Intervista ai Dry Cleaning: “Ci sono un sacco di cose che non capiamo dei Dry Cleaning”

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Dry Cleaning

In attesa di rivederli sul palco per l’unica data italiana, abbiamo fatto qualche domanda ai Dry Cleaning

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di Letizia Bognanni

Dopo l’esordio New Long Leg – nostro disco dell’anno del 2021 – e l’ottimo seguito Stumpwork, i Dry Cleaning sono tornati con l’EP Swampy, che contiene due brani inediti, un demo e due remix, realizzati da Charlotte Adigéry & Bolis Pupul e Nourished By Time, quest’ultimo di recente in tour con loro negli Stati Uniti. A proposito di tour, la band britannica si trova attualmente in giro in Europa e arriverà in Italia l’11 luglio per l’unica data prevista, nell’ambito di Sexto ‘Nplugged. Nell’attesa di rivederli sul palco, abbiamo fatto qualche domanda al batterista Nick Buxton.

Com’è nata l’idea di questo EP? C’è un legame fra le canzoni che lo compongono?

“C’è una sorta di collegamento, anche se sono tutte canzoni diverse, due vengono dalle session di Stumpwork, due sono remix, e poi c’è un demo che è stato registrato prima che iniziassimo a le sessioni di Stumpwork, credo che sia solo una raccolta di pezzi che avevamo lasciato da parte e in un certo modo abbiamo pensato che stessero bene insieme. Avevamo cercato di fare dei remix su New Long Leg, avevamo anche pensato a chi potesse realizzarli ma poi la cosa non è andata in porto ed è stato un po’ triste perché quando qualcuno remixa il tuo lavoro è come se gli desse una nuova vita e ti permette di vedere la tua musica in modi a cui prima non avevi pensato, perché può cambiare anche radicalmente. Con le canzoni che abbiamo registrato per Stumpwork, ci piacevano, non è che pensavamo che non fossero abbastanza buone da finire sul disco, semplicemente non erano adatte, non si armonizzavano col resto della tracklist. Avevamo scritto altre tracklist prima di quella definitiva e c’erano. Perciò volevamo dargli una vita fuori dal disco e penso che l’abbiamo fatto nel modo giusto, siamo tutti felici di come è venuto”.

Il sound dei due inediti effettivamente è diverso da quello di Stumpwork, più americano anche, è una direzione che intendete proseguire?

“Sì, posso immaginare che accadrà. Non abbiamo ancora iniziato a lavorare a un nuovo album, probabilmente lo faremo più avanti quest’anno, ma è qualcosa di cui abbiamo parlato molto in passato, l’idea di inserire più influenze americane. Penso che le persone ci vedano come una band molto inglese, che è una cosa da cui è impossibile scappare, perché fa parte soprattutto della personalità di Florence, ovviamente per il suo accento che si sente tanto visto che parla più che cantare, ma non solo, anche i testi che scrive vengono da una prospettiva molto inglese, ma in termini di soundscapes e atmosfere e modo in cui scriviamo le musiche sicuramente l’America ci affascina molto. Siamo tutti nati negli anni 80, quindi cresciuti con la cultura degli anni 90, quando la maggior parte delle cose cool veniva dall’America, tutto quello che ti viene in mente dell’era pre-internet, che ci sembravano anche esotiche in un certo senso, anche solo guardare i Simpson in televisione, è stata una sorta di esplosione culturale per me quando ero piccolo”.

Invece a proposito dei remix, chi e come ha scelto gli artisti che li avrebbero realizzati?

“Ne abbiamo parlato fra di noi, e devo dire che siamo stati piuttosto fortunati: di solito quando fai questo genere di cose butti giù una lista di una dozzina di artisti e forse tre o quattro di questi accetteranno. Noi avevamo un obiettivo preciso, due artisti che ci piacciono davvero. Seguivamo Nourished By Time da tempo e gli abbiamo chiesto di venire con noi in tour in America, cosa che ha fatto, ha aperto i nostri concerti in USA e Canada. In realtà il remix l’ha fatto prima, ma eravamo già stabilito un rapporto. Con Charlotte e Bolis invece non li avevamo mai incontrati, non li conoscevamo ma ci sarebbe piaciuto, volevamo lavorare con loro. È successo che ci conoscevano e apprezzavano la nostra musica, perciò siamo stati molto felici che l’abbiano fatto, è una cosa grandiosa. Penso che abbia aiutato il fatto che siano nomi emergenti, non è come chiederlo ad artisti famosi. Penso che entrambi abbiano fatto un ottimo lavoro, siamo davvero felici. Se avessero detto di no ci avrebbero spezzato il cuore”. (ride)

C’è qualche altro artista, magari dei grandi che dicevi, con cui vi piacerebbe collaborare?

“Oh certo, la lista è lunga, ci sono moltissime collaborazioni dei sogni, con artisti che seguiamo e ammiriamo da sempre e a cui guardiamo come esempi. Ma cerco di essere realista, ora che abbiamo fatto due album capisco meglio cosa fa un produttore, qual è il suo ruolo e come può andare male. Non che abbiamo fatto esperienza di cose andate male, ma penso che sia piuttosto importante che il produttore aggiunga qualcosa che la band non ha, altrimenti a cosa serve? Perciò penso che puoi collaborare con qualcuno che rispetti davvero e di cui ami il lavoro ma non è detto che funzioni perché magari non porta qualcosa che tu non hai già… non è una scienza esatta, ma sicuramente ci sono persone con cui mi piacerebbe molto lavorare… adesso ho un vuoto (ride) ma se parliamo di grandissimi Brian Eno per esempio, ma non credo che sarebbe interessato a lavorare con noi”.

Non si può mai dire.

“Infatti, non si sa mai”.

Il vostro è stato il primo concerto che ho visto dopo il Covid, o meglio durante, era l’estate del 2021 e c’erano ancora restrizioni, cancellazioni etc, devo dire che da allora vivo sempre il pensiero dei concerti con una certa ansia, nel senso che ho sempre paura che succeda qualcosa, che la serata venga annullata per qualche motivo… dal punto di vista di voi che dovete salire sul palco invece è cambiato qualcosa? Avete emozioni diverse rispetto al pre-pandemia?

“Bella domanda… Nel periodo di cui parli probabilmente avrei risposto di sì, perché stavamo reimparando tutto, nessuno sapeva bene cosa fosse meglio fare, i concerti possono essere ambienti molto caotici, perciò ovviamente bisognava prendere delle misure anche se a volte sembravano senza senso. Perciò in quel periodo c’erano un caos e un’incertezza nel momento che precedeva i live, che davvero non mi mancano per niente. Da allora abbiamo fatto qualcosa come 200 concerti, forse di più, ma per noi sostanzialmente la differenza è che prima del Covid il concerto più grande che abbiamo fatto è stato davanti a 6/700 persone, adesso sono molto più grandi. Perciò sì, è cambiato molto, e a volte è difficile da capire, sono successe tante cose in questi anni”.

In generale come vivete i live? Siete più tipi da studio oppure fate i dischi per suonare dal vivo?

“Direi la seconda, perché passi molto più tempo a suonare dal vivo e deve piacerti, altrimenti diventa un inferno. Devi guardare alle canzoni come a delle entità vive, e devi tenerle in vita cambiandole, evolvendo nel modo in cui ti ci approcci, nel modo in cui le suoni. E devi continuare a farlo insieme, per continuare a stare bene. Capita anche che le canzoni ti stufino un po’, certo. Non invidio le band che devono suonare sempre esattamente le stesse cose allo stesso modo, sera dopo sera. Probabilmente è bello dalla parte del pubblico, ma penso che chi si esibisce debba mantenere vive le canzoni. Però amo anche andare in studio, non c’è niente di paragonabile. È solo che ci passi forse quattro settimane, e poi un anno e mezzo a suonare in giro. Devi mettere le cose nella giusta prospettiva”.

Ormai fate tour in tutto il mondo, ci sono posti dove sentite una maggiore connessione con il pubblico, un’energia diversa, più amore se vogliamo?

“Sì, assolutamente. È incredibile l’esperienza di girare il mondo e trovare queste buone vibrazioni praticamente ovunque. Siamo appena stati in Sudamerica, a Buenos Aires in particolare e l’abbiamo sentito ancora prima di iniziare a suonare, c’era un’energia pazzesca nell’aria. È stato davvero speciale. Ma è speciale anche in posti più vicino a casa… fare tour in Europa è un po’ diverso oggi, dopo la Brexit, ma non voglio aprire quest’argomento, comunque ci sono posti dove non solo c’è un grande pubblico ma che sono anche posti bellissimi dove è un piacere andare, spero di poter passare il resto della vita a fare tour in Italia, Spagna, Francia, Portogallo… abbiamo una sola data in Italia quest’anno, ma sarei più che felice di passarci tipo due settimane”.

Rispetto al primo album, Stumpwork è più melodico, con più parti in cui Florence effettivamente canta, sentite di stare diventando anche più pop, in un certo senso?

“Sì. Penso che dipenda da lei e non sai mai in che direzione andrà, ma dal mio punto di vista io amo la sua voce quando canta, e se ascolti i nostri primi EP anche lì ci sono dei momenti in cui improvvisamente canta. Penso che sia parte della sua potenza questa scelta di cantare sorprendendoti, di metterlo nel mezzo di uno spoken word, è molto potente questa giustapposizione delle due cose, e penso che continuerà a farlo. Parlando di pop, è una cosa di cui abbiamo parlato, non abbiamo paura di essere melodici, perfino catchy, riesco a immaginare che potremo diventare più pop, ma chi può dirlo? Dipende da cosa verrà fuori quando inizieremo a scrivere, ma non mi dispiace l’idea di andare in quella direzione”.

In questi anni praticamente tutte le band della vostra generazione che suonano diciamo indie vengono classificate come post punk. Voi vi ritrovate in questa definizione, vi riconoscete come parte di un movimento? Perché per quanto mi riguarda se penso ad esempio ai Fontaines D.C., o agli Italia 90, capisco, quando si parla degli Squid, per dirne una, mi risulta più difficile definirli post punk. Cosa ne pensi?

“Sì, è complicato. Non penso che molte band si preoccupino effettivamente di questa cosa riguardo a loro stesse, ed è meglio così. È più una cosa che fanno giornalisti, collezionisti di dischi, o anche i fan, li aiuta metterti in un contesto per capirti. Noi non ci siamo mai preoccupati del genere che facciamo. Se ascolto i nostri primi lavori sì, probabilmente possono essere definiti post punk. Adesso non lo so, non credo, penso che stiamo diventando qualcosa di diverso ma non saprei dire cosa. E mi sembra che valga lo stesso per le band che hai citato, o anche altre, come ad esempio i Bar Italia, o i Black Country, New Road, mi sembra che siano tutte band che suonano sempre più diverse una dall’altra, che ognuna abbia un’identità ben definita. Spero che continueremo così, perché più ti conosci e ti capisci più la tua identità diventa forte e unica, e anche gli altri parleranno di te senza far riferimento ad altro”.

È divertente che Swampy sia uscito solo in digitale e in cassetta, pensi che stia finendo l’era del vinile e stia tornando la cassetta?

(ride) “Non lo so, a dire la verità spesso queste scelte vengono fatte senza che tu nemmeno lo sappia. Però penso che se fai un album debba uscire in vinile. Nel caso di uscite brevi come questa diventa troppo costoso realizzare il vinile. A parte questo, ultimamente c’è molta gente che colleziona queste cose, non so quanti le ascoltino ma molti vogliono le cassette. In effetti sono carine, anch’io ne ho un sacco. È un po’ folle, no? Oggi avere qualcosa in vinile, cassetta, CD…”

E ci sono quelli che comprano tutto.

“Sì, ci sono collezionisti matti. Sono incredibili”.

In un’altra intervista dicevate: “Chi ci ascolta forse non capisce esattamente cosa succede in ogni momento di ogni canzone”. In effetti c’è un senso di mistero nella vostra musica. C’è qualcosa dei Dry Cleaning che non capite nemmeno voi?

“Sì, assolutamente. Penso che questo sia il motivo per cui fai musica, in una certa misura, perché non capisci, e allora mentre procedi nel tuo viaggio, quando registri e quando suoni dal vivo e si evolve come abbiamo detto prima, inizi a capire di più, ti diventa più chiaro quello che fai, conosci la canzone mentre la fai, capisci il significato, specialmente con i testi. Penso che spesso Florence scrive qualcosa d’istinto e solo più tardi inizia a capire cosa significa, dopo che è stato registrato. E penso che sia davvero importante capire che molte volte con la musica cerchi di comunicare cose che non puoi semplicemente e facilmente mettere in parole ed essere chiaro. Altrimenti scriveresti un libro, un saggio o qualcosa del genere, se volessi spiegare qualcosa in modo chiaro. Sì, spesso questo tipo di sentimenti non sono del tutto tangibili e ti ci vuole un po’ per capire cosa siano. C’è anche un’altra cosa: penso che ci siano un sacco di cose che non capiamo sui Dry Cleaning per quanto riguarda come ci vede il mondo, perché ci siamo dentro. Siamo molto coinvolti, è molto soggettivo e non abbiamo sempre un piano. Siamo solo quattro persone che cercano di fare qualcosa contemporaneamente. E devi scendere a ogni tipo di compromesso per farlo accadere. E come risultato, la cosa che crei che esce nel mondo. Non è necessariamente qualcosa che comprendi appieno, e non puoi controllare quello che comprenderanno le altre persone, che non sono coinvolte nel processo. In questo senso tornando al discorso che facevamo prima, il ruolo del produttore è anche quello di entrare nel processo decisionale e capire cosa fare ed essere molto chiaro su dove andare da quel momento in poi”.

Per finire, sai che New Long Leg è stato il nostro disco dell’anno nel 2021?

“Oh wow, è fantastico!”

Quindi visto che siamo a metà anno ti chiedo: il tuo disco del 2023 fino a questo momento?

“Accidenti… Ce ne sono un po’ che sto ascoltando ultimamente… Ora sto prendendo confidenza con il nuovo disco di Westerman, che mi piace, ma non so se è il mio disco dell’anno… Forse i Bar Italia, di cui abbiamo parlato prima. Loro sono davvero brillanti, mi piace molto quello che stanno facendo, e sono persone davvero adorabili. E sicuramente ci sono un sacco di cose che sto dimenticando. Mi piace molto King Krule ma non ho ancora ascoltato il nuovo album. Già so che ci ripenserò e mi verrà in mente qualcosa e penserò ‘dovevo dire questo!’. Però rimaniamo sui Bar Italia, è probabilmente l’uscita che mi ha colpito di più fra le ultime”.

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