Ecco l’Italia, amore mio. Mi sono perso al Color Fest 2019

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di Fernando Rennis

«Siamo venuti fino quassù, in montagna!» dice Motta, col suo accento toscano. Non si può non partire da lui per raccontare la settima edizione del Color Fest. In primis, perché il sottotitolo di quest’anno è “Sei bella davvero”, titolo di un brano contenuto nel debutto solista La fine dei vent’anni. In secondo luogo, perché, con molta probabilità, il concerto del pisano è stato l’apice di una due giorni fitta di impegni, nonostante una location – la Giurranda di Platania – totalmente immersa nella natura.

Con i suoi 750 metri sul livello del mare, la cittadina catanzarese aveva già in partenza le carte in regola per allontanare la calura estiva da record. A dare manforte ci hanno pensato gli organizzatori, abili nel tessere col solito lavoro di squadra una tela che intreccia concerti, spazi espositivi (con le varie aree expo, creative market, book, food and drink) e talk. Forte di passate edizioni che hanno permesso di totalizzare più di 3.000 presenze giornaliere e di una serie di eventi organizzati anche fuori regione, il Color continua a rappresentare un punto fermo nell’estate musicale nazionale. La settima edizione punta a unire anche generazioni diverse di appassionati, accostando nomi storici dell’underground nostrano alle nuove leve.

A conferma, bastano le prime due ore del sabato, quando in breve tempo si alternano Clavdio, debutto targato 2018 per Bomba Dischi, e i ben più navigati I Hate My Village, supergruppo unitosi lo scorso anno ma costituito da purosangue dell’alternative a cavallo tra Novanta e Duemila. La fase centrale è occupata dai coloratissimi La Rappresentate di Lista, dei Superorganism italiani che ribadiscono quanto sia naturale per loro coinvolgere il pubblico e trasportarlo nella loro personalissima dimensione. Ci si sposta quindi al palco principale, dedicato all’indimenticato giornalista Stefano Cuzzocrea, dove i Tre Allegri Ragazzi Morti fanno un ripasso dei loro vent’anni di carriera, sacrificando – ahimè, per chi scrive – la parentesi reggae e cumbia, in favore di uno sguardo d’insieme ad ampio raggio. L’inframmezzo tutto d’un fiato di Naip serve a scaldare il pubblico, pronto a entrare in punta di piedi nella stanza singola di Franco 126 e a farsi travolgere dal muro sonoro dei Fast Animals And Slow Kids. Non c’è tempo, invece, di riposarsi perché a notte fonda i dj set di Fabio Nirta, Linoleum e Wave ridisegnano le traiettorie motorie dei presenti.

Il secondo e ultimo giorno del festival comincia all’insegna del contrasto: quello tra la dolcezza di Claudia Guaglione e la ruggine rock di Giorgio Canali & Rossofuoco. Murubutu si fa cantare in faccia quasi tutte le rime dei suoi brani, giusto in tempo per guardare nel riflesso dei Ray Ban di Emidio Clementi un tramonto spettacolare, perfetta cornice per il live dei Massimo Volume. Non a caso il bassista e cantante dello storico trio confessa: «È un orario bellissimo per suonare». Nelle prime file ci sono anche i ventenni e, probabilmente, la scommessa intergenerazionale è stata vinta. Lo conferma il live partecipatissimo degli Eugenio In Via Di Gioia e, soprattutto, il concerto di Motta che infonde rock ed eleganza tra le felpe degli spettatori. A riscaldare l’atmosfera ci pensa Myss Keta, che con tutta la sua dirompenza kitch chiude i concerti e traghetta tutti ai dj set.

Quello che rimane di questa edizione del Color Fest è la dimostrazione che si può cercare la qualità anche in territori difficili, ma non solo: l’evento calabrese è anche la celebrazione dell’idea di festival artigianale, a misura d’uomo. Un posto in cui puoi fare quattro chiacchiere con Dario Brunori e assistere all’incontro tra Emidio Clementi e Francesco Motta, interrotti dalle richieste di foto dei fan. Uno spaccato dell’Italia, non solo musicale, come ricorda Davide Toffolo e i suoi compagni, eseguendo Bella ciao a cappella. Certo, c’è da rimboccarsi le maniche, perché la strada è ancora lunga e si smette di crescere quando si pensa di essere arrivati. Ma il Color può, anzi deve, lavorar sodo: quando costruisci delle fondamenta forti hai il dovere di puntare in alto.

Redazione Rumore
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