PIL, vivere l’avanguardia

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Pil

Stefano Morelli racconta il live dei PIL di John Lydon ai Magazzini Generali di Milano per il tour legato all’ultimo album End Of The World

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Stefano Morelli

“The Gods have spoken, you can see them in me!”
(PIL, The Penge, End Of World, 2023)

Incontrare i PIL significa riflettere sul senso di avanguardia, che piaccia o meno.

Diventa quasi naturale viverla, nel ritmo, nel suono, nelle immagini, nell’idea che… per paradossale possa sembrare, s’insinua sulla pelle prima di entrare nel cuore, come quel cerchio con tre lettere inciso nel muro (come a volerle indelebili, pervicacemente permanenti, le Memorie appunto). Hanno travalicato e attraversato loro (insieme a Fall, Killing Joke, Stranglers, giusto per rimanere in Albione), in primis John Lydon buttandosi alle spalle, storicamente, qualcosa che non era suo.

PIL invece no, rimane ancora oggi il frastuono dell’attitudine che ha preservato l’intransigenza, la sua, anche nell’ottica dell’utilizzo del linguaggio in chiave pop, heavy e neo rave (Warriors si è presentata nella seconda parte della performance, là dove Rise ha chiuso; restano non a caso inviti espliciti alla lotta e alla consapevolezza).

Oggi, A.D. 2023, spetta a The Penge aprire il canto, e non potrebbe essere diversamente.

Un profeta che arriva dal nord, con in braccio il libro, vestito in abito lungo nero e il crine biondo corto comunque alzato, che avvisa circa gli orizzonti funesti e si alza immediatamente dopo con lo spleen baudelaireiano di Albatross. Un volo che s’insinua gradualmente nello spazio dei Magazzini, assiepato nelle sue mura ma al contempo rapito dall’officiante messianico, la cui voce, il timbro in particolare, è ancora forte ma capace di dosare al meglio quelle sfumature salmodianti e ipnotiche che lo hanno reso celebre.

Una voce il cui tono veste oggi il suono di una teatralità analoga a quella della controparte atlantica David Thomas (Pere Ubu), che si è pregevolmente evoluta dalle basi archeo-primitive tribali di Flowers Of Romance (peccato che di quel capolavoro, in quest’unica tappa dalle nostre, sia stata offerta la sola title track).

Stupid Again, nel mentre, si affaccia come terzo gesto ed è il brano che tocca un problema sociale centrale in realtà, ossia la corrosione in atto verso l’accesso alla conoscenza e all’istruzione. Se l’essere ‘stupidi’, ‘insolenti’, anche ‘arroganti’, era un tempo una forma di provocazione per trasformare artisticamente le cose, per rivendicare anche quel diritto e vi era ancora uno spazio per poterlo fare (il Punk fu l’ultima propaggine del Dada, non lo si dimentichi), oggi la trasmissione rischia di essere negata ai più se non omologata ad hoc per generare sudditi (quasi analogicamente Ringo, verso la chiusura del suo Dj-Set, aveva lanciato la No More Heroes degli Stranglers)… e guarda caso arriva a ridosso, per trasmutazione (senza pausa quindi), la botta sull’indole liberistico-predatoria di This Is Note A Love Song. Un passaggio, quello tra i due brani in causa, che merita di essere ricordato tra i più irriverenti offerti dalla serata.

A farla da padrone sarà in ogni caso il fronte mutante e pionieristico di Metal Box, passano infatti in rassegna anche Swan Lake, Poptones e Memories, che definiscono un ponte formale nella logica dissenziente delle più recenti The Body  (uno dei motivi che hanno spinto i Voivod a tributarli, non ci si limiti alla sola ma ancor attualissima Home), Shoom e Car Chase. Ciò che conta è non arrendersi, mantenendosi dissacranti.

È questo il riverbero che ondeggia tra le note e i simboli concepiti dalla band e la risonanza gioiosa dell’audience, celebrazione in cui Public Image, il brano-inno, diviene al contempo un ringraziamento pedagogico votato all’esempio dell’eroismo, come quel Don Chisciotte alla maniera di Van Gogh ritratto alla Fine del Mondo.

Redazione Rumore
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