Editoriale 267: Ultimo accesso oggi alle ore…

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di Rossano Lo Mele

C’è una bellissima storia edita sul finire del 2013 da Zerocalcare che si chiama Il demone della reperibilità. Parla delle nostre vite,  del fatto che ogni accesso alla Rete, al mondo condiviso, al villaggio globale, al proprio smartphone e qualsiasi device, è ormai sotto controllo. Scendiamo nel dettaglio. E parliamo di quell’applicazione del demonio denominata WhatsApp. La conoscete, sì? La usate, sì? La fidanzata vi ha detto mille volte ma come mai non mi hai risposto se a quell’ora eri collegato? Con chi stavi parlando? Cosa stavi facendo? Perché non mi hai risposto se eri collegato? Eri collegato, lo so, l’ho visto, rispondi! Come mai ci hai messo così tanto? WhatsApp è un persuasore occulto: è stato ideato per controllare gli altri ed essere controllato. Vi piace questo mondo? A me non tanto. Ora, tutte queste prelibate questioni hanno a che fare con la sfera della vita strettamente privata e personale di ciascuno di noi. Ognuno le amministra come crede. E – pur senza rievocare gli indimenticati Anthrax di Antisocial – certo, il privato è sempre più pubblico. E viceversa. Ma non esageriamo. E non sempre.

Leggevo qualche giorno fa l’ultimo saggio di Claudio Magris. Si chiama Segreti e no (Bompiani, euro 7, pagine 64). Magris parla del Manzoni e del Guicciardini. Ma, senza saperlo (anzi, sapendolo benissimo), parla in realtà dei nostri giorni. Dei nostri tempi. Non a caso uno dei capitoli chiave del libro ha come tema centrale quello del “custodire un segreto”. Scrive Magris che questa intimità “dovrebbe essere inviolabile, tanto più nell’epoca del nudismo psicologico e della registrazione universale di massa”. Sottolineare e imparare a memoria. Chiaro? No? facciamo un esempio. Per capire come si passa dagli Arcana imperii di Tacito agli irrinunciabili status su Facebook.

Parlo con te, amico. Sì, proprio con te che mi hai mandato una e-mail mezz’ora fa. E che un quarto d’ora dopo averla inviata pubblichi il tuo spiritosissimo status pubblico su Facebook, visibile a tutti, in cui dici, lamentandoti: ohhhhh, gente che sta tutto il giorno su FB e poi non risponde neanche alle mail. Ma che ci avranno da fare? Parlo con te, bro, che mi scrivi la domenica pomeriggio su WhatsApp implorando una risposta immediata. E se non rispondo mi riscrivi. E mi riscrivi. E mi riscrivi. Parlo con te, ancora, fratello, che passi le giornate a prenderci per il culo sui social, a denigrare, a scrivere falsità da querela, ma poi in privato ti inginocchi per un’intervista, una recensione dai, almeno una segnalazione del nostro evento, mandando avanti il tuo ufficio stampa, perché la faccia per chiedercelo direttamente ora, dov’è? Parlo con te, zio, che l’articolo non ti è piaciuto, allora ironizzi, demolisci, fomenti. E naturalmente se l’intervento fosse stato di tuo gradimento o più approfondito, niente di tutto ciò. E magari di fronte alla richiesta di confronto e chiarimento neppure rispondi più, lesa maestà.

Oh, ma quanto è smartissimo – io sto sempre un passo avanti – fare le battutone? Fare lo sdrammatizzatore da retweet acrobata di professione? Prendere sempre in giro gli altri, che tanto tu sì che faresti meglio. Sai che c’è? Rileggiti Il grande Gatsby e fallo questo meglio, che il tempo corre. Così ci metti tutti in riga, una buona volta. Sai cosa facciamo mentre ci scrivete e non rispondiamo? Tutto quello che ci pare. E, pensa te, non dobbiamo neppure giustificarci. E, aggiungo: al netto delle polemiche, qui siamo pochi, lavoriamo tantissimo e cerchiamo di rispondere a tutti, sempre. Civilmente. Ma. Ma. Ma. Amici demonizzati dalla reperibilità. Invece di scriverci di notte su WhatsApp, tanto noi siamo lì apposta, provate a fare una cosa. Domandatevi: ma la cosa che ho pubblicato e che sto promuovendo, è davvero così super iper mega top come io immagino tanto da chiedere udienza a quest’ora della notte o della domenica? O tale da ironizzare sempre e comunque. Non è mica che il problema, spesso, consiste nella qualità media dei prodotti musicali che dobbiamo analizzare? O siamo sempre noi i cattivi, perché il cattivo nella morfologia della fiaba ci vuole sempre.

Sul tema – partendo da La Grande Bellezza – ha scritto Roberto Cotroneo su “Sette” del “Corsera”: “La semplificazione di tutti i linguaggi ha portato a un analfabetismo di nuovo tipo, esclusivamente italiano, di cui ci accorgeremo molto presto: nella politica, nella cultura e nella società”. Nella musica, aggiungo. Italiano, ripeto.

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