Editoriale 324: Questione di playlist

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Di Rossano Lo Mele

Partiamo dal significato. Suonare in inglese si dice to play. Quindi l’idea di divertimento è insita nella radice del suonare. Stesso dicasi per le playlist. Molto prima di Spotify, tanto prima di Saviano, le playlist erano delle liste compilate tra il serio e il faceto, per l’appunto. Arrivati a gennaio, abbracciato il nuovo anno, vale la pena gettare lo sguardo oltre confine e osservare quali dischi sono stati ingrigliati nelle varie playlist in giro per il mondo. Chi ha vinto, chi ha perso? Elementi ricorrenti? Novità assolute? Tendenze? Facciamo un giro presso una porzione dell’editoria musicale mondiale. 

La bibbia cartacea degli appassionati di musica, il mensile inglese “Mojo”, così ha decretato: miglior disco del 2018 risulta essere quello di Kamasi Washington (copertina su “Rumore” di luglio e agosto passati). Nella top 10 troviamo signorine come Janelle Monáe e Christine & The Queens, nomi consolidati come Breeders e Spiritualized e appena più dietro altre certezze come Paul Weller e Tracey Thorn. Molta Inghilterra, del resto da lì arriva “Mojo”. Alcuni nomi ritornano anche nella top 50 del “New Musical Express”, che come saprete resiste solo in versione online. Premesso che “NME” ha un taglio più giovanilista, troviamo alcuni irrinunciabili vessilli brit ai primi posti. Ossia band come Arctic Monkeys (secondi, esattamente come per “Mojo”), Shame e Idles. Le ultime due, come vedremo, ritornano un po’ ovunque. Il suo primo posto “NME” lo attribuisce però a The 1975. Il fenomeno del momento oltre la Manica. Soprattutto presso un pubblico (anche) di teenager. Scorrendo la classifica indietro, anche qui tornano tante ragazze (Christine, Robyn, Cardi B), fra cui spicca Mitski.

Già, Mitski, al secolo Mitski Miyawaki, si è addirittura aggiudicata il titolo di miglior album del 2018 dal temutissimo e cliccatissimo “Pitchfork”. Mitski (disco del mese di “Rumore” a settembre 2018) è arrivata davanti ad altre ragazze esordienti, come Snail Mail e Rosalía. Lasciamo gli Stati Uniti e torniamo in Inghilterra, al cospetto del più algido e intellettuale dei periodici musicali in circolazione. Il mensile “Wire”. Qui il disco dell’anno è risultato quello dei londinesi d’adozione Sons Of Kemet (undicesimi su queste colonne). Svettano fra gli altri nomi come Autechre, Jerusalem In My Heart, Pusha-T (presente in quasi tutte le classifiche sopra menzionate), Yo La Tengo etc.

Chiudiamo quest’analisi di un campione dell’informazione musicale mondiale spiluccando la classifica di un altro mensile inglese, “Uncut”, forse il più classic del lotto. Dove ai primi posti troviamo uno dei nomi di area rock che ha messo d’accordo tutti quest’anno: i Rolling Blackouts Coastal Fever, quintetto di casa Sub Pop che con sfrontatezza ha zittito tutti o quasi i lamenti sulla morte delle chitarre. Detto delle solite ragazze onnipresenti (Christine, Janelle Monáe, Courtney Barnett), qui vanno segnalate alcune ondate che ritornano, ossia la presenza di nomi come Sons Of Kemet, Idles, Kamasi Washington, Hookworms, Julia Holter e così via). 

Vale la pena ora spendere qualche ragionamento su che tipo di anno sia stato il 2018. Fuori dall’Italia. Una tendenza sembra essere quella degli album postumi, mai così abbondanti: da Prince al povero Richard Swift, nostro disco del mese, questo mese. Fino a Chris Cornell o vecchie glorie come Johny Halliday. Altro segnale da cogliere è quello del rinascimento jazz inglese. Capeggiato da una band sensazionale come i Sons Of Kemet fino ai formidabili Maisha e Moses Boyd. È stato infine, il 2018, un anno di grandi debutti. Da quello di Daniel Blumberg (secondo posto nella nostra classifica) ai suddetti Rolling Blackouts…, Shame e a Kali Uchis.

Ogni anno qualcuno concorda con i vari giornali, con noi, qualcuno dissente. Si dice: guarda le classifiche di 20 anni fa, guarda quanti capolavori ci stavano dentro? Sarà senz’altro vero, non ditelo a me che ho passato una vita a votare i dischi dei Laika (misconosciuti britannici tra pop e avanguardia) che non sono mai andati da nessun parte ma, ritengo, abbiano lasciato un segno indelebile sulla musica di oggi. In fondo è un gioco. Play. List. Va preso per quello che è. Un riassunto col sorriso sulle labbra. E con alcune considerazioni su cui meditare: dagli hinterland di Milano, Torino, Roma, Bologna in cui abitiamo, lavoriamo in tempo reale – come tutti – con tutti. Senza sapere cosa fa(ra)nno gli altri. Se il disco dei Low è finito in cima a così tante classifiche mondiali – e se nell’arco dell’anno vi abbiamo parlato in tempo reale di perfetti sconosciuti e irregolari come Kacey Musgraves, JPEGAMAFIA, serpentwithfeet, Yves Tumor, oggi celebrati un po’ ovunque – sarà un complotto, oppure un segno che quando un disco è buono davvero chi ascolta musica per scriverne riesce ancora a stabilire delle differenze? Nel dubbio torno ad ascoltare i Laika e vi auguro un anno pieno di sorprese positive di cui discutere. Fra un anno.         

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