Editoriale 286: Ascoltatori “territorializzati”

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C’è un poderoso saggio di 400 pagine che circola anche in Italia da qualche settimana. L’ha scritto un sociologo che si chiama Frédéric Martel (traduzione di Matteo Schianchi per Feltrinelli, euro 22,00). Il libro in questione è Smart, sottotitolo: Inchiesta sulle reti. Si parla di globalizzazione legata alla cultura digitale e – in alcuni capitoli – si analizza la musica. Leggendo il capitolo sulla cosiddetta “fine dei prodotti culturali” ci s’imbatte in valutazioni che tuttavia lasciano perplessi.

Si parla di musica nel mondo arabo, attraverso un’intervista a Jad Shwery “Choueiri”, artista libanese fino a ieri solo cantante e ora anche imprenditore. Che dichiara: “Nel mondo arabo le case di produzione e gli artisti devono pagare le emittenti affinché la loro musica venga trasmessa! È un’altra delle nostre peculiarità. Ma forse siamo arrivati alla fine di queste pratiche grazie a internet”. La parola passa poi in Argentina a Victor Ponieman della Random Record. Si parla di payola, consolidato metodo illegale che a fronte di un pagamento in denaro concede la trasmissione via radio di alcuni brani. Tipo una mazzetta. “La payola è ciò che ha permesso a lungo il dominio delle major e la standardizzazione del mercato attraverso la musica anglosassone. Oggi invece internet non permette più tali livelli di corruzione. Sul web ci sono soluzioni alternative”. Quali siano queste soluzione alternative non viene specificato. Né tanto meno si può parlare di “peculiarità” che non sfiora il mondo occidentale o di strategie che abbiano indebolito le multinazionali.

Anche perché, e qui a scrivere è proprio l’autore del volume: “Secondo alcuni critici spesso ostili a internet, il passaggio all’informatica produrrebbe una certa uniformazione. Tuttavia, quando si vanno a incontrare direttamente i professionisti del settore, in molti paesi, questo tipo di analisi non emerge: non condividono l’idea secondo la quale globalizzazione significa, attraverso internet, predominio della musica anglosassone”. Per corroborare questa sua affermazione Martel cita una colossale analisi de The Economic Journal resa nota nel giugno del 2013. Basata su un campione di oltre un milione di classifiche catturate in ben 22 paesi diversi. Martel dice una cosa importante, apparentemente ovvia, ma importante: quando nei vari stati/comunità viene resa disponibile musica diversa da quella mainstream, questa musica viene ascoltata. Ok, ne prendiamo atto. Ma non possiamo non notare che se su 31 artisti rappresentati (chiamiamoli comuni denominatori) a vario titolo in tutte le classifiche citate, ben 23 sono di origine americana. Quindi parlare di diversificazione appare un tantino fuori luogo, alla luce di charts comunque dominate da artisti americani, inglesi, canadesi, svedesi, australiani. Tradotto: internet incide assai meno di quanto non sia lecito credere.

Continuiamo con un’altra contraddizione: “Un altro aspetto che incide in questo quadro è paradossalmente legato agli algoritmi e al cosiddetto sistema di raccomandazione. Si tratta di strumenti globali anonimi e, intuitivamente, si è portati a considerarli come un fattore che aumenta l’uniformità culturale. In realtà, è proprio il contrario. Infatti, essendo sempre più sofisticati, sono in grado di tenere conto delle diverse sensibilità, di gusti riservati a settori di nicchia. Il loro rischio è, al contrario, di chiudere l’utente esclusivamente nel suo mondo e di ‘comunitarizzarlo’, cioè fornirgli solo ciò che già consuma”. Il che, in estrema sintesi, equivale a dire: finiamo con l’apprezzare ciò che già apprezzavamo. Al di là della valorizzazione delle nicchie, non proprio una mirabolante conquista culturale da sventolare.

Uno dei paradossi della musica nell’epoca della cultura digitale è proprio questo: massima disponibilità di scelta, minimo sforzo nella scelta. Anche per noi che spesso ci sentiamo esclusivi, nei nostri ascolti e percorsi. Valga il caso del Brasile contemporaneo, come esempio contrario di democratizzazione e ampliamento di vedute proprio del web. Lo racconta José Eboli, amministratore delegato della Universal locale: “Qui la musica venduta è per il 70% brasiliana. Gli americani arrivano al secondo posto con una quota di mercato del 28%. Di contro, a livello internazionale, la musica brasiliana è ben poco diffusa. C’è stato un tempo in cui, con la bossa nova, eravamo mainstream in tutto il mondo. Non è durata a lungo. In seguito non siamo più stati un soggetto musicale importante a livello internazionale. Siamo catalogati nella categoria world music”. Trova le differenze…

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