Fire Records, 40 anni di musica indipendente e non sentirli

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Monde UFO

Cesare Lorenzi racconta la giornata di celebrazione dei 40 anni della Fire Records, con live di Marta Del Grandi, Vanishing Twin e molti altri

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di Cesare Lorenzi

Just five seconds, just five seconds of decision
To realize that the time is right
To start thinkin’ about a little revolution…
(Revolution – Spacemen 3)

Revolution degli Spacemen 3, nel 1988, è stata la prima canzone targata Fire Records ad entrare nella mia collezione di dischi. Se non è stata una “rivoluzione” vera e propria, quantomeno in ambito dei miei personali gusti musicali, ci è andata molto vicino. All’epoca, la Fire era agli albori (la prima uscita ufficiale risale al 1984) e l’Inghilterra, con la Creation Records, 4AD e Factory, era il fulcro della musica indie.

A 40 anni di distanza, sfogliare il catalogo della Fire Records fa davvero impressione: Pulp, Blue Aeroplanes, Pere Ubu, Royal Trux, Come, Television Personalities, Lemonheads, Gun Club, Guided By Voices, The Chills, Sebadoh, Bark Psychosis e molti altri, troppi per citarli tutti. Alcuni di loro sono così rilevanti per le sorti della musica che trattiamo abitualmente e di cui scriviamo su queste colonne, che è davvero superfluo specificare come Fire Records sia stata una delle etichette indipendenti fondamentali degli ultimi decenni; capace, ancora oggi, con la sapiente combinazione di nuove uscite e ristampe, di mantenere un’importanza non scontata. La Fire, anche nella versione più recente, ha saputo trasformare il proprio nome in un marchio di garanzia per gli appassionati. Il suo logo stampato sul retro di un disco rappresenta un invito irresistibile all’ascolto, un traguardo che solo poche etichette discografiche nella storia della musica indipendente possono vantare.

Un risultato che è conseguenza di scelte ben precise: mantenimento della proprietà intellettuale dei titoli in catalogo e nessun outsourcing esterno. Tutto viene gestito negli uffici della label stessa, dalla promozione al mail order. Uno staff di una ventina di persone, una famiglia allargata, che fa riferimento a James Nicholls, vulcanico ragazzone che tiene in mano le redini di tutti gli aspetti e di tutti i dettagli organizzativi, come ho personalmente potuto appurare nella giornata londinese di fine aprile, dedicata appunto alle celebrazioni del quarantennale dell’etichetta stessa.

Evento che si è svolto nella splendida location del teatro EartH, un vecchio cinema ristrutturato in maniera fantastica, che si è trasformato velocemente in polo culturale nel cuore di Dalston, a pochi passi dal nostro amato Cafe Oto.

Una giornata deputata alla celebrazione e vissuta come una festa, con tanti intrecci tra le band sul palcoscenico, come si conviene a un’occasione speciale.

Fire Programma

Ha aperto il programma, nel primo pomeriggio, Josephine Foster, con la sua voce e i synth che tracciano percorsi audaci. Armonie che si espandono e canzoni che si sovrappongono a strutture ripetitive che creano un’ atmosfera di psichedelia eterea. Composizioni che sono puro spirito, con un’anima freak ma una sostanza compositiva fuori dal comune e l’ombra della Nico di The Marble Index che fa capolino.

I Monde Ufo sono una delle più incredibili realtà degli ultimi anni. Ray Monde è un ragazzo di Los Angeles che suona vecchie drum machine, droni e sassofono. Abbraccia lo space rock, il jazz e certo rock psichedelico con lo stesso spirito con cui i Beat Happening si dichiaravano punk. La sua compagna, Kris Chau, suona (per così dire) una campana sacra amplificata attraverso vari pedali, mentre un percussionista e un batterista completano il quadro. Ray continua a scusarsi, dicendo che non sa cosa ci facciano loro lì in mezzo, che sono troppo scarsi per suonare, che lui non sa cantare. Poi, parte il pezzo, e sembra di sentire una versione cosmica degli Yo La Tengo che rifanno Sun Ra ma in bassa fedeltà, con uno spirito così amabilmente amatoriale che non ci si può esimere dall’adorarli. “Siamo di Los Angeles -dice ad un certo punto, Ray – ci chiamiamo Monde Ufo e la prossima canzone parla di alieni”, si imbarazza da solo e aggiunge “sì, una di quelle cose da californiani fuori di testa”. Irresistibili, in una parola.

Intanto, merita un’occhiata il pubblico. Ex giovani indie-rockers, con qualche presenza eccellente (John Parish, Peter Perrett degli Only Ones) e la crema del giornalismo musicale  britannico, comprese alcune delle firme che dalle ceneri di Bucketfull of Brains sono passate a Shindig. Insomma, un’audience difficilmente impressionabile che però dimostra il giusto affetto per i Dream Syndicate, anche se in una versione ridotta ai due chitarristi Steve Wynn e Jason Victor. Più che sufficiente per mettere in piedi il solito show di canzoni, chitarre e tanto mestiere. Alla fine del set si aggiunge Jane Weaver, suonano una cover di The Wall Of Death di Richard e Linda Thompson (Jane, leggendo il testo da un foglietto, mannaggia) e regalano un momento di pura magia. Alle Bas Jan non funziona nulla. Il loro funk wave, con battuta hip-hop, è costellato da piccoli problemi e da un cambio di formazione che ne ha evidentemente minato le certezze. Scorrono via e sicuramente nessuno se ne dispiace.

Non si scoraggia di certo Stewart Lee, uno dei comici più apprezzati in Inghilterra, super appassionato di musica, che tra una battuta e l’altra, fa irresistibilmente gli onori di casa e annuncia le band sul palco. Graham Reynolds è una bella scoperta. Noto per essere un compositore di musiche da film, si presenta sul palco armato di una grancassa, sintetizzatori, pianoforte e vari ammennicoli deputati ai rumori di fondo. Fa tutto da solo e osservarlo è uno spettacolo, con questi pezzi che alternano momenti percussivi e orchestrali a passaggi di solo pianoforte, molto suggestivi. Ad un certo punto, invita Marta Del Grandi sul palcoscenico ed eseguono Linger In Silence, una canzone contenuta nell’ultimo lavoro del compositore texano in due versioni, una cantata in inglese e l’altra in italiano. Marta, questa sera, esegue quella in italiano e il momento è talmente evocativo, bello, struggente, che si rischia di commuoversi.

Marta Del Grandi, poco dopo, prosegue con la sua band, composta da un batterista e una ragazza che suona il sax. Se doveva essere una prova del nove, a Londra, davanti a un pubblico composto da un migliaio di vecchie volpi, allora possiamo dire che Marta ha superato l’ostacolo alla grande. Nonostante qualche problemino tecnico, finisce con un’ovazione che la conferma come una delle migliori nuove voci della scena internazionale. Le canzoni di Selva, il suo ultimo album, anche in questa versione dal vivo mettono in mostra una voce fuori dal comune e una capacità di toccare i tasti giusti a livello strumentale, come se ci trovassimo al cospetto di una versione dreampop della prima Pj Harvey. Il concerto è un trionfo e lei ha una personalità naturale che non può lasciare indifferenti. Fantastica, davvero.

Screenshot

Kristin Hersh riversa tutto ciò che ha nelle sue canzoni. Non lascia spazio per un momento di empatia e condivisione con il pubblico. I suoi brani li conosciamo, non si discutono, ma i suoi viaggi di introspezione personale, conditi da un approccio scarno e abrasivo, risultano un tantino complicati da affrontare, soprattutto in un contesto di celebrazione come questo. Il pubblico le vuole talmente bene da regalarle un affetto assolutamente comprensibile, ma personalmente la preferisco su disco.

Gli Islet sono una delle certezze ormai storiche della scena gallese, sempre prodiga di originalità pop. Fanno un ingresso straordinario, mischiati in mezzo al pubblico, suonando delle piccole percussioni portatili. Il ritmo, del resto, condiziona il suono e la performance della band nel suo complesso, che si abbandona gioiosamente a un’energia sempre pulsante. A volte, sembra di avere a che fare con una bizzarra versione degli Animal Collective ma, allo stesso tempo, viene il dubbio che tutto si riduca a uno sterile, alla lunga, esercizio estetico.

I Vanishing Twin li potresti far suonare anche in soggiorno e sono certo che sarebbero in grado di tirare fuori qualcosa di interessante persino dall’aspirapolvere di casa. Quelli della Fire li relegano al bar, lontano dalla sala principale, riuniti attorno a un piccolo tavolo, ma loro naturalmente non si lasciano intimidire, piazzano la loro attrezzatura ovunque e incantano lo sparuto manipolo di coraggiosi che li segue con ritmi inconsueti, chitarre acustiche, violino e drum machine. Sembrano improvvisare, ma, letteralmente, incantano.

Vanishing Twin

Ultimi in scaletta, prima del gran finale, i Giant Sand di Howie Gelb. Si presentano in tuta da lavoro e badano al sodo, Howie mugugna come al solito ma quando è il momento di spingere non si tira indietro e il concerto prende quota in quel territorio di psichedelia, folk deviato e rock’n roll scapestrato. Ad un certo punto, arriva anche Terry Edwards (PJ Harvey, Gallon Drunk) al sassofono e la figlia dello stesso Gelb alla voce. Si limitano a un paio di classici della band e a qualche cover (la tradizionale The Wayfaring Stranger, Femme Fatale dei Velvet Underground e un pezzo di Vera Lynn) per conservare energie per l’atteso momento targato Giant Syndicate, ovvero il super gruppo deputato a chiudere i giochi. Giant Sand al completo con i due Syndicate, Steve Wynn e Jason Victor e la quarta chitarra nelle mani di Kristin Hersh. Sono proprio le canzoni di quest’ultima ad aprire il set, seguite da due grandi classici dei gruppi coinvolti: Shiver dei Giant Sand e una deragliante Tell Me When It’s Over dei Dream Syndicate.

Le ultime due canzoni in scaletta, le cover di When the Levee Breaks dei Led Zeppelin, con Kristin Hersh alla voce, in una versione narcotica e Lust For Life di Iggy Pop, cantata da Steve Wynn, fanno quello che ci si aspetta in una giornata del genere: suggellano un crescendo di emozioni al culmine di una celebrazione assolutamente necessaria.

Redazione Rumore
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