Editoriale 306/307: Quattro decenni con Paul Weller

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Paul Weller

di Rossano Lo Mele

Sull’Inghilterra di oggi: “Dalla fine degli anni 80 in poi gli inglesi sono migliorati, hanno cominciato a viaggiare di più, sono meno razzisti e xenofobi. Io la vedo così: ogni Brexit o UKIP che emerge dal sapore reazionario, deve fronteggiare un sacco di ottima gente qui”.

Sulla morte del rock’n’roll figlio delle classi lavoratrici: “Quattro giovani ragazzini con le chitarre in qualche casa abbandonata, non ne vedi più in giro. E non credo che la cosa ricapiterà mai più”.

Sul fumo: “In passato ho provato con le sigarette elettroniche, ma queste bastarde (sventola un pacchetto di Camel in aria, ndr) sono l’ultimo vizio da cui non riesco a liberarmi. Sono quel tipo di persona che ha davvero bisogno di fare qualcosa. Maledizione”.

Sull’alcol: “L’alcolismo è stata una dipendenza a lungo per me. Non potevo sedermi e prendermi una birra con qualcuno. Perché se ne bevevo una ne volevo 20. E se ne bevevo 20 poi ne volevo 100, fino a che non mi chiedevo ‘senti perché non andiamo a casa tua e ci facciamo ancora un panino?’ La mia ultima moglie, Hannah, mi ha spinto ad abbandonare l’alcol. Una mattina ci siamo alzati dopo che la sera prima avevo bevuto e lei mi ha detto: ‘Ora prendi una decisione. O stai con quella roba e perdi me, oppure stai con me e smetti di bere. All’inizio ero stordito, del tipo ‘non lo so’. Non è stata una decisione che ho preso in un istante. Poi ovviamente mi sono ripreso. Era arrivato il tempo. Se tu ci vai giù troppo forte – come io ho fatto per anni – quella cosa alla fine ti ammazza”.

Sugli anni 80: “Periodo stupendo. I primi anni degli Style Council, tra l’83 e l’85, sono stati alcuni degli anni migliori della mia vita. Eravamo una specie di club giovanile su ruote, mi divertivo, ma senza avvertire la stessa pressione che sentivo ai tempi dei Jam. Una parte del mio pubblico non aveva certo preso bene quel mio passaggio musicale, ma pensavo che non fosse necessariamente un male. Mi rendeva libero. Anche se alla gente faceva schifo quello che stavo facendo, quello era esattamente ciò che volevo fare”.

Sul lavoro: “No, decisamente non potrei smettere di lavorare. Senza scendere in dettagli morbosi, non si può scordare che ho divorziato da poco per la seconda volta, quindi non posso smettere. Devo lavorare perché voglio lavorare e perché devo guadagnare una certa somma di soldi ogni anno per pagare tutto ciò che devo pagare. Ma ho ancora cose a cui dico di no. Tipo la mia autobiografia: me lo chiedono – letteralmente – due volte l’anno diversi editori. Sono molto gentili, ma non so. Tutti quanti pubblicano autobiografie oggi, anche quelli che sono stati in giro per soli 10 minuti; è tutta una faccenda di ego. Voglio dire: che mi risulti David Bowie non ne ha mai scritta una, o sbaglio? Ecco, ho detto tutto”.

Sul presente: “Non ho più demoni né ambizioni. Cerco solo di vivere il più possibile per vedere crescere i miei figli e fare musica. Tutto qui. Non me ne frega niente di andare al primo o al decimo posto in classifica e di essere popolare in Belgio. Non mi importa più di quelle cose. Sono felice con quello che ho, c’è voluto un bel po’ per arrivarci, ma è così”.

Punk, soulboy, Modfather, blues, yacht pop, funk, hippy etc. Non tutte, ma molte delle caselle musicali generatesi negli ultimi 40 anni sono state “flaggate” da Paul Weller. Le parole qui sopra stanno in un numero speciale del mensile inglese “Q” dedicato quest’anno proprio a Weller. Siamo stati fra i pochissimi a poterlo intervistare, questa estate, in occasione del suo ultimo album in studio (in questo numero trovate il resoconto della chiacchierata fatta col nostro Carlo Bordone). In questi anni nel mondo della scrittura musicale si spende con una certa, eccessiva frivolezza citazionista la parola retromania (per saperne di più, vedi recensione della ristampa del libro di Simon Reynolds più avanti, firmata da Claudia Bonadonna). Ma – nell’era della parcellizzazione e del precariato creativo – non sono poi tantissimi gli autori in giro per il mondo ad aver mantenuto consistenza per oltre 40 anni, con una tale varietà di produzione. Paul (insieme al suo eterno rivale Julian Cope: percorsi simili ma distantissimi fra i due) è uno di quelli. Il che ci dice almeno due cose, su rock e dintorni: 1) Possono piacere cose assai diverse senza sentirsi in colpa o in obbligo di giustificarsi. 2) Il crollo post-ideologico dei generi – nel suo senso migliore e non becero plebeo/populista odierno – ha le sue icone. Paul è una di queste.

Buona estate e buone vacanze per chi le farà, ovunque ci leggiate. Torniamo a settembre col vestito nuovo: freschi di restyling del giornale.

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