Live Report: The Maccabees @ Fabrique, Milano 3/2/2016

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di Luca Doldi / foto di Starfooker, tratte dal suo foto-report

Destino strano quello dei Maccabees. Debuttanti quando ormai l’onda delle band nu-rock (sì, qualcuno le aveva definite così) dei primi anni duemila era già in fase calante, insieme a tutta l’industria discografica. Salvata qualche anno prima dall’iTunes Store, ma ancora lontana dal ritorno del vinile, senza un nuova ondata  da cavalcare, in un momento in cui arrivavano quasi solo dischi deludenti dalle band che avevano aperto questo nuovo corso. Nel 2007 uscivano Our Love to Admire degli Interpol, First Impressions of Earth degli Strokes, e i secondi capitoli di Editors e Bloc Party, bei dischi che però non portavano nulla di nuovo rispetto ai primi. I Franz Ferdinand erano ormai quasi dimenticati dopo il deludente You Could Have It So Much Better del 2005, così come i Kaiser Chiefs.

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In questa cornice si affaccia il primo disco dei Maccabees, preceduto da alcuni singoli usciti a partire dal 2005. Sarebbero bastato anticipare l’uscita dell’album di due anni per raccogliere almeno qualcosa di quel pubblico ormai quasi orfano dei dischi migliori di quell’ondata. Perché, insieme agli Editors, i Maccabees sono stati gli unici capaci di crescere musicalmente, cambiare, trasformarsi e portare la loro musica nel nuovo decennio con una veste nuova; mentre tutti gli altri si sono barcamenati cercando di mantenere una dignità (pochi ci sono riusciti), senza cambiare quasi nulla della loro formula.

Destino strano anche perché la loro musica si piazza in una terra di nessuno: non è abbastanza difficile da piacere ai critici ma non è neanche abbastanza commerciale da arrivare al grande pubblico. Nonostante un NME Award per un disco incredibile come Given to the Wild e comunque un discreto pubblico che li segue in tutta Europa e negli Stati Uniti, i Maccabeesrimangono sempre lì in mezzo – seguiti poco da stampa e siti di riferimento, italiani soprattutto, e senza quella forte spinta di pubblico di cui hanno beneficiato i loro colleghi arrivati prima.

Conoscete una band indie rock nata dopo il 2007 che riesce a riempire i palazzetti? Al momento non me ne vengono in mente. Per queste caratteristiche i Maccabees sono una band a cui ci si affeziona, che se ti piace cerchi di farla conoscere a più persone possibili intorno a te, perché in fondo non ti spieghi come una band così non riempia almeno un palazzetto. Il concerto si è infatti svolto al Fabrique, locale molto bello e funzionale per i concerti, con un impianto audio e luci incredibili ma dall’atmosfera un po’ freddina. Non importa quante persone ci siano dentro, sembra sempre di essere in pochi. Forse alzare di una tacca il volume, a mio parere un pochino basso per le dimensioni del locale, aiuterebbe a renderlo un po’ più intimo.

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Il pubblico è quanto di più vario si possa trovare a un concerto, dai 20 ai 60 anni, ogni stile possibile e anche molteplici modi di vivere il live. Si parte subito con una tripletta che abbraccia gli ultimi tre dischi andando a ritroso: Marks to Prove It, Feel the Follow e Wall of Arms. I ragazzi appaiono molto rilassati, anche se l’impatto col pubblico non è dei più calorosi. Sarà il posto (mi era capitata la stessa cosa anche con i Verdena, nonostante ci fosse molta più gente) sarà l’atmosfera da mercoledì sera, all’inizio si avverte un po’ di distacco da parte del pubblico. Kamakura, che secondo me è forse il pezzo migliore dell’ultimo disco ne risente un po’, anche se l’esecuzione è da lasciare senza fiato.

La band comunque sembra di buon umore, soprattutto il chitarrista Felix White che dal vivo (e non solo) è il vero motore della band. Incita il pubblico, lo carica, è quello che più di tutti riesce a coinvolgere e a smuovere le persone. Difatti l’atmosfera un po’ ingessata dei primi pezzi progressivamente scompare per lasciare spazio a un pubblico che canta a memoria, salta, balla – e anche la band sembra accorgersene, cercando sempre di più il contatto e la partecipazione.

Come tutti i concerti con una buona produzione e come tutte le band che sanno fare un live come si deve, c’è sempre una prima parte più tranquilla e una seconda in cui si lasciano le redini per coinvolgere completamente il pubblico. C’è sempre un pezzo che ha lo scopo di lanciare la seconda parte e nel loro caso è stato Precious Time, dal loro primo disco. È curioso come col passare del tempo il loro pubblico si faccia trovare più preparato. Nell’ultima data milanese ai Magazzini erano in pochi a cantarla a memoria. In questa occasione invece tutto il pubblico ha dimostrato di conoscerla alla perfezione, facendola diventare quasi un coro da stadio. A testimoniare quello che dicevo prima: chi li segue è un pubblico affezionato, che vuole scoprire tutto della band.

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Se Precious Time accende l’interruttore, Can You Give It fa perdere subito dopo ogni remora e anche chi fino a quel momento è rimasto immobile si ritrova coinvolto nell’azione. Ma i Maccabees oggi non sono solo ritmiche serrate e riff taglienti. Quello che gli ultimi due dischi hanno lasciato trasparire è una vena più riflessiva e malinconica, dove la voce di Orlando Weeks, una delle voci più belle e originali dei nostri giorni, forse si trova anche più a suo agio.

In questo contesto Silence, traccia che su Marks to Prove It non spicca, è sorprendente. Dopo un primo momento di smarrimento, nel quale probabilmente nessuno se la aspettava, apre letteralmente il cuore ed emoziona come nessun altro pezzo era riuscito a fare prima. Gli applausi alla fine si sprecano e  il timido chitarrista Hugo White, che nel pezzo canta con la sua voce spezzata insieme a Orlando, è visibilmente emozionato e imbarazzato da tanto calore.

La loro forza dal vivo oltre a una precisione di esecuzione e un tiro che lascia senza fiato, è riuscire ad avere dal “pianissimo” al “fortissimo” una gamma di intensità infinite. Nello stesso pezzo riescono ad esprimersi al meglio sia in parti sussurrate, con gli strumenti che vengono sfiorati senza perdere un grammo di definizione del suono, che nelle esplosioni sonore sempre molto coinvolgenti e senza mai creare quei pastoni che spesso si sentono con altre band.

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Si ha l’impressione che per i Maccabees sia tutto semplice, anche se quello che stanno creando insieme – con incroci di tre chitarre sempre perfetti e una sezione ritmica che pochissime volte mi è capitato di sentire – è sorprendente per la qualità espressa. Oltre a questo è sempre un piacere vedere una band che si diverte e riesce a trasmetterlo al pubblico, esibendosi fra l’altro anche in battute tipiche da humor inglese. Ancora oggi, dopo nove anni dal primo disco, sentire cantare le canzoni dal pubblico è una cosa che gli illumina il volto.

Il tutto si chiude nel delirio, con pogo sotto palco e tutta la sala che salta e balla con PelicanQuello dei Maccabees non è un concerto dal quale si esce urlando, ma è un live che rimane latente per molti giorni nella mente, si propaga col passare del tempo e fa venir voglia di riascoltare i loro dischi, soprattutto l’ultimo, che dal vivo ha reso molto più delle mie aspettative. Rimane senza alcun dubbio una delle migliori live band degli ultimi anni.

Se Marks to Prove It è stato un album di difficile gestazione, come ha dichiarato Felix White, è impossibile prevedere quale sarà l’evoluzione della band. Ma, stando a quello che si è visto live, White e compagni potrebbero scegliere senza esitazione la strada più difficile: quella meno rumorosa. Perché l’impressione è stata che la band si sentisse più ispirata nelle parti più d’atmosfera del loro concerto, che sono anche quelle che hanno sorpreso di più. Resta che una Spit It Out, per esempio, si è confermata un grandissimo pezzo, uno dei migliori della loro carriera, e ha avuto un tiro incredibile. Vedremo in futuro quale sarà la direzione che i Maccabees prenderanno ma, come hanno dimostrato i dischi precedenti, siamo sicuri che cercheranno nuove strade da percorrere mantenendo il loro stile. 

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