Londra: SOAK, palloncini neri e adolescenza

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soak

di Elia Alovisi

[quote]Ma per ora siamo giovani, lasciateci stendere al sole e contare tutte le cose splendide che riusciamo a vedere.[/quote]

Così diceva, con il suo tono nasale, Jeff Mangum su In the Aeroplane Over the Sea dei suoi Neutral Milk Hotel. Parlava di gioventù, di quanto fosse – ogni tanto – bello il mondo che lo circondava. Lo faceva con una chitarra acustica, e basta. Ci immaginiamo un’Europa dell’est ingiallita, dall’erba secca, dai rapporti umani semplici. Come si trasla il discorso nel Regno Unito contemporaneo? Albione ci ha regalato una serie di giovani promesse che hanno imbracciato uno strumento e si sono messi a cantare la loro teenage angst (suona meglio in originale, scusate) in modo piuttosto efficace. Prendiamo King Krule e Jake Bugg ad esempio – entrambi classe 1994, il primo a sputare rime strascicate e ubriache sui sobborghi londinesi, il secondo a rivistare l’adolescenza UK basandosi su una personale Highway 61. La formula di base è la seguente:

sentimenti troppo forti per essere retti da menti e corpi ventenni
+
una sana dose di disagio
+
il fascino della possibilità
+
un minimo di speranza

Ad applicarla sono in molti, ma solo alcuni riescono a superare la selezione naturale del pubblico e della critica inglese che fanno da gatekeeper a tutti noi paesi periferici. Oggi vi parlo di una di loro, che ho conosciuto il 5 novembre scorso, mentre una massa di persone arrabbiate camminava per la città. Ero a St-Giles-in-the-Fields, una chiesa a due minuti a piedi dalla centralissima Tottenham Court Road. Faceva un freddo cane, e davanti a me c’era una ragazzina di 17 anni coi capelli corti vestita completamente di nero con una chitarra in mano. Si chiama Birdie Monds-Watson, in arte SOAK. Il suo pezzo forte si intitola B a noBody: è una ballata per chitarra elettrica che non potrebbe iniziare in modo più autoreferenziale: “La speranza che hai negli anni della tua adolescenza è fatta di momenti incustoditi / Stiamo provando, con tutti noi stessi, a diventare qualcosa“. E quindi l’invito è a “essere nessuno”, proprio come lei, e condividere quell’incertezza che a una certa età dovrebbe scomparire – ma non sempre lo fa. La canzone è un singolo perfetto: un ottimo riff di chitarra accompagna i vocalizzi della Watson, che scandiscono il titolo seguendo le note che le sue dita stanno suonando.

A vederla c’è il giusto numero di persone – la chiesa non è né piena né vuota. La cosa che colpisce è la varietà anagrafica del pubblico. In prima fila ci sono una serie di ragazzi che non possono avere più di 18 anni, sorridenti ed esaltati. Accanto a me c’è una coppia di anziani, che guardano il concerto con il sorriso dall’inizio alla fine. Il pensiero è che l’età di chi sta suonando in questo momento non importi davvero, e che la dimensione dei minorenni non debba necessariamente essere quella del contest dei gruppi di città, o della festa di fine anno del liceo. Ci sono solo persone che credono in quello che stanno guardando. La Watson stessa ci gioca dentro in maniera decisamente adulta: tira fuori esplicitamente la propria età nei commenti tra un brano e l’altro (fare promozione è “noioso”, dice) e spiega accuratamente qual è l’idea dietro a ogni brano. Ci sono canzoni sulla (falsa) convinzione che gli amici fatti a scuola saranno quelli di una vita; su quel ragazzo bellissimo che non ti caga; sulle persone a te care che iniziano a bere e drogarsi e spaccarsi e magari a te non va giù però lo fai lo stesso e poi ti penti (The Art of Peer Pressure, dicono a Compton). Chi ci è già passato si fa prendere bene dalla nostalgia, chi ci è dentro si sente ritratto.

Le chitarre di SOAK sono semplici: non usa un plettro, e spesso preferisce gli arpeggi agli accordi. In ogni caso, il risultato è adorabile. Il suo tono di voce sa decisamente di “bambino”, e si accompagna bene alla semplicità delle sue parole. Un pezzo forte del concerto è Sea Creatures (il pezzo sul ragazzo che non ti caga di cui sopra): “Non sanno cos’è l’amore. Lo lanciano in giro come se non avesse valore”, dice la Watson nel ritornello. Che si riferisca al sentimento o all’atto fisico, la dinamica noi-contro-di-loro è un classico senza tempo, capace di farci sentire nel giusto e di dare un valore alle nostre sfide sentimentali. “Prego per te, e sai che non mi piace Gesù / Ti prego, guarisci / Per me e per te stesso”. E quando magari ci rendiamo conto che non ce la facciamo, a reggere questa attesa e questa aspettativa, semplicemente ci fa un sacco male: “Il tuo cuore è un’esplosione / Fa promesse che non riesce a mantenere / E fa male”, canta la Watson in Explosion. Sono sentimenti semplici, sì, ma ci sono persone con dieci anni di più rimaste allo stesso livello comunicativo.

L’esordio di SOAK non è ancora pronto, e le canzoni che ascolto non sono nella loro versione definitiva. Se dal vivo la Watson usa solo voce e chitarra, su disco ha scelto di inserire altri strumenti. Resta da vedere se l’effetto sarà simile, o se la strumentazione aggiuntiva renderà più anonimo il suo mesaggio. È un percorso che molti cantautori seguono con il passare degli anni – Iron & Wine ha iniziato con un’acustica, ed è finito con batterie, fiati, coretti e qualsiasi altra cosa gli passasse per la testa. A volte il minimalismo, però, aiuta. Nel caso di SOAK, dal vivo è servito molto – ed è stato bello. Minimale era anche il setting: quattro palloncini neri, fermati al pavimento. Una delle fan seduta al primo banco, a fine concerto, è corsa a staccarne uno per portarselo a casa. Speriamo resti tutto così semplice.

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