Intervista a Ferro Solo: “Un certo tipo di musica ha sicuramente ucciso il fascista che è dentro di me e che è dentro ciascuno di noi”

Date:

03 FerroSolo

Ferruccio Quercetti dei CUT racconta l’ultimo capitolo del suo progetto solista Ferro Solo

Banner Rumore OK

Io e Ferruccio “Ferro Solo” Quercetti siamo nati lo stesso anno, a poco più di 20 km di distanza. Da adolescenti, nella seconda metà degli anni 80, ci siamo formati musicalmente (e direi culturalmente) sotto gli stessi palchi, a partire dal mitico Rock Roads Festival di Giulianova, città natale di Ferruccio. Abbiamo anche studiato a Bologna negli stessi anni, prima metà dei ’90. Ma curiosamente ci siamo conosciuti di persona solo dopo.

Oggi siamo vecchi giovani di mezza età ancora ossessionati dalla musica. Come ascoltatori, prima che musicisti (lui) o cronisti (io). L’estate scorsa ci siamo visti nella sua Giulianova dove mi ha fatto dono del vinile dell’ultimo album dei CUT, l’ottimo e forse anche un po’ sottovalutato Dead City Nights. Nel periodo pasquale ci siamo rivisti nella mia Teramo dove mi ha portato in anteprima il vinile di Almost Mine Pt. 3: The Fernando Chronicles, terzo (e ultimo?) capitolo della trilogia di Fernando. Un disco nel quale “Ferro suona quello che vorrebbe ascoltare”, per dirla con le parole usate da Luca Frazzi nella recensione apparsa su “Rumore” di aprile. Oltre che nella musica, Ferruccio è anche un vulcano nella parola. Questo il lungo resoconto delle nostre chiacchiere.

Nell’avventura solista e piuttosto intima di Ferro Solo ti sei circondato di amici, prima che di ottimi musicisti.

“Questo aspetto è se vuoi uno dei tanti paradossi di tutto l’affaire Ferro Solo. Nonostante la dimensione solipsistica che il moniker suggerisce, sarebbe stato impossibile realizzare quello che avevo in mente senza l’aiuto di tante altre persone. Il nome Ferro Solo si giustifica al fine distinguere queste uscite da quelle della mia band e perché, a differenza di quello che succede con i CUT, laddove ogni brano nasce da un lavoro collettivo in sala prove, le canzoni dei tre capitoli di Almost Mine sono state tutte scritte dal sottoscritto “in perfetta solitudine”, tanto per citare il titolo di un album di un autore che so apprezzi molto. Tuttavia, anche se l’unico strumento che ho utilizzato per comporre queste canzoni è stata la chitarra acustica, quasi sempre già in fase di scrittura avevo in mente una veste sonora specifica per ogni brano. Alcuni mi sembravano funzionare già così, nudi e crudi come li avevo scritti, ma per molti altri pezzi fantasticavo selvaggiamente, immaginando arrangiamenti di natura molto varia e atmosfere che attingessero a generi molto diversi tra loro: garage punk, power pop, blue-eyed soul, rockabilly, glam rock, punk rock, folk, chamber pop e via discorrendo. Per alcuni pezzi volevo una rock band completa. Per altre canzoni pensavo a una dimensione più elettroacustica o addirittura semi-orchestrale. In altre ancora volevo un pianoforte, un organo o qualche inserimento elettronico e così via. Essendo io un non-musicista, per poter realizzare tutte queste idee mi sono dovuto necessariamente guardare attorno”.

E qui arrivano gli amici di cui sopra…

“Fortunatamente nel corso degli anni mi sono circondato di persone che, oltre ad essere mie amiche, avevano le capacità per aiutarmi a mettere insieme il mondo di suoni che avevo in mente. Senza alcun dubbio la varietà di atmosfere e di generi che caratterizza i tre album che compongono Almost Mine sarebbe rimasta solo nella mia testa senza il contributo di tutti questi collaboratori che, ovviamente, oltre a interpretare le mie indicazioni, ci hanno messo del loro in più di un’occasione arricchendo ulteriormente i miei brani e suggerendo ulteriori arrangiamenti e soluzioni. Limitandomi al cast della Part III, citerò Sergio Carlini dei Three Second Kiss – a cui sono legato da un’amicizia che copre ormai quattro decenni – e che mi ha seguito sin dai primi giorni di Ferro Solo, così come il mio soul brother Luca Giovanardi dei Julie’s Haircut. Andrea Rovacchi, sempre dei Julie’s, ha prodotto e mixato questo terzo episodio così come gli altri dischi di Ferro Solo e suona un po’ dovunque in tutta la trilogia. Poi ci sono i Chow (Riccardo “Frabbo” Frabetti, Davide Montevecchi e Stefano Zuccato) al completo: Frabbo e Davide sono con me sin dalla prima incarnazione dei Fernandos – la band che a volte mi accompagna dal vivo – mentre Stefano è entrato in formazione più di recente. C’è Ulisse Tramalloni, anche lui nei Julie’s Haircut, alla batteria nella maggior parte dei brani di quest’ultimo episodio della trilogia. In un pezzo che si chiama The Fear invece alla batteria figura Francesco Salomone dei Forty Winks, primo drummer dei Fernandos. Gabriele Riccioni, assistente di Andrea Rovacchi, ha suonato il basso in alcune canzoni. Oltre a quelli citati, nella categoria degli amici oltre che dei collaboratori, rientra certamente Markus “Biti” Bauck, chitarrista berlinese, nonché la persona a cui devo tutta la mia storia di improbabile rocker. Senza il suo incoraggiamento e il suo aiuto durante gli anni della mia post-adolescenza, sarei probabilmente sempre rimasto chiuso in camera mia a suonare le mie canzoncine per me stesso, oppresso dalla mia “timidezza criminalmente volgare”, tanto per fare un’altra citazione. Per molte ragioni, avere lui come ospite alla chitarra e ai backing vocals in Paragraph, l’ultimo brano dell’ultimo capitolo di questa trilogia, mi restituisce il senso della chiusura di un cerchio, di una closure, come dicono gli inglesi, per me davvero significativa. Tutte queste persone hanno lasciato e lasciano ogni giorno un segno nella mia vita oltre che nella mia musica: del resto, non potevo mettere delle canzoni così personali nelle mani di sconosciuti!”

Hai affermato che questo ultimo capitolo della trilogia di Fernando potrebbe coincidere con il suo funerale. Non ci credo, ma anche fosse voglio dirti che sarebbe una grande uscita di scena. D’altronde rispetto ai primi due capitoli molto vicini tra loro, non solo in termini temporali, per dare forma definitiva alle Fernando Chronicles ci hai messo quasi 5 anni…

“Grazie! Sicuramente questo disco rappresenta l’uscita di scena di Fernando e la conclusione della sua tragicomica vicenda. Per il momento non mi è chiaro se Ferro Solo sopravviverà a Fernando o meno: immagino che lo scopriremo nel prossimo futuro. Quello di Fernando sarà un lungo funerale, comunque. Prima porterò il feretro su e giù per l’Italia per far ascoltare queste canzoni a più persone possibili e forse svelerò qualche altra outtake o alternate version dei tanti brani registrati durante le session di Almost Mine. I 5 anni di attesa tra i primi due episodi – usciti a meno di un anno di distanza uno dall’altro – e la parte 3 sono in gran parte dovuti agli eventi (pandemia e Lockdown vari) sopraggiunti dopo la release della parte II: l’idea iniziale era infatti quella di non metterci così tanto tempo a pubblicare questo terzo volume. La continuità tematica tra i tre dischi è invece totale come si evince in primis dai testi, ma anche dalla denominazione consecutiva dei sei lati degli album, dalla grafica, dalla titolazione, dall’uso ricorrente dei simboli per designare le facciate degli LP, oltre che dalle reprise più o meno ‘nascoste’ della title track ‘Almost Mine’ presenti in tutti gli album. Certo, avrei anche potuto aspettare di finire tutte le canzoni per poi pubblicare direttamente un triplo, ma per fortuna – mia e dei miei pochi ascoltatori direi – è andata così!”

A proposito della grafica: sul primo capitolo di Almost Mine scrissi che l’artwork di copertina in stile Adelphi mi faceva pensare un po’ al mondo antico di Sir Billy Childish. Riproporlo in tutti e tre gli album è una precisa scelta, me ne parli?

“Certo che è stata una scelta precisa! Con Francesco Polcini e Giovanna Eliantonio (la coppiadi grafici pescaresi con cui lavoriamo da anni sia con i CUT che con Ferro Solo) avevamo ben chiaro sin dall’inizio che i tre dischi avrebbero dovuto avere lo stesso stile grafico proprio per accentuare l’appartenenza di questi album a un ciclo unico. Inoltre, adottare un immaginario che evocasse una collezione di volumi letterari voleva ribadire la natura simile a un romanzo a episodi dell’intera saga di Almost Mine. Per struttura, gli album rock/pop somigliano molto alle raccolte di poesie o, quando c’è un tema narrativo comune come in questo caso, ai romanzi epistolari in voga tra il diciottesimo e l’inizio del ventesimo secolo. Per questo abbiamo deciso di accentuare questa suggestione letteraria attraverso le copertine. Come dicevo prima, la divisione in tre volumi di Almost Mine rimanda anche al feuilleton, al romanzo ad episodi, altra tipologia di pubblicazione oggi scomparsa e che in certi casi assumeva le caratteristiche di un vero e proprio genere letterario. Tutti questi richiami a una dimensione libresca d’antan hanno ispirato lo stile “classico” della copertina. Perfino il cartoncino che abbiamo usato per gli LP è di formato più ruvido del solito proprio al fine di ricordare al tatto la porosità delle copertine dei volumi dell’Adelphi che giustamente citavi”.

Pensandoti nella tua veste da cantautore mi vengono in mente su due piedi Robyn Hitchcock e Billy Bragg, un po’ anche il Johnny Thunders solo. Che ne pensi?

“Penso che tu mi stia facendo un complimento davvero lusinghiero. Per diverse ragioni sono un fan di tutti e tre gli artisti che citi. Personalmente ritengo Robyn Hitchcock uno dei più grandi songwriter e chitarristi di sempre. A parte qualche sua uscita tra la fine degli anni 90 e l’inizio dei 2000, credo di aver tutto di lui, a partire dai Soft Boys. Underwater Moonlight è semplicemente uno dei dischi più belli di tutti i tempi e mi sembra impossibile che sia così sottovalutato: un perfetto connubio tra psichedelia e new wave, come se i Pink Floyd di Syd Barrett (o i Beatles di Revolver) fossero stati presi in ostaggio dai Wire di Chairs Missing o dai Television di Marquee Moon! Lo stesso vale per la sua carriera come Robyn Hitchcock and The Egyptians o come Robyn Hitchcock da solo. Il suo esordio e album come Fegmania, I Often Dream Of Trains, Element Of Light sono semplicemente eccezionali! L’ho rivisto da poco dal vivo ed è riuscito a stregare una sala enorme con solo la sua chitarra e la sua voce: il tempo sembrava essersi fermato durante il suo set. Anche le sue cose più recenti sono ottime, in tutta la sua carriera si fa davvero fatica a trovare un solo pezzo che non valga la pena di ascoltare. È davvero un crimine che in così pochi lo seguano oggi. Io ogni tanto dal vivo eseguo una sua cover, She Doesn’t Exist, un altro brano che sembra scritto appositamente per Fernando e la sua storia. A tutti quelli che stanno leggendo questa intervista: andate subito ad ascoltare Robyn Hitchcock se non lo conoscete, potete buttarvi a caso, tutto quello che fa è stupendo…e non dimenticate i Soft Boys! Di Billy Bragg adoro soprattutto i momenti in cui la passione politica cede il passo a ritratti intimi e personali. È noto per essere il menestrello del socialismo britannico, cosa che gli riesce benissimo ma è quando parla di relazioni interpersonali che mi uccide davvero. Dischi come Worker’s Playtime e i momenti più struggenti di Talking With The Taxman About Poetry mi emozionano fino alle lacrime ogni volta che li ascolto. Del Johnny Thunders solo mi piace sia il versante più punk’n’roll di dischi come So Alone tanto quanto l’assoluto abbandono, disperato, romantico e desolato di un album acustico come Hurt Me, per me uno degli apici della sua produzione…e ogni tanto una cover di You Can’t Put Your Arms Around A Memory fa capolino nella mia scaletta”.

Parliamo un po’ delle canzoni e giochiamo coi riferimenti musicali:con quel titolo, This Machine Kills Heartaches mi sembra una presa di posizione esistenziale, prima che politica.

“Assolutamente sì! Col titolo di quel pezzo sto parafrasando Woody Guthrie, sulla cui chitarra campeggiava un adesivo che recitava “This Machine Kills Fascists”. Prima di tutto ci tengo a dire che imbattermi in un certo tipo di musica ha sicuramente ucciso il fascista che è dentro di me e che, se vogliamo, è dentro ciascuno di noi. Mi ha immunizzato contro gli stronzi e la stronzaggine: questa società e questo sistema economico depositano in tutti noi i semi del fascismo che, ogni volta che certi equilibri vengono messi in discussione, vengono risvegliati, titillati e lasciati germogliare in tutta loro violenza. Grazie a certa musica credo di aver sviluppato gli anticorpi contro tutto questo. Se non avessi incontrato la musica dei Redskins, dei Clash, degli stessi stessi Billy Bragg e Woody Guthrie probabilmente sarei stato una persona molto diversa, anche politicamente. Quindi Woody aveva ragione e la parafrasi del mio titolo non vuole in alcun modo confutare quella famosa scritta sulla sua chitarra, bensì adattarla umilmente, e ironicamente, alla storia di Fernando. Ok, la musica, o meglio la musica da sola, forse non sarà in grado di fare rivoluzioni e trasformare la società, ma può di certo cambiare e indirizzare le persone… nei casi migliori può addirittura ispirare e incoraggiare coloro che le rivoluzioni poi le mettono in atto”.

Ma questa macchina con sei corde è riuscita, e riesce ancora, a lenire i dolori di cuore e della vita?

“Di certo – e qui subentra la mia più domestica variazione sul tema che recita “questa macchina uccide i dolori di cuore” – può aiutarci ad affrontare le difficoltà della vita, trasformandole in qualcosa che possiamo condividere con gli altri. Buona parte delle canzoni di Almost Mine non sono altro che delle reazioni immediate al dolore che quotidianamente le vicende che narro mi causavano. Capisco come a volte il tono dei miei testi possa essere percepito come violento e aggressivo: tuttavia mi chiedo che cosa sarebbe successo se non avessi avuto la possibilità di trasformare ogni momento di rabbia e tristezza in una canzone. In This Machine Kills Heartaches canto proprio “Sometimes I don’t like what I’m singing and I think is no fun, but I’m thankful all I ever got was a guitar instead of a gun”. In poche parole, anche se quello che canto può sembrare a volte sgradevole e crudele, è decisamente preferibile che rimanga confinato all’interno del recinto di una canzone o di un disco, piuttosto che dilaghi con tutta la sua virulenza nella vita delle persone coinvolte. Questo non vuol dire che rielaborando il proprio dolore in musica non si soffra – e a volte questa forma di sublimazione non elimina del tutto il potenziale distruttivo che certe vicende possono avere nella vita reale – ma nel mio caso il “meccanismo di difesa musicale” di cui sopra disinnesca e assorbe la parte più aggressiva dei miei sentimenti, mi permette di attenuare il dolore e, soprattutto, mi aiuta a controllare gran parte del male che potrei fare a me stesso e agli altri qualora non fossi in grado di trasformare le cose che provo in accordi e parole. Se poi questa catarsi può essere utile anche ad altri non posso che esserne felice: mi è capitato in più di un’occasione di imbattermi in persone che mi hanno detto o scritto di essersi riconosciute nelle storie di Fernando e che le mie canzoni le avevano aiutate in momenti difficili. Che una cosa così privata e personale possa risuonare nell’intimo di altri per me è assolutamente straordinario. Riuscire a mettersi in contatto con i nostri simili, anche se sconosciuti, in maniera così profonda attraverso la musica è una magia che continua a sorprendermi ogni volta”.

Habit mi riporta vocalmente a Lloyd Cole coi Commotions e musicalmente a una sorta di incrocio tra REM e Waterboys, sarà anche per via del violino e del mandolino…

“Sono tutti riferimenti azzeccati perché anche in questo caso citi degli artisti che amo tantissimo. Nel caso dei Waterboys la passionalità, il trasporto e la visione di Mike Scott mi hanno sempre affascinato. I dischi dei Waterboys, dal loro esordio almeno fino a Fisherman’s Blues sono dei compagni di vita fedeli per me e ogni tanto li rispolvero con grandissimo piacere. Sono una band di cui oggi non parla più nessuno, forse perché il loro fervore emotivo e spontaneo si adatta poco a questi tempi così blasé, ma proprio per questo l’emozione che mi danno pezzi come Church Not Made With Hands, Red Army Blues, Old England, The Whole of the Moon, We Will Not Be Lovers è assolutamente unica. Ti svelo un piccolo segreto: in Hamlette, brano contenuto in Almost Mine Part 1, c’è una citazione nascosta di A Girl Called Johnny, altra canzone dei Waterboys che adoro. Sono un appassionato anche di Dexys Midnight Runners, The Men They Couldn’t Hang, Pogues, oltre che del Van Morrison dei grandi capolavori dei tardi Sixties/Seventies. Sono sicuro che in Habit tutte queste esperienze di ascolto sono confluite in maniera più o meno consapevole. Per questioni anagrafiche posso dire di essere cresciuto con i dischi dei R.E.M. degli anni 80: sono stato un fan sfegatato sin da quando mi sono portato a casa una copia di Document nel 1987. Amo tutto quello che hanno fatto da Chronic Town almeno fino a Out Of Time, ma anche dopo hanno scritto e pubblicato diverse grandi canzoni. Li ho visti a Bologna al Palasport nel 1989: aprivano i Go-Betweens, altra mia grande passione che avevo già avuto la fortuna di vedere dal vivo a Giulianova nel 1987 (remember Rock Roads festival?). Ho rivisto I R.E.M. anche in occasione del tour di Monster a metà anni 90 e fu un altro grande concerto. Rattlesnakes di Lloyd Cole and The Commotions è un capolavoro che conosco a memoria, il songwriting di Lloyd Cole mi ha influenzato sicuramente. Ascoltando quelle canzoni sembra di leggere delle novelle di Salinger, Fitzgerald o Leavitt messe in musica: puro wit letterario anglosassone, sarcastico, colto e “pop” allo stesso tempo. Amo anche Easy Pieces e Mainstream, ma le chitarre di Rattlesnakes sono qualcosa di divino”.

Trovo molto centrata, oltre che riuscita, la cover di When You Were Mine di Prince. Ma un po’ inaspettata…

“Sono un fan di Prince fin dalla metà degli anni 80. Ho iniziato ad appassionarmi visceralmente alla musica in quel periodo, 1985/1986. Avevo 13/14 anni e, come sai bene, dalle nostre parti non era facilissimo trovare dischi indipendenti all’epoca. Tra le cose mainstream che potevi trovare facilmente nei negozi di dischi e di cui potevi vedere i video in TV o ascoltare i pezzi alla radio, c’era proprio Prince. In quel periodo Prince stava imperversando con il meglio della sua discografia, parlo di dischi come Purple Rain, Parade, Around The World In A Day. Poi nel 1987 arrivò la bomba Sign ‘O’ The Times, uno dei miei dischi preferiti di tutti i tempi: con i CUT abbiamo fatto una cover della title track in un EP uscito nel 2001. Devo ammettere che poi, nel corso degli anni 90 e fino alla fine della sua carriera, non ho seguito Prince con la stessa intensità. Non era facile seguire le sue vicissitudini e la qualità media degli album dopo Lovesexy si è decisamente abbassata. Tuttavia, nel suo torrente ininterrotto di musica c’è sempre stata roba incredibile, in qualsiasi periodo del suo percorso. In lui ritrovo tutto: Hendrix, James Brown, Sly And The Family Stone, Parliament/Funkadelic, Marvin Gaye, Miles Davis, ma anche i Beatles più visionari, il Frank Zappa meno pretenzioso, il Bowie di metà Settanta, gli Stones di Their Satanic Majesties Request. C’è anche un delizioso sapore psyche/bubblegum pop che emerge spesso nel suo suono. Pensa a brani come Paisley Park, Raspberry Beret o Dinner With Delores: potrebbero essere farina del sacco di act bubblegum come Lemon Pipers, 1910 Fruitgum Company, o di gruppi Sixties pop come i Lovin Spoonful. When You Were Mine è tratta da Dirty Mind, uno dei suoi primi capolavori, e appartiene secondo me a questa genia di pezzi rock/pop di Prince: una vena che vorrei avesse sfruttato di più, ma lui era fatto per disattendere le aspettative e sorprendere tutti, soprattutto i suoi fan. Il testo di When You Were Mine sembra essere stato scritto apposta per Fernando e la sua storia e si inserisce perfettamente nel flow di Almost Mine… non a caso è l’unica cover presente in tutta la trilogia”.

Appena ho ascoltato la tua versione ho avuto la sensazione che una cover così l’avrebbero potuta fare i Dream Syndicate periodo Out Of The Grey.

“Se la nostra versione ti ha ricordato il suono dei Dream Sindycate, beh non non posso che essere orgoglioso di questo accostamento. Sempre grazie alla mia adolescenza vissuta dalla metà degli anni 80 in poi, sono sempre stato un grande appassionato del sound del Paisley Underground. Adoro band come Green On Red, Long Ryders, Rain Parade, 3 O’ Clock, Bangles, Naked Prey, True West. I Dream Syndicate sono forse i miei preferiti del lotto anche perché ho avuto l’occasione di vederli dal vivo più volte, a differenza delle altre band citate: la prima volta è stata nel 1987 a Giulianova nel contesto del già citato Festival Rock Roads. Un concerto clamoroso che, a distanza di quasi quarant’anni, nessuno è ancora riuscito a scalzare dalla mia top ten delle migliori esperienze live vissute dal sottoscritto. Dischi come The Days Of Wine and Roses e The Medicine Show sono dei capolavori assoluti. Ci sono pezzi clamorosi anche in Out Of The Grey: la title track, Boston, Forest For The Trees. Capisco però perché fai riferimento a quell’album in particolare per la nostra cover di Prince: Out Of The Grey ha un suono molto Eighties rock e io ho ricercato volutamente quelle sonorità per questo brano. È il sound che trovi anche nei dischi di John Mellencamp, Tom Petty & The Heartbreakers o dello stesso Springsteeen di quel periodo e che secondo me si sposa benissimo con la nostra interpretazione di questo brano proprio perché, nonostante la nostra versione sia decisamente più garage rispetto all’originale di Prince, conserva comunque un forte sapore mid-80s. Ho scoperto solo dopo che questo brano è stato reinterpretato anche da Cindy Lauper nonché da Mitch Ryder, uno dei miei idoli assoluti, in un suo disco degli anni 80 che non conoscevo: sono in buona compagnia quindi! Tornando ai Dream Syndicate poi devo dire che adoro la scrittura di Steve Wynn così influenzata dalla letteratura hard boiled di Dashiell Hammett, Mickey Spillane, W.R. Burnett e dal noir americano classico alla Chandler. Quello che mi fa impazzire di loro è anche il fatto che sono un perfetto esempio di come si possa suonare duro senza essere metallici, un’arte che band come Gun Club, Thin White Rope e i già citati Long Ryders e True West conoscevano benissimo ma che dopo l’avvento del grunge si è un po’ persa. Non ho nulla contro il metal e penso che il grunge abbia fatto bene a spazzare via gran parte dello snobismo che nell’ambiente dell’alternative rock si respirava fino a quel momento nei confronti della musica heavy. Tuttavia a volte mi manca sentire quel suono selvaggio e deragliante, privo però di influenze metalliche, che caratterizzava certe band dure dell’underground post-punk e pre-grunge. Per fortuna gente come i Dream Syndicate è ancora attiva e porta ancora in giro per il mondo questo approccio unico”.

L’album si chiude, a mio parere benissimo, con Paragraph: il pezzo più felpato, melodico, sornione, jazzy. Mi pare che alla leggerezza musicale faccia da contraltare un testo niente affatto leggero. Sbaglio?

“Non sbagli affatto. Paragraph non chiude solo questo album, ma tutta la trilogia di Almost Mine e mette la parola fine sulla storia di Fernando. Nella scaletta della Part III poi è preceduta da un brano molto intenso per me come Don’t Waste Your Love On Me. Ci tenevo quindi a salutare con una canzone che, come giustamente hai notato tu, suggerisse leggerezza e ironia, almeno in apparenza. Musicalmente, con il suo andamento jazzy e un po’ vaudeville/cabaret, il brano vuole evocare l’atmosfera di un teatrino semideserto e cadente. Sul palcoscenico è stata appena messa in scena la storia di Fernando e ora, poco prima che il sipario cada per sempre su questa tragicomica pièce in tre atti, il protagonista congeda lo scarso pubblico intervenuto con questa sorta di carosello finale apparentemente spensierato e che teoricamente dovrebbe stemperare la tensione accumulatasi in precedenza. Pur mantenendo il tono di self-deprecating humour che accomuna tanti altri miei pezzi, il testo del brano però introduce un dubbio che in realtà è quasi una certezza e che presenta forse l’aspetto più amaro, desolante e beffardo della vicenda appena raccontata: io ho scritto, prodotto, suonato, registrato tre interi album (senza contare tutti brani ancora inediti o usciti a latere rispetto agli LP) a proposito di una relazione con una persona che, con ogni probabilità, se mai dovesse scrivere la propria autobiografia non dedicherebbe neppure un paragrafo alla nostra strana storia o addirittura non menzionerebbe neppure il sottoscritto neanche in una nota a piè di pagina. Questo la dice lunga su come i rapporti umani siano spesso disperatamente sbilanciati e su come spesso si ripongano speranze, desideri, aspirazioni nelle situazioni e nelle persone sbagliate. Ma è così, non c’è nulla che si possa fare al riguardo se non riflettere, e se vuoi anche ridere, di queste miserie grazie alla musica, alla letteratura, al cinema, alla poesia e a tutti gli strumenti espressivi che la natura umana ci mette a disposizione. Del resto siamo esseri fallaci e Fernando è di gran lunga il mio lato più fallace di tutti, quello che mi fa compiere degli errori madornali come quello che racconto in Almost Mine. Per questo spero di aver esorcizzato, scacciato e ucciso il Fernando che è dentro di me con questa trilogia di dischi. Spero davvero di esserci riuscito, perché alla mia età non credo di avere l’energia per sublimare attraverso la musica un’altra delusione come quella che ho provato a causa di questa storia. Quindi Out Fernando, out! And stay dead forever!

L’ultima domanda te la devo fare da abruzzese ad abruzzese, tirando dentro un altro abruzzese (seppur con la r moscia) che ha creduto in questo disco co-producendolo con la sua Hellnation. Mi riferisco ovviamente a Robertò.

“Robertò è una delle colonne dell’underground italiano ed europeo, prima con Banda Bonnot e poi con Hellnation è stato e rimane un riferimento unico per pratiche realmente DIY e di supporto per chi fa musica, letteratura, arte al nostro livello e con la nostra attitudine. In ogni mia sortita romana cercavo di fare un salto da Hellnation per andarlo a trovare e passare qualche momento in sua compagnia. Quando ho saputo che si sarebbe trasferito a Bologna e poi che avrebbe aperto il negozio nel mio quartiere, la Bolognina, sono stato felicissimo. Avere uno come lui in città vuol dire godere di una risorsa unica. In breve tempo, grazie all’attitudine di Robertò, Hellnation è diventato un punto di incontro e di supporto logistico per tante persone e tante realtà anche qui a Bologna. Per me e per molti altri desperados locali, vedersi da Robertò è già diventata una consuetudine che ci permette di incontrarci parlare, progettare… e quando le persone hanno un posto in cui incontrarsi fisicamente, e non solo attraverso uno schermo, poi le cose nascono con tutta un’altra energia, almeno nella mia esperienza. Tanto per fare un esempio, nel giro di pochi mesi con Robertò abbiamo messo in atto già un paio di collaborazioni: oltre al mio disco c’è infatti anche l’album dei Muddy Worries, trio di desperate rock and roll/blues punk, sulla cui uscita abbiamo lavorato insieme, Rob con Hellnation e io con la mia Fernando Dischi. Quando poi sono andato a proporgli la co-produzione di Almost Mine Part III, la sua adesione immediata al progetto mi ha reso particolarmente contento e orgoglioso, sia da abruzzese che da amico ed estimatore di lunga data di Robertò. Avere il logo di Hellnation, oltre a quello della Riff Records (etichetta di Bolzano che supporta Ferro Solo sin dal primo disco) significa molto per me. Ci tengo a menzionare anche un’altra etichetta abruzzese che è stata importante per Ferro Solo, ovvero la DeAmbula Records dell’amico Marco Campitelli che ha contribuito alla realizzazione dei primi due volumi della trilogia di Almost Mine”.

Manuel Graziani
Manuel Grazianihttp://www.manwell.it
Manuel = Manwell = brav’uomo al servizio del garage punk rock'n'roll sgarrupato e della narrativa scostumata

PIÙ LETTI

More like this
Related

Ascolta in anteprima l’EP dei canale, L’Ultimo Fiore Del Mondo

In anteprima su Rumore ci ascoltiamo il nuovo EP della band toscano emo punk canale dal titolo L'Ultimo Fiore Del Mondo

Il misticismo nel nuovo video di Indigo dei Valerian Swing con Giovanna Cacciola degli Uzeda

Indigo è l'ultimo singolo prima dell'uscita del nuovo disco della band math/post rock/sperimentale Valerian Swing

Tutto quello che c’è da sapere sul Lumen Festival di Vicenza

A Vicenza torna il Lumen festival per l'undicesimo anno

Le foto dei King Gizzard And The Lizard Wizard al Circolo Magnolia, Milano – 04/06/2024

A documentare per noi l'eclettico show dei King Gizzard And The Lizard Wizard c'era Starfooker