Editoriale 340: la musica dell’isolamento

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(Sfondo foto creata da rawpixel.com – it.freepik.com)

Di Rossano Lo Mele

Per parlare dell’isolamento che tutti stiamo vivendo, il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha scritto l’e-book Virus e ha tirato fuori la vecchia battuta di Ninotchka, il film classico di Ernest Lubitsch: “Cameriere! Un caffè senza panna, per favore”. Risposta: “Mi dispiace, signore, non abbiamo panna, solo latte, va bene anche un caffè senza latte?”. Il significato è piuttosto esplicito, come spiega il filosofo stesso: “Rispetto al mio isolamento non è la stessa cosa? Prima della crisi era un isolamento ‘senza latte’. Sarei potuto uscire, ma sceglievo di non farlo. Ora è il semplice caffè dell’isolamento senza possibilità di una negazione implicita”. 

Trasferendoci alla musica non va dimenticato che il caffè senza panna, nei decenni, ha creato molta della roba che più amiamo. L’isolamento giovanile sta alla base delle scelte di vita di Tracey Thorn, per dire. L’ex voce degli Everything But The Girl ha infatti chiamato Bedsit Disco Queen la sua autobiografia. Oppure pensiamo a tutta la corrente intimista generata dalla scrittura degli Smiths nei pieni anni 80, riassunta sapientemente da Maurizio Blatto su “Rumore” n. 309. Una narrazione fatta tutta d’interni, oggetti apparentemente insignificanti che di colpo diventavano universali perché comuni a tante case, a tante vite. Una tendenza che – complice soprattutto la digitalizzazione della musica e della nostra quotidianità – è ben lontana dallo sfarinarsi. Anzi. Così scopriamo che la tradizione del bedroom pop, ossia il pop da cameretta, è più fertile che mai. Tipo la ventunenne Claire E. Cottrill, da Boston – in arte Clairo, ne abbiamo scritto qui nella sezione “Futura” del numero 333 – è ormai diventata da circa un paio d’anni la regina della musica da cameretta. Il brano Pretty Girl è un inno generazionale contro la tossicità dell’amore e i suoi luoghi comuni. Una volta questo tipo di musica non brillava per la professionalità della produzione, ma oggi tutto è cambiato, tanto da suonare bene e pieno dentro gli smartphone o i monitor dei tablet. Una faccenda privata che diventa pubblica, potendo competere col resto del mondo anche in termini di resa. Il pop da cameretta ha fatto strada, divora visualizzazioni e streaming. Una questione generazionale, si dirà.

Sul tema ha però scritto un longform piuttosto interessante l’americano Will Leitch. Leitch viene in realtà dal mondo della cronaca sportiva, ma il suo pezzo dal titolo “Gen X Was Born For This Shit” (lo trovate su medium.com) non necessita di traduzioni. Leitch s’impegna a spiegare come mai la generazione dei quarantenni di oggi sia a suo dire quella che meglio di tutte ha saputo reagire all’isolamento. Perché dentro a  quell’isolamento c’è cresciuta. Figli dei baby boomers sempre troppo impegnati a lavorare, produrre, divorziare, stare fuori casa. Abituati a trascorrere in casa larghe porzioni di giornata davanti alla TV. Ascoltando musica ben presto dimenticata dalle masse e quindi destinata all’anonimato: c’è stato un periodo in cui si pensava che Built To Spill, Douglas Coupland e Richard Linklater potessero diventare mainstream. E invece. Una fetta di popolazione che ha inventato l’odio generazionale, scrive Leitch, quantomeno dalla sua prospettiva americana. Che si trova giusto nel mezzo fra i baby boomers – i genitori, ancora sani e detentori della ricchezza – e la generazioni successive (i millennials o la generazione Z di cui parliamo questo mese nel servizio di copertina su The 1975): quelle prese di mira davvero in modo ossessivo dalle grandi companies statunitensi. La generazione X si è sviluppata a rilento, anche per colpe e pigrizie tutte sue. Figli e indipendenza fuori tempo massimo, certo, ma anche l’abitudine – chiosa Leitch – a una forma di marginalità sociale che oggi gli permette di stare a casa senza soffrire più di tanto. Meno dei genitori e dei figli. Leitch enuclea tutto ciò con leggerezza e senza nessuna parvenza d’invidia sociale “all’italiana”, per capirsi. 

La premessa a tutte queste storie ci dice in realtà che nel tempo tanti ventenni occidentali hanno masticato la loro forma d’isolamento, provando a trasformarla in arte. I piovigginosi inglesi degli ’80 prima, gli slackers americani dai ’90 in poi: gli hikikomori giapponesi, anche loro figli degli ’80, sopravvedono nel frattempo a tutto il paesaggio. Così oggi, in questa epoca di solitudine prolungata è lecito domandarsi – tralasciando le cantate sui balconi, gli appelli accorati, le canzoni a tema (giuro che in redazione ne arriva almeno una al giorno, saranno una cinquantina ormai) e le dirette Instagram: tanta musica è nata senza l’obbligo della reclusione, quando si poteva ordinare un caffè senza panna. Ma oggi, anzi domani: che musica verrà generata da questo caffè senza latte, dalla gabbia domestica come obbligo e non scelta? Lo scopriremo forse nei prossimi mesi. Intanto è bene sapere che il padre di Clairo è stato a lungo manager di multinazionali come Coca Cola, Converse, Procter & Gamble. E che il suo disco di debutto si chiama Immunity. Addio ingenuità.      

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