Editoriale 350: Like a Rolling Stone

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L’editoriale del numero 350 di Rumore, marzo 2021, di Rossano Lo Mele

RUMORE COVER FB NATALE 2023

Di Rossano Lo Mele

Il tempo ha dato ragione a Hunter S. Thompson. La scrittura non può che essere piena di partecipazione, soggettiva, gonfia di ego e pregiudizi, sebbene sempre aggrappata alle fonti. Ciò che il maestro del cosiddetto gonzo journalism andava puntellando con la sua penna su Richard Nixon potrebbe essere riciclato tale e quale per i politici di oggi. A qualsiasi latitudine: conglomerati di potere creati sulla condivisione di fake news e promesse farlocche, il culto della personalità disegnato proprio come quello di una rockstar. Solo che una volta le rockstar erano i musicisti, oggi per l’appunto sono i politici. Sigaretta arrotolata sempre tra le labbra, super alcolici possibilmente a tiro, occhiali da sole a goccia h24, Thompson è stato lo scrittore che ha reso grande il primo “Rolling Stone”. Stiamo parlando del giornale. Quella fondata in California alla fine dei ’60, ispirandosi sia alla quasi omonima canzone di Muddy Waters (Rollin’ Stone), che ai Rolling Stones, nome generato a sua volta dal brano. Senza dimenticare quel pezzo divenuto poi slogan di Bob Dylan: Like A Rolling Stone. Dylan che fu, per ammissione dei suoi fondatori, la guida iniziale, l’artista da spiare e da raccontare ovunque, nei momenti di esibizione pubblica e di vita privata. Anche qui, un archetipo giornalistico: la creazione del mito attraverso il gossip prima e i paparazzi poi (tutta la vicenda di Britney Spears seguita passo dopo passo dal giornale in questione).

Insomma, ce n’è più che abbastanza per riconoscere a “Rolling Stone” i suoi meriti. Del resto Hunter S. Thompson raccontava queste cose già 50 anni fa, e preconizzare il futuro (la scrittura ombelicale e ossessiva dei social media, la cupidigia e la spinta verso il denaro e il potere) con così largo anticipo non è cosa da poco. Al fondatore della rivista, Jann Wenner, non è mai mancata l’iniziativa, quindi ha deciso di produrre una serie/documentario lunga quattro ore sulla genesi e la storia del magazine. La trovate da qualche settimana su Prime Video. Il che suona simbolico: l’ideatore di un media “materico” come un giornale necessita del più potente imprenditore della new economy per diffondere il suo messaggio. Jeff Bezos, uno che con Amazon vende tutto, tranne i giornali. Il documentario si chiama Rolling Stone: Stories From The Edge e con doverosa sintesi racconta tutto. Il fondatore ambizioso e ricco di famiglia che parte da un piccolo ufficio di San Francisco, dove la controcultura stava ipotizzando una nuova America. Il rock che diventa la musica dei giovani in tutto il mondo, lo spostamento a New York, Sex Pistols e Clash che rimettono tutto in gioco. La battaglia contro Nixon e il sostegno ai Clinton (Bill prima, Hillary poi). Ice-T e l’ascesa inarrestabile del rap presso gli adolescenti. Le adolescenti che invece s’innamorano delle boy band così come le loro antenate fecero con Elvis 40 anni prima. E ancora: John Lennon messo a nudo poche ore prima che gli sparassero. David Bowie che già 40 anni prima aveva pianificato la sua morte nei dettagli. Il tema della femminilità, dallo schiavismo lavorativo e familiare subito da Tina Turner agli stupri universitari di massa. La rivista che da alternativa diventa borghese, fiancheggiatrice dell’establishment. Gli screzi con Thompson che quando intuisce l’andazzo – il color dello smalto di Bon Jovi diventa più rilevante della volontà di fare inchieste – prende e se ne va. Senza scordare che i primi soldi veri il periodico li fece con la storia – rapimento e conversione – di Patty Hearst, erede del magnate dell’editoria. Altro che musica. Quarto potere, proprio nel senso che al tycoon in questione era stato dedicato il film di Orson Welles.

Chi ha amato e ama la cultura pop(olare) non può che riconoscere a “Rolling Stone” i molti meriti, una versione mainstream di quel “Creem” cui abbiamo dedicato la copertina un paio di mesi fa. La storia però avanza sempre: è di qualche settimana fa la notizia che il sito americano di “Rolling Stone” ha inaugurato una sezione denominata Exclusive Culture Council. Nel quale si propone di ospitare liberi pensatori disposti a pagare 2.000 dollari l’anno per esprimere i propri pensieri. I “visionari leader di questa nuova cultura” invertiranno così il rapporto dell’era tradizionale dei media. Se una volta lo scopo era quello di ospitare firme premium come quella di Thompson e pagarle a dovere, oggi il rapporto si è rovesciato. Paghi per scrivere. Nell’era del prosumer se hai abbastanza soldi puoi metterti in vetrina. Certo, per questo scopo ci sono già i social media che prosperano e sono (apparentemente) gratuiti. Ma la vetrina di un brand forte e riconosciuto aperta a una “community for influencers, tastemakers, and innovators in the worlds of music, entertainment, media, food & beverage, fashion, sports, gaming and cannabis” ha il suo prezzo. E questo Jann Wenner lo sapeva bene, quando cinque anni fa ha venduto il marchio “Rolling Stone” per più di 100 milioni di dollari. Il problema di rientrare dei costi ora spetta a chi l’ha comprato.

Redazione Rumore
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Rumore è da oltre 30 anni il mensile di riferimento per la cultura alternativa italiana. Musica (rock, alternative, metal, indie, elettronica, avanguardia, hip hop), soprattutto, ma anche libri, cinema, fumetti, tecnologia e arte. Per chi non si accontenta del “rumore” di sottofondo della quotidianità offerto dagli altri magazine.

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