Intervista: Foals

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Foals

di Mavi Mazzolini

Entro nel camerino dei Foals e trovo Jimmy Smith buttato su un divano. Barba incolta, occhi stanchi che continua a strofinarsi e braccia che ogni tanto porta all’insù per stirarle. Pochi sbadigli, voce bassa e parole che escono lente e pesanti. I Foals sono uno dei gruppi più importanti del momento, e sicuramente lo sanno: esibizioni al Glastonbury e nel resto del mondo in posti che segnano generalmente il tutto esaurito – come quella a Milano del 24 Ottobre, dove lo incontro.

A metà della nostra intervista entra, come se niente fosse, Yannis (il frontman) nel camerino: occhiali scuri, barba, fa finta di niente, si muove veloce e silenzioso, si sistema i capelli, mette in carica il telefono, prende un sacchetto di patatine e se ne va. Una specie di fantasma, dice poco, forse non lo dice nemmeno spesso (non rilascia interviste prima dei concerti per preservare la voce), ma quando lo fa, fa rimbalzare ogni sillaba da ogni parte: mi riferisco alla sparata che ha fatto su spotify qualche settimana fa, e che ha fatto alzare il sopracciglio un po’ a tutti. Questa sua attitudine, un po’ arrogante (ma effettivamente vincente) si riflette anche nel modo in cui fa musica: intanto, i Foals sono il suo progetto. È lui la voce, è lui che scrive la musica, è stato lui a mandare i demo e prendere tutte le decisioni importanti. I Foals sono sempre stati il suo progetto e agli altri membri è sempre andato benissimo. Parlare con gli altri membri di testi e musiche, però, è come parlare a vuoto, perché non hanno troppo potere a riguardo: una specie di Yannis-centrismo condiviso, in cui Philippakis detta le regole e gli altri possono pensare di fare qualche variazione fra una prova e l’altra. Prove a cui riesco ad assistere, per un paio di canzoni – mentre aspetto di entrare all’intervista – e durante le quali i membri danno effettivamente il loro meglio: così come nel live, emergono tutti gli strumenti, fanno giri lunghi, inusuali, esuberanti. Come a dire “ci siamo anche noi”. E forse, la formula del successo della band sta proprio qui: dare il più possibile nei live, singolarmente, ognuno diventando il proprio strumento. E giusto o sbagliato che sia, è sicuramente una formula vincente, visto dove sono ora.

Holy Fire è uscito a Febbraio, e continua ad andare piuttosto bene: una nomination ai Mercury, svariate  numero uno… La crescita, rispetto ad Antidotes, è notevole. Per esempio, le influenze math rock che vi ossessionavano nei primi cd sono andate sfumando.

Jimmy: “Nel primo album eravamo ancora molto influenzati dai nostri progetti passati: Yannis, prima dei Foals, era in un gruppo math insieme a Jack, The Edmund Fitzgerald. I semi di quel genere, l’attitudine poliritmica e tutte quelle cose che ci interessavano all’inizio, sono ancora lì; forse non sono pronunciate come lo erano prima, ma abbiamo trovato un nuovo modo per fare musica. Ci sono ancora, si vedono ancora, ma non ci sono solo quelli.
Io, all’epoca, uscivo da una band emo da college. Ero ossessionato da gruppi come The Get Up Kids, Fugazi, i primi dischi più punk dei Jimmy Eat World… Suoni abbastanza grezzi che in qualche modo si avvicinano al math. Però ora non riesco più ad ascoltarli, mi sembrano quasi infantili. Crescendo ho iniziato a cercare cose diverse nella musica, ora non cerco più quello che cercavo qualche anno fa.”

Come fuoriesce questa crescita nei vari cd?

Jimmy: “Sicuramente esce, ed esce molto, ma non saprei dire come. Solamente guardo quello che faccio ora e quello che facevo ai tempi e ci vedo una differenza abissale. Ora c’è molta più melodia, sul palco, in studio… Andiamo cercando molta più parte musicale di quanto non facessimo ai tempi. Mi appassionano il folk e tutte quelle canzoni semplici che niente hanno a che vedere con le prime band emo (ride). Non dico di cercare più emozione, perché no… È una cosa più di sintonia.”

Forse cerchi più l’empatia.

Jimmy: “Sì, la definirei empatia: odio quelle canzoni in cui sei sopraffatto dal tono emozionale – insomma, alla fine diventano anche peggio di quelle senza emozioni. Mi piace dare l’idea di instaurare qualcosa con chi ascolta, arrivando direttamente allo stomaco, senza però esagerare.”

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 È interessante seguire il vostro percorso in parallelo alle copertine. Antidotes era un disegno quasi abbozzato, e da Total Life Forever avete iniziato ad usare fotografie. Entrambe hanno a che fare con il mare: il primo visto da sotto, il secondo da sopra.

Jimmy: “Le copertine arrivano sempre dopo aver finito il disco, e penso si noti. Ascoltando TLF ci veniva in mente il blu, d’altronde ha delle atmosfere molto oceaniche e subacquee – e non per forza è una cosa negativa. Holy Fire, invece, sembra dominare il mare con i profili di questi cowboy. I colori sono più atmosferici, sono quelli di un tramonto che variano dall’oro al rosso, e basta sentirlo per ritrovare tutto questo in qualsiasi canzone.”

Forse sono anche stati influenzati dal contesto in cui l’avete registrato: TLF in Svezia, HF a casa, Londra.

Jimmy: “Entrambi sì, e in modo diverso: in Svezia non lasciavamo mai lo studio, ed è come se non abbassassimo mai la guardia. Mi spiego: eravamo lontani da casa, non conoscevamo nessuno, la sera dormivamo tutti nello stesso posto, stavamo sempre insieme… In questo modo non riesci a staccare, rilassarti, o semplicemente pensare ad altro. Rimani fisso su quello, ed è abbastanza dura. Terribile, direi.
A Londra, invece, lasciato lo studio ognuno tornava a casa propria, vedeva i suoi amici, e la mattina dopo si ripartiva da zero. Era molto più rilassante, molto più semplice, quindi ci trovavamo molto più spesso a fare jamming.”

Jam session che sembrano molto importanti nel vostro processo creativo: so che Inhaler inizialmente durava 27 minuti.

Jimmy: “Ci piace creare delle jam session, sia in studio che sul palco: ci rilassiamo, coltiviamo la nostra unione finché non entriamo in sintonia e cuciamo i vari pezzi della canzone. Con Inhaler è andata così: avevamo tutte le parti, solo che non sapevamo come metterle insieme. Abbiamo continuato a suonare e alla fine tutto ha trovato il suo posto.
Le jam session sono belle per questo, ti ci perdi e inizi a suonare quasi inconsciamente, senza nemmeno farci più troppa attenzione. Vieni trasportato via, e per quanto ci porti a sforare sempre i tempi in studio, è molto gratificante sul palco. Da un live all’altro vedi l’evolversi della canzone, così che anche i pezzi più vecchi non siano mai uguali a loro stessi. Questo impedisce anche al pubblico di annoiarsi, e di vedere sempre qualcosa di nuovo.
Suonare così liberamente ti permette di spaziare fra tanti generi e stili, ed è poi l’unico modo che abbiamo per creare nuova musica in tour: non abbiamo chitarre acustiche, e sarebbe fastidioso trovarti un tizio che ti suona la chitarra di fianco mentre stai cercando di riposare… (ride).”

Sembri molto provato dal tour, fra l’altro.

Jimmy: (ride) “In effetti sì, molto. Siamo corsi da un lato all’altro del pianeta, e già solo tornare in Europa per noi è un sollievo. È bello, è bellissimo, e andare in tour per una band come noi è fondamentale. Ti permette di vedere la diversità di pubblico, e ti permette anche di conoscerlo. In America sono più esigenti, alla fine vedono un mucchio di concerti, quindi pretendono il massimo. Se poi li fai sciogliere, li hai conquistati per sempre. In Australia invece ci sono i più sciolti, anche perché lì andiamo fortissimo. Però andare in tour ha anche i suoi lati negativi: mi trovo a sentire la mancanza di faccende domestiche come cucinare, fare la spesa o il bucato… Ecco, il bucato è una cosa che amo fare, in un certo senso è terapeutico. Non so spiegare come, ma lo è. Stare in tour ti fa sentire strano, è come se ti svegliassi dentro a una realtà distorta e non ti sentissi mai legato a qualcosa. Infatti, tornare a casa ti fa rendere conto di come non hai davvero in mano nulla. A questo punto vorrei avere una casa, una famiglia… Cioè, vorrei, ma non è questo, più in là, tutte le volte mi dico “okay, mi sposerò fra due anni”, e poi due anni dopo, e due anni dopo ancora.
In un certo senso capisco anche perché le band cambino per fare soldi: a un certo punto ti vuoi sistemare, ne hai bisogno, ne avrei bisogno. Però non riuscirei mai a farlo, rovinare tutto questo dopo otto anni… Non riuscirei a dormire la notte.”

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