell’epica hippy: una miniatura nostalgica dei grandi raduni degli anni 70, con i suoi rituali collettivi, le sferzate anthemiche, i momenti di abbandono e il romanticismo utopistico. Il tutto compresso un’ora e mezza molto intensa, durante la quale recitare in coro i versi “acintya bheda abheda tattva” sembra persino avere un senso. Di certo lo ha avuto per i migliaia che hanno decretato il sold out della serata. Una platea variopinta per età e riferimenti estetico culturali, che non vede l’ora di saltare sullo shuffle nevrastenico di Hush, ma che pare a proprio agio anche con la storia più recente della band.

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La serata si apre sulle note evocative di Sound of Drums e prosegue con riff hendrixiano di Gokula. A tracciare il percorso che porta alla storia maggiore del rock psichedelico, ci pensano prima la cover di Hurry on Sundown degli Hawkwind, quindi, poco dopo, un’incandescente Grateful When You’re Dead, sfumata come di consueto nel deliquio lisergico di Jerry Was There, tributo al nume tutelare, Jerry Garcia. La band si diverte e con lei il resto del pubblico, che partecipa divertito ai cori di Infinite Sun (insieme a Mountain Lifter, unico contributo tratto dall’ultimo K2.0).

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Per tirare il fiato bisogna attendere l’intermezzo acustico di Peter Pan R.I.P. e Ophelia, i due estratti da Pilgrim Progress, che preparano il terreno ad un finale potente in cui saranno i singoli del periodo aureo a farla da padrone. Tattva, Hush (che chiude il set principale) ed Hey Dude (ad aprire i bis) si alternano a 108 Battle (of the Mind) e The Great Hosannah. Dal vivo ogni eccesso di produzione (vero difetto dei Kula Shaker, soprattutto nella prima parte della carriera) viene bandito, pertanto anche i brani più barocchi di Peasants, Pigs & Astronauts si trasformano in potenti e inclusivi singalong. A chiudere come da copione, il mantra ecumenico di Govinda, al termine del quale la band si concede per l’ultimo abbraccio di folla e le lancette dell’orologio ritornano inesorabilmente al 2016.

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