Londra: Cartoline dal Field Day 2015 o, le tastiere vs. le chitarre

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field day

di Elia Alovisi

Bisogna concedere agli organizzatori del Field Day Festival che hanno fatto di tutto per non spillarci soldi (escluse le birre, ma insomma, quello lo si mette in conto). La line-up, divisa su due giorni, seguiva infatti un criterio abbastanza sensato: con qualche piccola eccezione il primo giorno l’elettronica, il rap, gli imbastardimenti, le cose strane la facevano da padrone; il secondo giorno era il turno delle chitarre, siano queste effettate o pulite o distorte. Chi è interessato a entrambi si fa il weekend, altrimenti giornata singola. Cosa apprezzabile che nella stragrande maggioranza dei festival non succede, soprattutto da noi, dove si cerca la maggior parte delle volte di accontentare un po’ tutti (e nei casi peggiori succedono queste cose, santiddio). Decisamente comodi anche la location (a Victoria Park, gigantesca macchia verde nel pieno di Londra Est, in mezzo a due stazioni della metropolitana) e gli orari (chiusura alle 23, in tempo per prendere tranquillamente un treno verso casa).

Inizio il tutto nel primo pomeriggio di sabato 6 – al palco sponsorizzato da Resident Advisor suonano Sophie e QT. Il primo nome appartiene a Samuel Long, producer inglese ancora senza un album d’esordio ma con una caterva di singoli tanto strambi quanto ballabili e un seguito decisamente ampio viste le grida che partono quando entra sul palco. Il secondo è invece il nome d’arte di Hayden Dunham, una performance artist americana il cui primo (e unico) singolo Hey QT – prodotto da Sophie e da A.G. Cook, capo del collettivo PC Music – è diventato uno dei principali esempi di quanto il limite tra elettronica contemporanea e parodia dell’elettronica contemporanea è decisamente labile. A guardare il tutto, a lato palco, c’è Four Tet. Il set di Sophie sarebbe più adatto a un’ora più tarda, ma il risultato è comunque piacevole – partono tranquillamente tutti i suoi pezzi più conosciuti: Bipp, Elle, Hard e Lemonade, in tutta loro schizofrenia danzereccia, intervallati da feedback e rumorismi vari che fanno vibrare l’intera tenda. L’impressione è che Sophie sia stato preso come eroe dalla comunità queer tutta, che ha una buonissima rappresentanza nel pubblico – un tizio ha una maglietta che recita “YES, YOUR GAY-DAR IS RIGHT”, ci sono diverse persone vestite in drag e una coppia di ragazzi limona appassionatamente in prima fila. Ed è tutto molto divertente. Il set è concluso appunto dalla Dunham, che entra sorseggiando una lattina del suo energy drink (che potete comprare qua se avete soldi da buttar via) e fa il suo pezzo in playback – il che è sensato, dato che QT non è che un personaggio, una sorta di parodia esagerata della popstar sbrilluccicante e patinata media.

sophie

Sophie

Faccio a tempo a vedere un paio di canzoni di Owen Pallett, che suona dall’altra parte del festival nella tenda sponsorizzata da Crack Magazine. Line-up a tre: Owen suona violino, tastiera e canta assieme a un batterista e ad un chitarrista/polistrumentista. Nonostante gli strumenti non siano effettivamente “potenti”, il risultato finale è comunque un onestissimo muro di suono in cui i virtuosismi di Pallett la fanno da padrone. Lewis Takes Off His Shirt conclude il set in mezzo agli applausi generali. Appena finito il suo set, alla tenda sponsorizzata da i-D, suona Yung Gud, giovane produttore svedese affiliato ai Sad Boys e al loro cloud rap post-tutto – ne avevamo parlato qualche settimana fa in occasione del controverso concerto di Yung Lean al Barbican. Il suo è un DJ set che va un po’ ovunque e unisce sue produzioni a brani totalmente inaspettati – partono tranquillamente pezzi drum ‘n’ bass e subito dopo Whole Lotta Love dei Led Zeppelin, per dire. Il tutto è piacevole, e parte del pubblico balla convinta mentre altri restano fermi e confusi. Parlando con Gud dopo il concerto, mi spiega come i Sad Boys siano arrivati a un punto simile a quello raggiunto dalla Odd Future – i vari membri vogliono ora fare la loro cosa e smarcarsi dal concetto di “crew”. Il che è sicuramente apprezzabile, ma prima di giudicare positiva la scelta di Yung Gud aspettiamo di sentire un suo album d’esordio, sperando sia un po’ più coerente con sé stesso.

yung gud

Yung Gud

Inizia a calare la sera e Todd Terje sale sul palco principale assieme alla sua band, gli Olsens, per presentare dal vivo il suo ottimo It’s Album Time. Il suo set è però un po’ una delusione – colpa dell’impianto e non della band in sé, però. La sua elettronica è tutto tranne che massimalista – preferisce pochi elementi e suoni retro, la cassa dritta non la fa da padrone e i synth sono più d’atmosfera che d’impatto. Quindi se pezzi come Leisure Suit Preben e Delorean Dynamite sono delle bombe ascoltate in cuffia o in un club col volume a mille, a tal punto che sembra di essere nel pieno degli 80s più tamarri (in senso buono), su un palco gigantesco con un impianto non tirato al massimo risulta poco più che un sottofondo. La batteria, soprattutto, si perde in uno spazio immenso che nessun beat così sottile riuscirebbe a riempire. Peccato. Ci spostiamo quindi alla tenda di Crack, dove Danny L Harle di PC Music sta introducendo il concerto di Chet Faker con un DJ Set. Il pubblico è però chiaramente lì per il secondo, e snobba tranquillamente la proposta patinata e danzereccia di Harle – comunque coerente con il suo stile, il che è apprezzabile. Le grida sono tutte per il crooner australiano, che sale sul palco senza la sua band e se la danza – scarpe di cuoio bianche, risvoltino, capelli tirati su in una coda e barba corta – di fronte a un synth introducendo il concerto in solitaria. Ma è quando entrano tutti gli altri e parte No Diggity che inizia il vero concerto, con tutti che cantano e si molleggiano sulle gambe e fanno su e giù con la testa. La tenda è piena fino all’orlo e sono decisamente convinto che buona parte del pubblico non sia neanche riuscita a vedere il buon Chet in faccia.

chet faker

Chet Faker

Torniamo alla tenda di Resident Advisor ed è il turno del duo rap più incattivito e convinto del mondo: i Run the Jewels, matrimonio artistico di enorme successo tra Killer Mike ed El-P. Dice già abbastanza il fatto che i due entrano sul palco sulle note di We Are the Champions dei Queen, spingendo il pubblico a cantare tutti assieme – e madonna se tutti cantano. Mike ha un braccio rotto, ma non per questo smette forse di saltare o incitare la gente a fare casino o a fare segni con la mano bloccata – l’altra con il microfono saldo in mano. I due aprono il concerto con Run the Jewels, ed è già chiara l’aria che tirerà: un mosh brutale e mani che fanno su e giù senza fermarsi mai. Le cannonate vere e proprie partono sul terzo brano, Blockbuster Night Part 1, con il suo beat martellante a farla da padrone e Mike ed El a scambiarsi rime come se fosse la cosa più facile del mondo. I pezzi di RTJ2 sono addirittura meglio recepiti di quelli del loro esordio, a confermare quanto il loro secondo album si sia meritato le lodi di mezza stampa internazionale. L’apice viene raggiunto con Close Your Eyes (And Count to Fuck), così introdotta da El: “Chiediamo scusa alle prime 50 file per quello che sta per succedere”. E infatti parte il mosh più violento della due giorni – mi ci trovo in mezzo e sembra di essere a vedere gli Slayer. Un altro grande momento arriva su Lie, Cheat, Steal – tutto il pubblico a scandire il ritornello dietro le istruzioni di El.

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Run the Jewels

È arrivato il momento degli headliner, e mentre Caribou inizia il suo set sul main stage decido di restare fedele alle tende per evitare delusioni da impianto troppo basso. Sono le 22 quando lo scozzese Ross Birchard, in arte Hudson Mohawke (intervistato sul numero di giugno di Rumore) inizia il suo set sul palco di Resident Advisor. Il suo nuovo album, Lantern, uscirà a breve e questo concerto presenta il live set che porterà in tour i prossimi mesi – una batteria dal vivo e un polistrumentista a supportarlo. E la sua performance si rivela la più potente e riuscita del festival tutto. Presentare l’elettronica dal vivo ai festival non è mai facile, ma Appleton ce la mette tutta come presenza scenica – non c’è un momento in cui non gesticola, si scambia uno sguardo d’intesa con i suoi amici sul palco o carica il pubblico in qualche modo. Il concerto è aperto da Kettles, seguita dal singolone Ryderz – l’intero pubblico a scandire il sample con un coro. Very First Breath è cantata dal vivo da una voce maschile, e se su disco la sua EDM imbastardita sembra un po’ – perdonatemi il termine – da classifica, in sede live con i volumi al massimo e tutto si rivela un grandissimo singolo. Dal nuovo album, tra le tante, partono anche Shadows, Portrait of Luci e Scud Books. I synth da marcia imperiale di Birchard si sposano benissimo con le pause più melodiche delle canzoni, e il ritmo è sempre perfettamente scandito tra momenti di delirio e altri in cui tirare il respiro senza annoiarsi. Le ovazioni più grosse sono riservate per Chimes e R U Ready, classico dei suoi TNGHT diventata poi base per Blood on the Leaves di Kanye West. Chiude, il disco come il set, Brave New World. Un concerto glorioso.

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Hudson Mohawke

Si conclude così la prima giornata, con un fiume di persone che si dirigono ordinatamente verso fuori da Victoria Park guidate da innumerevoli poliziotti e addetti alla sicurezza che gestiscono il traffico e gli attraversamenti pedonali. La mia domenica inizia verso le 14.30 con un set degli Allah-Las, desertici e assopenti al punto giusto per essere apprezzati nel primissimo pomeriggio. La prima attrazione generalmente percepita come tale, però, sono i DIIV – che suoneranno su un palco principale al cui impianto è stato fortunatamente fatta qualche modifica. I quattro, capitanati da quell’adorabile anoressico coi vestiti troppo larghi di Zachary Cole Smith, sono osservati da un lato del palco da Sky Ferreira e dall’altro da Aldous dei defunti Egyptian Hip Hop. La scaletta è basata principalmente su brani nuovi, tratti dal loro nuovo album Is the Is Are, fuori questo autunno – e la reazione quindi del pubblico è solo leggermente danzereccia rispetto a quello che potrebbe essere (contando che, tra l’altro, i quattro manco fanno Dust – che è l’unico brano nuovo già semi-pubblicato). Niente da fare per avere anteprime di titoli, che la voce di Smith è costantemente smorzata dal suo tono timido/sussurrato – ma il risultato finale è sicuramente interessante, e c’è da sentire che cosa succederà su disco per capire se i DIIV si siano giocati le loro potenzialità. Dal vivo, intanto, continuano a convincere – How Long Have You Known, Air Conditioning e Doused la loro figura la fanno sempre.

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DIIV

Dopo un cambio palco è il turno di quell’adorabile cazzone che è Mac DeMarco. Per darvi un’idea del potenziale random del tutto, nel corso del concerto arrivano addosso a lui, al suo bassista Pierce McGarr e al suo chitarrista Andrew Charles White: numero 2 reggiseni, numero 1 carota, numero 1 fetta d’anguria mezza mangiata (“Thanks! I love watermelon”, dice White), numero 1 pupazzo di Winnie the Pooh. Si inizia con la cantilena/singalong di Salad Days e si procede tra Rock and Roll Night Club, Blue Boy, Cooking Up Something Good, Chamber of Reflection. Quello di DeMarco è un perfetto esempio di come fare un concerto a un festival: divertendosi, facendo prendere bene tutti, inserendo una cover a cazzo di Blackbird dei Beatles cantata da McGarr, affermando “Hey, abbiamo un sacco di tempo! Jammiamo!” e mettendosi effettivamente a jammare su un riff mezzo prog rock, concludendo il tutto su Still Together con un epico assolo di White + crowdsurfing magistrale che arriva al mixer e torna indietro facendo prendere bene tutti. E promettendo che dopo il concerto lui e gli altri saranno in giro per divertirsi – ed effettivamente ci saranno. Nota: McGarr (cioè quest’uomo qua) si meriterebbe una band tutta sua da quanto ci crede e da quanto sa tenere bene il palco. Il fatto che abbia dei baffi che manco nella Allman Brothers Band aiuta. Daje Mac.

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Mac DeMarco

Nel frattempo le Savages si stanno preparando sotto la tenda dello Shacklewell Arms – divisa d’ordinanza completamente nera, ad eccezione della camicia della batterista Fay Milton. Si inizia con la doppietta City’s Full / Shut Up: l’impatto live delle quattro è innegabile e ben conosciuto, e quasi aumenta quando quella bestia da palcoscenico che è la loro frontman Jenny Beth chiede al pubblico se gli va bene ascoltare un po’ di canzoni nuove. La prima che suonano si intitola I Need Something New e sembra di sentire una versione punk/incazzata/contemporanea dei Jefferson Airplane. D’altronde bisogna far meglio dei DIIV, che i pezzi nuovi li han suonati tutti fermini e zitti – ok che è nel loro stile, ma insomma, un po’ di cuore mettiamocelo per farci prendere bene con canzoni che non abbiamo mai sentito. Pezzi nuovi, dicevamo: da quello che sento non sembra affatto che il nuovo lavoro delle Savages avrà qualcosa da invidiare a Silence Yourself. Speriamo bene.

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Savages

A tre quarti del loro set mi trasferisco in zona palco principale, dove i riuniti Ride stanno per iniziare il loro concerto. Lo fanno con gli otto minuti di Leave Them All Behind. E un po’ dispiace dirlo, ma annoiano abbastanza – il suono è molto poco effettato, il che per una band che viene praticamente sempre inserita nel calderone “shoegaze” è abbastanza un problema. Più che perdersi in evoluzioni sonore sembra di sentire un concertone ruock, in cui la maggior parte dei membri del pubblico presi bene sono anagraficamente simili ai quattro sul palco (come documentano le telecamere che passano sul pubblico). Decido quindi che la reunion dei Ride non fa per me e mi sposto verso il palco più piccolo del festival, dove l’olandese Jacco Gardner sta suonando dei pezzi del suo nuovo album Hypnophobia. È una scelta di cui non mi pento – chitarra acustica in mano, Gardner resta fedele alle sue radici psych, ti prende per mano e ti riporta negli anni 70 più dolcemente annebbiati. Sembra quasi di stare a sentire una versione più fumosa degli Zombies, soprattutto negli stop-and-go di Another You e nella cullante Find Yourself – che chiude il set – e il mio festival. Senza ragionamenti superflui, il Field Day è stato una bomba. Organizzazione impeccabile, rispetto degli orari (umanamente inglesi), generale comodità (Ok Glastonbury, ma volete mettere non dover dormire nel fango per tre giorni?), atmosfera perfetta e tanta scelta musicale. Consigliato sia che ci piacciano le tastiere che le chitarre – o entrambe.

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