Un venerdì 13 ad Abbey Road con i Bombay Bicycle Club

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abbey road

di Lorenzo Cibrario

Le ipotesi per spiegare il motivo per cui si crede che ‘venerdì 13’ porterebbe sfortuna sono state innumerevoli nel corso dei secoli. Penso al vendicativo Loki, il tredicesimo dio scandinavo, e penso a Giuda, il tredicesimo apostolo, tanto per citare alcuni esempi. In tempi recenti, Sean S. Cunnigham ha addirittura sfruttato la nomea per inventarsi una franchise dal programmatico titolo Venerdì 13, di cui tutti conosciamo i film. In alcuni grattacieli degli Stati Uniti più conservatori e bui, esistono hotel in cui il piano tredicesimo viene letteralmente saltato. Non sono mai stato un tipo scaramantico e dopo l’ultimo venerdì 13 dicembre 2013 (addirittura due nella stessa data) non potrò esserlo mai. È stato onestamente il miglior venerdì 13 di tutta la mia vita.

Uscito dalla stazione di St. John’s Wood, mi sono incamminato su un tappeto di foglie giallognole in una città avvolta dalla nebbia, in direzione Abbey Road Studios, e ho attraversato quelle che sono le strisce pedonali più famose della storia 1, immaginando l’effetto di trovarmi lì a piedi nudi. Varcata la soglia di una porta di legno con una piccola targa con su scritto Abbey Road Studios, ho imitato nella mia testa il suono prodotto dello stargate quando viene attraversato. Mi sono gustato ogni momento come se fosse al rallentatore, gioendo anche del più piccolo dei particolari. Rumore mi ha mandato ad assistere alla prima presentazione del nuovo disco dei Bombay Bicycle Club dentro gli studi di registrazione di Abbey Road, quegli studi di registrazione di Abbey Road.

Ed è stato incredibile.

All’entrata una ragazza mi chiede nome e cognome e mi dona un braccialetto di carta viola. Il pass dei giornalisti, mi viene detto. Ottimo. Un lungo corridoio bianco con la moquette crema mi conduce fino alle scale di legno. Sulle mura quadri con le locandine dei film il cui suono è stato  masterizzato e mixato qui o di cui è stata registrata la colonna sonora.Iinutile tentare anche solo di stilare una lista, sono troppi e tutti famosi.

Vengo fatto scendere per le scale e questa volta sono circondato da fotografie di media grandezza in bianco e nero dei principali musicisti che qui hanno registrato i propri dischi: una delle prime registrazioni era del pianista ungherese Horowitz che suona Litsz e Stravinsky mentre l’ultima è di qualche mese fa: Robbie Williams che canta classici dello swing. Quando e dove abbiamo sbagliato? Nel mezzo fa capolino una foto: Eliott Smith, triste come sempre, a ricordarmi che esiste ancora musica di qualità.

Siccome al piano terreno dove mi hanno appena scortato ci sono entrambi gli studio 1 e 2 – celebri  per… be’, lo sappiamo per cosa sono celebri – si respira un’aria di religioso silenzio e rispetto; un po’ perché sono inglesi e dunque fanno di tutto per non esprimere un briciolo di felicità, un po’ perché, in effetti, tra le foto, le locandine e i suoni che provengono dagli studi, ci si sente intimiditi e rispettosi allo stesso tempo. Come quando hai quattordici anni e vai a casa del tuo cugino di venti  e davanti alla sua sterminata discografia sei intimidito e gasato allo stesso tempo. Così, quella sensazione lì, avete presente?

Mi sono ordinato una birra per festeggiare. Mi si è smagnetizzata la carta di credito. Ottimo. San John aiutami tu. Santo Paul aiutami tu. Trovo degli spiccioli nelle tasche e raccolgo i quattro pound necessari per la birra. Quando suonata la campana ci permettono di entrare nello studio 2: le luci sulla tonalità viola scuro si accendono e, avendo lo studio le pareti bianche, sembra di entrare in un sogno lisergico nel 1969.

Alle pareti altre fotografie, questa volta dalla stampa grande: Gilmour che beve un caffè (Barrett non c’è, speravo davvero di vedere questa sua meravigliosa foto), una con Ringo intento a registrare un brano, un’altra mentre Paul suona il basso, Andy Patridge alla chitarra e Bacharach al piano. Un foglio bianco stampato al computer ti riporta alla realtà del 2013, dandoti anche l’ordine di non riprendere o filmare nulla, nemmeno con smartphone – previa l’immediata espulsione dalla stanza da parte dei due energumeni all’entrata.

Una lunga scala di legno dipinta di bianco sale fino a una stanzina, dove un mixer controlla tutte le uscite dei suoni; un ingegnere del suono ci saluta con la mano. In questa situazione ondulatoria tra passato (le foto in bianco e nero, la strumentazione analogica, il sentimento) e presente (strumentazione digitale, giornalisti al cellulare, vestiti) si palesano finalmente i Bombay Bicycle Club, ovvero il futuro. Ero così preso dall’emozione di entrare in quella stanza di quello studio che mi ero dimenticato il motivo per cui mi trovavo lì.

I giovani Bombay Bicycle Club entrano seguiti da una sezione fiati (sax, tromba, trombone), una ragazza ai cori e un suonatore di marimba, xilofono e percussioni per presentare il nuovo disco in uscita il 3 di febbraio dal titolo So Long, See You Tomorrow. Secondo molte autorevoli testate, l’album pop più importante del 2013 è stato Modern Vampires of the City dei Vampire Weekend: crediamo sia un pensiero condiviso anche dai giovani londinesi viste le influenze afro-caraibiche presenti nei loro nuovi brani, segno distintivo dei vampiri newyorkesi. Se dovessimo scegliere un aggettivo per descrivere la nuova prova dei ragazzi londinesi, diremmo infatti che questo disco suona ‘caldo’: l’atmosfera è accesa e festosa.

Come i BBC erano felici di presentare i brani, così il pubblico era curioso di ascoltarli, con alcuni membri del fan club in chiaro visibilio. Caldi suoni caraibici, ritmi leggermente in levare e strumentazioni reggae hanno rimbalzato tra le bianche mura dello Studio 2 di Abbey Road, mentre la sezione ritmica dava il tempo con percussioni latine, e i synth gonfiavano la produzione dei brani, dando alla musica del gruppo un tocco di personalità.

Quando sono uscito dagli Studi diluviava, cosa che ha conferito al tutto ancora più magia, un tono da fiaba. Grazie venerdì 13, grazie per avermi regalato una giornata tanto speciale.

1 Per la cronaca l’ho fatto un po’ di volte. Tipo cinque. Poi mi sono sentito (giustamente) osservato come se fossi matto e ho smesso.


Qua sotto, il lyric video di It’s Alright Now, dal nuovo disco So Long, See You Tomorrow.

Redazione Rumore
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