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Come gli Arctic Monkeys sono diventati così enormi e tanto ascoltati dalla Gen Z

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Arctic Monkeys Idays 15 Luglio 2023 Prandoni 08896
Arctic Monkeys Idays 15 Luglio 2023 Prandoni 08896
(Credit: I-Days / Francesco Prandoni)

Da band di ragazzetti inglesi che facevano indie rock a gruppo intergenerazionale: crescita e ascesa degli Arctic Monkeys passati all’I-Days di Milano. Ora (per fortuna) li ascoltano anche le nuove generazioni.

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di Nicholas David Altea

In questo esatto momento è proprio così: gli Arctic Monkeys hanno confermato al concerto dell’I-Days a Milano, all’Ippodromo La Maura, di fronte a 65mila la loro grandezza. Non il classico raduno di indie rocker/brit rocker nostalgici, o meglio, non solo quello. Un pubblico racchiuso in una forbice di età variabile dai 16/18 ai 50 anni: un incontro intergenerazionale per un live di rara solidità, presenza scenica ed equilibrio sonoro. Lo stesso equilibrio che Alex Turner – frontman del gruppo – ha sempre creato, distrutto e ricostruito sotto diverse forme, disco dopo disco, dacché lo conosciamo. Lo ha fatto dopo i primi due album (Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not e Favourite Worst Nightmare) con il terzo Humbug: cupo, decadente, senza devastanti accelerazioni e con l’influenza artistica nella produzione di Josh Homme; un lavoro mai totalmente compreso. In Suck It And See trovavamo ancora più America al suo interno, mantenendo comunque un piede sulle melodie mancuniane degli Smiths – come ammesso da lui – col rischio però di ritrovarsi in una sorta di limbo musicale quale è stato SIAS. E poi AM, il taglio definitivo del cordone ombelicale con gli UK: heavy blues, gospel, R&B, soul e groove hip hop – sì, ok, ci sono anche un po’ di echi di Black Sabbath che sono pur sempre britannici e a cui hanno anche preso l’ispirazione dal font di Master of Reality per il logo.

Il pianoforte, Los Angeles e il lounge pop

Le avvisaglie di quella che sarebbe stata la direzione intrapresa si intuivano già in Mad Sounds, sempre contenuto in AM. Le prove generali sono continuate col secondo episodio dei Last Shadow Puppets insieme al “fratello” Miles Kane con sonorità intrise di white soul, pop barocco e quintali di “bromance”. Si sentiva già agitare il bicchiere del whiskey preferito da Alex (un bourbon chiamato Bulleit) appoggiato sul pianoforte Steinway Vertegrand ricevuto in regalo per i 30 anni. Tranquility Base Hotel & Casino è stato un disco “turner-centrico” più che mai, scritto in solitaria a Los Angeles e portato alla band per riempirne (pochissimo) gli anfratti con il minimo indispensabile e con un Matt Helders praticamente “disoccupato”. Qualcosa che era più di una voglia solista e che, in un modo o nell’altro, avrebbe visto la luce con o senza il resto della ciurma ferma ai box da troppo tempo. Il risultato è un lounge pop da meditazione, a tratti sci-fi e intimo che non pochi aveva lasciato insoddisfatti. Si possono ancora trovare le parole per raccontare che il disco di una delle proprie band preferite è una totale delusione? Sì, si può, seppur fosse rifinito bene, con un colore chiaro e un gusto pulito dove Burt Bacharach, Serge Gainsbourg e le cinematografiche atmosfere vengono però appesantite da verbose dissertazioni. È liberatorio riservarsi il diritto di ammettere che non apprezzi un disco di una band che per la tua crescita è stata importante. Aiuta a evitare il terribile effetto fanboy, alcune volte limite indistinguibile con la critica.

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(Credit: I-Days / Francesco Prandoni / Il pubblico all’I-Days in attesa degli Hives e degli Arctic Monkeys)

Non si può però negare che sia stato un passo coraggioso: tutt’altro che la facile svolta pop e catchy, tutt’altro che brani radiofonici o accattivanti – esclusi due o tre episodi che spiccavano oltre il resto, ma che rimanevano comunque colorati da tinte soft. Semplicemente l’autoerotismo musicale di Alex Turner al massimo della sua espressione, e che forse come disco solista lo avremmo somatizzato diversamente. The Car arriverà dopo quattro anni (compresi due di pandemia) e chissà se senza lo stop forzato lo avremmo ascoltato prima. La linea artistica è molto affine, ma la band è più protagonista, le composizioni sono più corali, sempre più cinematografiche e sostenute dalle chitarre 70s, le stelle polari David Bowie e Scott Walker, qualche digressione funk in aggiunta e la teatralità che fa di Alex Turner il crooner che non ci saremmo mai aspettati. Tantomeno io, ripensando a quando mi ritrovai nel 2005 a guardare in tv, su Flux, un canale tv di musica alternativa a flusso continuo. Quella sua faccia da schiaffi con l’acne giovanile in piena fioritura ci diceva con un filo di voce: “We are Arctic Monkeys. This is I Bet You Look Good on the Dancefloor. Don’t believe the hype” e poi partiva uno dei singoli più importanti degli ultimi 20 anni di musica. Per qualche giorno rimasi con l’idea che fosse un video d’epoca di qualche misconosciuta band inglese. L’effetto invecchiato e il font del titolo in sovrimpressione si rifacevano al programma musicale televisivo trasmesso dalla BBC2 tra gli anni 70 e 80, The Old Grey Whistle Test. Per un po’ ho pensato arrivassero dal passato. Poi ho capito che erano il futuro.

Tornando a oggi, il loro ultimo album è stato il primo nella loro carriera a non raggiungere la posizione nr. 1 nella classifica casalinga, quella UK. Da noi gli ultimi lavori sono andati così: AM (4°), Tranquility Base Hotel & Casino (3°) e The Car (6°). Ma quando ti ritrovi a pubblicare nella stessa settimana di Taylor Swift che esce con Midnight è difficile fronteggiare una potenza di fuoco del genere, sia sugli streaming e perfino sulla vendita fisica. Convincente per molti – con riserva per alcuni, me compreso. Ma è il bello e il brutto degli artisti non immobili che provano nuove traiettorie. Alcune volte sembrano più sensate, altre volte non le capiamo o, semplicemente, come è lecito che sia, non ci piacciono.


L’enormità live

Arctic Monkeys Idays 15 Luglio 2023 Prandoni 09037
(Credit: I-Days / Francesco Prandoni)

È sul palco che si conferma la loro grandezza: riuscire a far coesistere quasi 20 anni di carriera e sette album molto diversi fra loro trovando un registro sonoro che non penalizzi le produzioni più datate – durante il tour di Humbug nel 2010 non successe, ad esempio, e l’effetto non fu piacevolissimo. Accade così il momento in cui ti riappacifichi con gli Arctic Monkeys perché dopo Last Train to London dell’Electric Light Orchestra in sottofondo, una musica suadente li accoglie, la mirrorball inizia a luccicare di luce riflessa, arriva sul palco la band di Sheffield, e Matt Helders dà il via con Brianstorm per trascinarci nel nostro “peggior incubo preferito”. La fragorosa Don’t Sit Down ‘Cause I’ve Moved Your Chair e poi arriva Crying Lightning che suona grossa e ostinata. Alex va a prendersi gli applausi del pubblico durante la marcia prima dell’ultimo ritornello, le braccia larghe e la faccia tosta da frontman navigato, anzi, da marinaio esperto al timone come nel tumultuoso video che li vedeva solcare mari notturni in tempesta con una barchetta sgangherata. Ora però siamo sul transatlantico finemente arredato e rifinito. Non suoneranno My Propeller, tornata in scaletta qualche mese fa dopo ben 9 anni di esilio.

Invece Teddy Picker acquisisce maggiori sfumature ma non perde la martellante dinamica anche se Turner si prende più libertà con la voce – lo farà spesso appena potrà. The View From the Afternoon è devastante pur con un paio di bpm in meno di velocità, ma ne guadagna di compattezza rimanendo caratterizzata dal botta e risposta affilato di chitarre tra i vicini di casa Turner e Jamie Cook. Why’d You Only Call Me When You’re High? sarà l’occasione per dire al pubblico italiano “How you feeling, everybody?” mentre si sistema al piano. Si rialzerà sempre senza chitarra per la sua conclusione e per prendere il centro del palco per Arabella con tanto di outro con l’innesto di War Pigs dei Black Sabbath. Del penultimo lavoro c’è solo Four Out Of Five che funziona quasi come interludio mentre Perfect Sense con la dodici corde è un altro momento intimista da crooner consumato. La botta di adolescenza arriva cantata da tutti: Fluorescent Adolescent è generazionale come almeno un altro paio di pezzi. Brani dal primo e dal secondo disco che cantano i 40enni che li hanno visti al Rolling Stone o al Traffic di Torino. Ma li cantano anche i diciottenni che all’epoca del primo tour in Italia (coi concittadini Milburn di supporto, prima al Vox di Nonantola, a Modena e il giorno dopo al Rolling Stone di Milano) erano soltanto un lontano pensiero o una vaga idea dei propri futuri genitori.

Scaletta Arctic Monkeys


La lunga coda di AM

Capire come ragazzi e ragazze della Gen Z (nati a ridosso o ben oltre gli anni 2000) siano arrivati a una band partita, prima con l’indie rock / garage revival, e poi diventata via via più alternative rock – pur con una propria riconoscibilità – non è facile: sicuramente Tik Tok ha ampliato il pubblico, magari passando da svariate tracce di AM presenti nella colonna sonora della popolare serie tv Peaky Blinders, utilizzate soprattutto nella seconda e terza stagione. Sta di fatto che i numeri – se proprio dobbiamo tirarli fuori – parlano chiaro: AM è in top 100 UK per un totale di circa 513 settimane (rimanendone fuori una o due), praticamente 10 anni interi, ossia da quando è stato pubblicato l’1 agosto 2013. In Italia, controllando oggi, lo si rivede presente da più di un anno nella Top 100 italiana dei più venduti e alla nona posizione nella chart dei vinili da circa due mesi e mezzo. Su YouTube, i loro principali video dei primi lavori viaggiano attorno alle 60 milioni di visualizzazioni, quelli di AM salgono verso i 100milioni, e su Spotify agilmente oltre il miliardo.

Ma c’è un’anomalia che forse è quella generatrice di questa “coda lunga” di AM: il video minimale di Do I Wanna Know?, pezzo cult utilizzato nella serie tv Peaky Blinders nell’ultimo episodio della seconda stagione, che ha sfondato il miliardo e mezzo di visualizzazioni. Sì, avete letto bene: 1.530.736.227 visualizzazioni: un ritmo di crescita di circa 1 milione ogni 3-4 giorni e 3,4 milioni di visualizzazioni del testo su Genius. Già nel 2014 il brano aveva scardinato le porte delle classifiche americane e una serie di concatenazioni hanno consolidato dal vivo brani come Arabella, R U Mine? e la stessa Do I Wanna Know?, fra i più acclamati a Milano insieme ai primi singoli. AM è ormai un classico storicizzato e in continua crescita, forse l’unico album in chiave “rock” che può – non dico insidiare, quello mai – ma almeno diventare l’alternativa contemporanea al classico The Dark Side Of The Moon. Alex Turner e soci conoscono l’importanza del loro quinto lavoro e la sfruttano a dovere come all’I-Days, rappresentandolo con ben cinque brani, come anche Favourite Worst Nightmare.

Alex Turner è il miglior songwriter degli ultimi 20 anni

Quello che più lascia a bocca aperta è l’ormai completa padronanza del suo ruolo di frontman oltre che del suo registro vocale, in alcuni casi estremizzato, certo, ma sempre sotto controllo. I gesti, la prossemica, la camminata, i movimenti con o senza strumenti non sono casuali, non sono figli naturali del momento – c’è poca improvvisazione, è vero, ed è forse l’unico limite. L’assolo in ginocchio in chiusura di Body Paint è da guitar hero; fa sorridere a ripensarlo a come teneva alta la sua Fender agli inizi che mandava su tutte le furie i puristi. Quando si rialza e prosegue, l’enorme obiettivo al centro del palco in cui sono passate le immagini del live filtrate e sature, lo trasmette in un loop psichedelico infinito e poi appare la parola luminosa TILT. Uscita e ritorno sul palco con tripletta finale che fa felici tutti: Sculptures of Anything Goes (alcune volte scelta come opening dei concerti), la gemma primigenia I Bet You Look Good on the Dancefloor e R U Mine? extralarge. Non servirà nient’altro.

What the hell is T I L T
by u/Kevinatorz in arcticmonkeys

Damon Albarn dei Blur ha detto che gli Arctic Monkeys sono “l’ultima grande guitar band”. Gli Hives, compagni di tour degli AM – che a Milano hanno fatto un live potentissimo – hanno dichiarato a “NME” che sono “l’unica buona band davvero popolare”. Lodi da tutti per un gruppo che è diventato una macchina perfetta con il fondamentale apporto di Nick O’Malley, Jamie Cook e Matt Helders malgrado il totale controllo e dominio sia sulle spalle e nelle mani di Alex Turner, a ragion veduta però, perché è il miglior songwriter in ambito rock degli ultimi 20 anni. Non ci sono molti dubbi. In più tre turnisti (tastiere/hammond, chitarra/lap steel e percussioni) possono solo che rendere tutto più fluido e pieno ma senza gli Strokes gli Arctic Monkeys non esisterebbero – lo fa intuire Alexander David Turner in un’intervista a Radio X:

“L’arrivo degli Strokes ha cambiato la musica che ascoltavo, le scarpe che indossavo. Mi sono fatto crescere i capelli e ho preso in prestito il blazer di mia madre. Ero un grande fan”

Lo dice in relazione al brano Star Treatment in cui canta “I just wanted to be one of The Strokes / Now look at the mess you made me make” (“Volevo solo essere uno degli Strokes / Ora guarda che casino mi hai fatto fare”).

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(Credit: I-Days / Francesco Prandoni)

Al contrario dei suoi maestri, Turner è riuscito a non essere immutabile col rischio di diventare prigioniero di sé stesso; ha attraversato il suo percorso artistico con la stessa naturalezza con cui di pari passo anche i suoi capelli hanno cambiato forma: il taglio più brit dei primi periodi; più lungo con l’uscita di Humbug; versione Teddy Boy con litri di gelatina e ciuffo prepotente per Suck It And See; capello più lungo e tirato indietro per AM; poi rasato e ora gonfi e ondulati, sempre pettinati indietro. Come se per entrare dentro ciò che vuole suonare dovesse prima esserlo. Non una maschera ma un vero cambio personale che parte dal suo interno per arrivare alla band e al pubblico. Diventare intergenerazionali è un’impresa ardua ma è il modo più funzionale per rimanere incastonati nella storia della musica alternativa senza dover scendere a compromessi artistici pubblicando musica di dubbio gusto, almeno per ora. 65mila persone a Milano e 35mila a Roma (sold out a un mese dall’uscita dei biglietti) non sono poche, in Italia. Non ci sarà da stupirsi se in futuro una data al Forum non basterà o se San Siro potrebbe diventare casa loro per una o più notti. Dopo questo live viene difficile trovare qualcosa di meglio in termini assoluti alle latitudini del rock alternativo (per stare larghi coi termini). Mentre qualcuno ha ancora quell’idea, condita da spocchiosa superficialità, che gli Arctic Monkeys siano la classica band indie rock inglese dei primi 2000 e poco più, nel frattempo c’è tua nipote 17enne o tuo figlio nemmeno 19enne che stanno ascoltando AM in streaming. Fattene una ragione.