Intervista: Kasabian

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KASABIAN

di Elia Alovisi e Mavi Mazzolini

I Kasabian sono un caso particolare nella scena indie rock inglese dei primi duemila: sono probabilmente, dopo gli Arctic Monkeys, gli unici ad essere ancora in attività avendo aumentato ad ogni uscita la loro risposta di pubblico (Uno spot da headliner a Glastonbury! Quelli che il calcio!). Ma mentre Alex Turner e soci hanno continuato a produrre dischi in evoluzione, inserendo di volta in volta influenze psych/stoner, cantautoriali e hard rock, i quattro di Leicester hanno ruotato attorno alla stessa formula: un’estetica da weirdos, singoloni da classifica, una generale fumosità attorno alle tematiche trattate nei testi (assenzio, emu, risse da bar, dinosauri – va tutto bene). Espressione massima di questa formula il buonissimo West Ryder Pauper Lunatic Asylum, annata 2009, in cui tutti gli elementi erano dosati e non risultavano quasi mai fastidiosi – come, a volte, risultava invece il successivo Velociraptor! (2011).

48:13, nuovo album del gruppo, vede Sergio Pizzorno e Tom Meighan – forze creative alla base del gruppo – estremizzare il loro lato più “strano”: un titolo tutto tranne che facile, una copertina rosa, titoli strani e molto corti, una press release con un track-by-track per la stampa a cura di Pizzorno che tira in mezzo (tirate un bel respiro) MF Doom, DJ Shadow, il Wu-Tang Clan, David Bowie, i Kraftwerk, Madlib, Flying Lotus, Daft Punk e Tangerine Dream. Un bel pastrocchio di rap, elettronica, sperimentalismi e classic rock, quindi – il che, a tratti, può anche sembrare calzante, ma a disco ascoltato risulta solo un esercizio di name-dropping. 48:13 è un disco complesso, forse il più ardito che i Kasabian abbiano mai scritto in quanto a difficoltà di approccio, ma anche quello in cui i passi falsi si sentono di più – poche canzoni spiccano infatti sulle altre in quanto a profondità lirica o originalità. Abbiamo provato a parlare di tutto questo con Meighan e Pizzorno a Milano, in una sala conferenze, un giorno dello scorso maggio.

Dalla press release vedo che avete chiamato il disco 48:13 prima di sapere quanto sarebbero durate effettivamente le canzoni nel loro insieme. Come mai?

Tom Meighan: “Sì, è la cosa più stupida di sempre”.
Sergio Pizzorno: “Lo sa solo Dio. Sono successe un sacco di stranezze durante la lavorazione di questo disco. Quando ho guardato il disco finito su un computer e mi sono accorto che la durata era effettivamente 48 minuti e 13 secondi sono impazzito, quella cifra era come un numero magico. È stato davvero stupido perché ho dovuto cambiare diverse strutture nelle canzoni per mantenerlo. Non lo consiglierei a nessuno”.

Un altro tema che toccate, nel presentare i vostri nuovi pezzi, è l’influenza hip-hop che gli sta dietro. La vostra musica ha sempre avuto una certa ricerca nel vocabolario dal punto di vista testuale, ma vedervi citare MF Doom fa comunque strano, ecco. Raccontatemi quindi come vi siete approcciati al genere, crescendo.

Tom: “In quanto influenza, certi artisti come i Public Enemy o gli N.W.A. sono sempre stati un punto cardine nella loro ribellione. Ricordo che Sergio comprò dei vinili, tra cui qualcosa di DJ Shadow – e fu soprattutto quello ad avere un grande impatto sul modo in cui scriviamo. Siamo sempre stati una band basata sulle chitarre, ma le sue cose sono stato il primo input che ci hanno fatto ripensare un attimo le modalità con cui facciamo musica”.

Penso che comunque in questo momento sia più facile per gli artisti hip-hop poter sperimentare nuovi suoni, mentre l’impressione è che chi suona rock fatichi a trovare nuove formule per declinare la formazione classica chitarra-voce-basso-batteria.  

Sergio: “È interessante perché molte persone che sostengono di adorare band come i Beatles, gli Zeppelin, gli Stones, cose così – ogni tanto dimenticano che questi gruppi stavano in realtà cercando di spingere il loro suono il più lontano possibile da una struttura di base. Non stavano cercando di essere Elvis, ovviamente ne erano influenzate ma volevano dare una loro definizione di rock‘n’roll. Allo stesso modo, quando noi guardiamo a suoni passati – siamo ovviamente influenzati da quell’era, ma vogliamo sapere come suonerà il rock del futuro. Che ha bisogno di guardare in ogni direzione, sperimentare, abbracciare l’elettronica, l’hip-hop, perché sono parte della cultura. Sono ovunque. Esempio più lampante Kanye West e il modo in cui ha evoluto l’hip-hop. Come puoi suonare in una band rock, guardare qualcosa di simile e non porti la questione di come fare la stessa cosa, ma nel tuo genere? Abbiamo seguito questo approccio fin dall’inizio, siamo solo migliorati nell’applicarlo.

Uno dei temi che sviluppate di più, all’interno del disco, è la fine. In Doomsday parlate della fine del mondo, in S.P.S. della fine del disco stesso, in Bow raccontate la fine di una relazione. Come vi rapportate con il concetto di fine, quindi?

Sergio: “Solo Dio sa come tutto finirà. È un concetto interessante. Penso che avere un figlio ti aiuti a crearti una diversa immagine della cosa. Non avevo mai pensato davvero alla morte prima di avere i miei due bambini. Inizi a desiderare di restare in vita il più possibile, ma solo per loro. È da lì che tutto inizia. A livello musicale, dopo che hai fatto il tuo primo disco, non hai ancora un’idea precisa di quanto tutto durerà. Ed è splendido, ed eccitante. Ma quando ne inizi a pubblicare due, o tre, inizi a capire cosa significhi lasciarsi dietro qualcosa. Ci lasceremo dietro cinque album incredibili, e generazioni li ascolteranno e potranno apprezzarli.”
Tom: “Siamo entrati a far parte della vita di molte persone, che sono cresciute con noi. Abbiamo quindi fatto un buon lavoro, si spera (ride)”.

In che modo i vostri bambini percepiscono la vostra musica?

Sergio: “Sono un metro di misura. Sono fantastici, perché sono totalmente innocenti. Non possono leggere recensioni, e non si rendono conto di come la band venga percepita. Quindi gli fai sentire la tua musica, e loro la giudicano a cuore aperto. In casa c’è spesso della musica, a partire dalla colazione.”
Tom: “Mia figlia ha quasi due anni, e per ora le sta piacendo. Le ho fatto vedere il video di eez-eh, e lei ha detto solo “Seeergio!” (ride) È troppo giovane per capire qualcosa. Ovviamente il suo giudizio cambierà con l’età, ma insomma: papà suona in una rock band, quindi penso che crescendo lo apprezzerà”.

Li portate mai in tour con voi?

Sergio: “Non è propriamente un luogo adatto per bambini (ride)”.

Quando componete siete comunque a casa, immagino.

Sergio: “Sì! Fin dal primo disco, che abbiamo registrato in gran parte in una fattoria, in cui abbiamo convissuto per un po’. Ad ogni modo, nel mio caso è sempre partito tutto dalla mia camera da letto, non ho mai sentito la necessità di andare in uno studio. Sembrerebbe troppo un vero lavoro. È bellissimo avere un proprio posticino”.

E non siete ancora arrivati a un punto in cui tutto questo sembra un vero lavoro?

Sergio: “No! Dio, no. (ride) La paura di lavorare è uno dei fattori maggiori che ti portano a voler essere in una rock band, ad essere onesti.”

Sergio, in Mortis c’è un sample della voce di tuo nonno. Raccontaci un po’ di lui.

Sergio: “È un uomo incredibile. Ha 93 anni, e il pezzo inserito nel disco è un vecchio detto latino: “La freccia della morte ha una destinazione incerta”. La sua è una perfetta voce da vecchio di Leicester, e questo disco è particolarmente legato alla nostra città. Lo sono sempre stati tutti i nostri album, ma questo in modo particolare”.

In che senso? Non sono mai stato a Leicester, ma devo immaginare scene come quella che raccontate in Clouds (un ragazzo che gira, drogato, per un centro commerciale)?

Sergio: “Sì, esattamente! È una sorta di tributo. Leicester assomiglia a tante altre città inglesi, ma la campagna che la circonda è splendida. È speciale solo perché è da lì che veniamo, ed è lì che sono le nostre famiglie e i nostri amici”.
Tom: “Leicester è anche il luogo dov’era seppellito re Riccardo III – è stato riesumato un paio di anni fa. Aveva un castello, dove passava i mesi d’estate, nel centro esatto dell’Inghilterra. E quel punto è a tre miglia da casa mia. È pazzesco se ci pensi. Questa posizione ci ha permesso di essere un luogo d’incontro tra le influenze delle varie città, da Birmingham, a Leeds, a Londra”.

Com’era percepita la musica nelle vostre famiglie, e come vi siete approcciati agli strumenti crescendo?

Tom: “Mia nonna faceva musica in un circo – è un po’ strano, sì. Ma sto parlando degli anni Dieci. Mia mamma cantava, principalmente country e pop. Ma è merito suo se Michael Jackson è una delle mie principali influenze quando sono su un palco. Non sarei lì se non fosse per lui. Lo mimo da quando avevo 4 anni, lo guardavo in televisione e cercavo di ricreare le sue mosse. Ricordo, quando avevamo 16, 17 anni Sergio prendere la chitarra le prime volte e strimpellare in camera. Ed è incredibile pensare a dove siamo arrivati ora”.

 “Everyday is brutal / Now we’re being watched by Google”. Come mai questo verso all’interno di Eez-eh? Che rapporto avete con la tecnologia?

Sergio: “Ovviamente abbracciamo la tecnologia come concetto, passo metà delle mie giornate di fronte a un computer dato che faccio musica. Ma immaginiamo un treno: il 90% delle persone che lo stanno prendendo saranno, probabilmente, di fronte a uno smartphone o a un iPad. Ora, probabilmente stanno solo guardando 24, o qualcosa di simile. Perché non farlo, se ne hai la possibilità? Ma penso che essere annoiati sia una sensazione incredibile, perché ti permette di immaginare. Leicester è una città noiosa, e non avevamo tecnologie che potessero distrarci. Dovevamo pensare, usare la nostra immaginazione. Tornando dal lavoro, puoi sederti sul bus, guardare fuori dalla finestra e, semplicemente, pensare. Improvvisamente, la gente ha smesso di immaginare”.

E la cosa ti da fastidio, in quanto padre?

Sergio: “Sì, assolutamente. Sto provando il più possibile a gestire la cosa ma non durerà, in quanto appena i miei figli andranno a scuola tutti avranno un cellulare”.
Tom: “Esatto, tutti hanno un cazzo di cellulare. Non dovrebbero iniziare così presto. Quando hanno dieci, undici anni. Dovrebbero essere in un campo a giocare a calcio. E invece i tablet sono pieni di giochi per bambini, e hanno un successo incredibile”.

Magari i vostri figli passeranno solo una fase di ribellione per poi abbracciare le vostre idee.

Sergio: “Certo che lo faranno. Ma l’immaginazione è importantissima”.
Tom: “L’innocenza gli è già stata portata via. Non ti serve più un amico immaginario, ce l’hai sul telefono (ride)”.
Sergio: “Devi solo stare attento, e sapere quello che stai facendo. Bisogna abbracciare la tecnologia, basta non considerarla come la tua intera esistenza”.

Eez-eh è anche il pezzo in cui maggiormente toccate tematiche “impegnate”: “Al potere ci sono le persone sbagliate / Il mio latte si sta irrancidendo”. Non pensate che comunque sia difficile trattare tematiche di questo calibro al giorno d’oggi? Il rischio di suonare scontati è abbastanza alto.

Sergio: “I problemi che trattiamo sono spesso più morali che altro, parliamo tenendo il “giusto” e lo “sbagliato” come sommi capi. Non tocchiamo la politica ma ci chiediamo se una cosa sia giusta o sbagliata. E penso che chi compra la tua musica si meriti di leggere testi che ti permettano di pensare a qualcosa che non ti era mai passato per la testa. A me capitò con Killing in the Name dei Rage Against the Machine, ad esempio. È un messaggio incredibile”.

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