Metti, una sera al concerto di Nina Nastasia

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Nina Nastasia cocnerto
(Credit: Enrico Martinelli)

Un disco di Nina Nastasia che racconta i dolori della vita, un concerto con poca gente e un po’ di altre cose

RUMORE COVER FB NATALE 2023

di Francesco Farabegoli

Quando scrivi la recensione di un disco hai a disposizione uno spazio che su “Rumore” è di 800 battute. Significa che il tuo argomento deve nascere e morire in quattro o cinque frasi, e quindi, parlando per eufemismi, non puoi scrivere tutto quello che hai in mente. Per essere convincente alle volte devi cercare un angolo particolare da cui il disco è appena visibile sullo sfondo, ma che in qualche modo possa rendere conto di qualcosa che è legato al disco e gli possa dare in qualche modo giustizia. Questa è la prima cosa che bisogna sapere quando si scrive una recensione, nel mio personale vademecum. La seconda cosa è che il disco arriva nella tua casella postale alla fine di un processo molto lungo e molto laborioso in cui un artista solitamente ha speso una quantità esorbitante di soldi, tempo, energia ed emotività. Ci sono canzoni scritte in una cameretta dove ti sei chiuso/a mentre la tua fidanzata richiedeva attenzione, conti da pagare in studio, un produttore che non capisce niente, un amplificatore che è saltato, concerti a cinque ore di macchina con tre paganti, uffici stampa e decine di altre cose. E ora il disco è nelle tue mani, e tu devi dare un giudizio sul risultato finale di tutto quell’esorbitante quantità di roba spesa. A un certo punto, qualche anno fa, Lizzo scrisse su Twitter una cosa che credo volesse riferirsi a questo: “people who review albums and don’t make music themselves should be unemployed”. Insomma, che lo si voglia o no c’è una specie di barricata, e quelli che stanno da una parte devono in qualche modo tener conto delle ragioni di quelli che stanno dall’altra. Un’altra cosa: il musicista, e il critico, combattono con troppa concorrenza. Ci sono semplicemente troppi altri dischi in giro quella settimana, e troppe altre recensioni in pagina lo stesso mese. Così si cerca sempre di fare qualcosa che attiri l’attenzione, che ti faccia uscire un pochino dalla pagina, o almeno io lo faccio – e questa, credo, è la parte che mi diverte ancora dello scrivere recensioni. E quindi ad esempio mi piace usare qualche trucchetto qui e là. Il mio preferito è quello sopra: se di un disco voglio assolutamente dire almeno tre cose, non ne dico nessuna delle tre, e magari ne cerco una quarta che non voglio necessariamente dire ma che in qualche modo permetterà a me per primo di vedere il disco in una prospettiva magari assurda, ma che mi possa aiutare a inquadrarlo in un modo diverso (a mio rischio e pericolo). 

Nina Nastasia 3
(Credit: Enrico Martinelli, live at Bronson)

Credo sia un problema a cui devono rispondere spesso quelli che lavorano nella comunicazione: nel parlare di questa cosa, di cosa voglio parlare? Come ne parlo? A chi ne sto parlando? Chi altro voglio che mi ascolti? Anche gli artisti fanno la stessa cosa, magari con un briciolo d’aiuto da parte del loro press office. E così, quasi sempre, i dischi sono accompagnati da comunicati stampa che – forse – quarant’anni fa volevano davvero dire qualcosa sul disco e oggi sembrano, nove su dieci, un modo come un altro per direzionare l’attenzione su una certa cosa. Esempio banale: se nella cartella stampa del tuo disco a un certo punto scrivi “Joy Division” io nel tuo disco andrò a cercare i Joy Division (a tuo rischio e pericolo), e molte altre cose che sono dentro al disco spariranno. Molti musicisti approfittano di questo spazio per mandare un messaggio, un poco alla Lizzo: “dentro a questo disco ci sono tanti soldi e tanta frustrazione e una vita che nell’ultimo periodo davvero è stata piuttosto impegnativa. Questo è il risultato, speriamo ti piaccia”. Non sperano veramente che il disco piaccia al giornalista. Cioè, ovviamente sì, ma sperano anche e soprattutto che il giornalista affronti il disco con un briciolo di rispetto verso la frustrazione i soldi e l’energia che quel disco è costato. E mi piacerebbe dire che questo meccanismo funziona bene, ma la realtà è che ci sono troppi dischi e troppi comunicati stampa, e dopo un po’ suonano tutti più o meno uguali, e dopo un po’ li si legge solo per avere le informazioni oggettive che serviranno, poi, a non scrivere cose scorrette. E tutto questo è stato vero finché, il 6 aprile 2022, non è arrivato il comunicato stampa che annunciava il nuovo disco di Nina Nastasia

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“Non registravo un album dal 2010. Avevo deciso di smettere con la musica qualche anno dopo l’uscita di ‘Outlaster’, a causa dell’infelicità, del caos travolgente, della malattia mentale e del mio rapporto tragicamente disfunzionale con Kennan (il marito, produttore e musicista Kennan Gudjonsson). Creare musica è sempre stato uno sfogo positivo nei momenti difficili, ma alla fine è diventato una fonte di assoluta miseria.

Kennan, un gatto, e io abbiamo vissuto in un monolocale a New York per 25 anni, trovando il modo di sopravvivere mentre facevo dischi e andavamo in tour. Il nostro appartamento era il luogo in cui le persone venivano, mangiavano, bevevano, suonavano musica e usavano la nostra vasca. Era una bella casa, ma si stava sgretolando come la nostra relazione. Ci amavamo. Eravamo la famiglia l’uno dell’altro, ma c’erano continui abusi, controlli e manipolazioni. Ci siamo nascosti. Non volevamo che nessuno vedesse quanto potrebbero diventare brutte le cose, quindi siamo sempre più isolati dai nostri amici e dalla nostra famiglia. Eravamo persi. Il 26 Gennaio 2020 ho preso la decisione di separarmi e vivere separati e il 27 Gennaio Kennan si è suicidato. Posso solo provare tristezza e senso di colpa per questo. Forse avrò altre reazioni in seguito.

‘Riderless Horse’ documenta il dolore, ma segna anche momenti di potenziamento e una vera felicità nello scoprire le mie capacità. Steve Albini ha prodotto questo disco con me e Greg Norman. Noi tre siamo vecchi amici e abbiamo registrato il disco in una pensione costruita sul mare, simile ad un faro, che due miei carissimi amici hanno a Esopus, New York. Era esattamente l’ambiente giusto per lavorare su questo disco. Abbiamo pranzato tutti insieme, pianto, riso e raccontato storie. È stato perfetto. Mi ha fatto capire quanto amo scrivere, suonare e registrare musica. Succedono cose terribili. Erano cose terribili. Quindi tra tante cose ho scelto di fare un disco.”

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Nina Nastasia 4
(Credit: Enrico Martinelli, live at Bronson)

La barriera secondo me è andata giù con Britney Spears. La combinazione tra episodi pubblici, cause legali, paparazzi e whistleblower che ha animato il caso Britney Spears dal 2007 in poi ha richiesto di rivedere in blocco il modo in cui parliamo di questioni come abuso, depressione, malattia mentale e devianza nel pop. Prima di quella data le questioni legali intorno ai cantanti non uscivano praticamente mai dagli studi legali in cui venivano firmati gli accordi di non divulgazione. L’approccio era del tipo: quel che succede nella camera da letto dell’artista o nello studio del suo avvocato non ha ripercussioni su quello che ascoltiamo nel disco. E se anche per caso ne avesse, tutte le persone coinvolte hanno una possibilità convincente di negare di esserne state messe a parte. Ma nel decennio abbondante di silenzi e muri di gomma che hanno imposto a Britney Spears di “fare la popstar”, a tutti gli effetti, mentre tutti sospettavano o sapevano che qualcosa dentro i muri di casa andasse davvero di merda, ci ha imposto di guardare alla facciata del pop con un briciolo di circospezione in più. Da allora si è dovuto pensare che certe consuetudini che si erano sedimentate in buona fede aiutavano a coprire un buon numero di abusi e di non-detti che pesavano come macigni sulla vita di certi artisti, che in certi casi sono usciti distrutti da certe rivelazioni. Una morale abbiamo dovuto impararla: la musica si erge molto raramente sopra alle condizioni in cui è stata realizzata.

Questo non ha implicazioni necessariamente negative. Prendiamo il caso di Nina Nastasia. La quale, con il candore che i fan di Nina Nastasia conoscono, col suo disco mette semplicemente una bottiglia di vino sul tavolo. Come a dire, ecco, ne ho bevuto un bicchiere o due, e questo è il disco che ho fatto, se ne vuoi un sorso la bottiglia è qui. È onesto, certo, ma dall’altra parte c’è un po’ di ricatto. Mi sento abbastanza di merda a scriverlo così. Come a dire: questo disco mi è costato qualcosa che tu non puoi immaginare, e ora io mi aspetto tanto da te. Come reagisci a una cosa del genere? Bevi o non bevi. 

Io, di solito, non bevo. Non credo di essere un codardo, ma d’altra parte non posso dire che sia una mossa molto coraggiosa. In generale, da ascoltatore, mi sento relativamente bene in merito. Mi è capitato diverse volte di ascoltare dischi fatti da persone la cui biografia recente era un fardello insopportabile. A volte mi sono sentito sporco, altre volte il disco non mi ha infastidito, altre volte mi ha aiutato a pensare un’altra dimensione della faccenda. In certi casi ne ho anche scritto. Nella recensione che ho scritto di Riderless Horse non ho parlato di nulla, se non di Nina Nastasia in generale, del modo in cui esiste nella folk music di oggi, del fatto che mi era mancata e che sono felice che ora ci sia. A rileggerla oggi, sento di aver reso un pessimo servizio al disco. 

Rossano Lo Mele è tornato sul disco con un editoriale sul numero successivo a quello in cui era uscita la recensione. Ha inserito il disco all’interno di un discorso più ampio. Ha parlato in maniera piuttosto compiuta di altre cose che erano evidentemente in ballo. “In questi casi è lecito domandarsi se, dal punto di vista artistico, questo genere di opere abbia un valore universale che possa rispecchiare il dolore di tutti noi che l’ascoltiamo o se si tratti invece di una testimonianza personale non tanto comprensibile al di fuori della storia e del contesto in cui il tutto è avvenuto.  (…) La storiografia parla di dischi profondamente tragici – da Pink Moon di Nick Drake a Carrie & Lowell di Sufjan Stevens – che da sempre ascoltiamo con l’orecchio appoggiato allo spioncino. Ma questi sono anche album che, partendo dal pulviscolo minimale, giungono all’universalità dei sentimenti”. E questa è ovviamente una dimensione di tutta la faccenda, che la si voglia abbracciare o lasciare a prender freddo fuori casa. Forse lo sdoganamento della pornografia dovrebbe estendersi alla pornografia del dolore perché poi, a prescindere dal giudizio morale che diamo a noi stessi, queste cose in camera da letto succedono in ogni caso (Just Stay In Bed, uno degli episodi più brillanti del disco), e forse far finta di no ci rende a tutti un pochino più sordidi. 

Nina Nastasia 5
(Credit: Enrico Martinelli, live at Bronson)

Poi è ovvio che non tutti i dischi partono da una storia di abusi culminata col suicidio del partner, e meno male. Ma su questo in fondo non potrei metterci la mano sul fuoco. Ultimamente, ad esempio, ho qualche difficoltà a fare sparire il mio quotidiano mentre ascolto un disco o mi guardo un concerto. È una cosa che imputo al peggiorare della musica: da adolescente un buon disco hardcore può farti superare indenne il divorzio dei tuoi genitori, da vecchio non riesci nemmeno più a estraniarti quel tanto che basta a non pensare alla scadenza della bolletta del gas. Il punto è che questo in qualche modo è un sentimento che artisti e pubblico condividono. “Creare musica è sempre stato uno sfogo positivo nei momenti difficili, ma alla fine è diventato una fonte di assoluta miseria”. Poi qualcosa bisogna fare, magari mettere tutto nella giusta prospettiva, o accontentarsi del buono che arriva. 

Il disco di Nina Nastasia ha fatto poco rumore. Non posso dire che sia stata una cosa inaspettata, ma al di fuori della cerchia di fanatici non se l’è cacato praticamente nessuno. Io personalmente credo che questo abbia molto a che fare col modo di vivere la musica che hanno di solito le persone che vedo ai concerti – e cioè, grossomodo, una cosa che facciamo il mercoledì al posto del calcetto. Tolta tutta l’ansia di arrivare da qualche parte che potrebbe animare i sogni di gioventù dei musicisti, e il bisogno di aver assistito al farsi di tutte le cose in una sera piovosa di marzo dei nostri vent’anni per gli ascoltatori, la musica diventa un lavoro non-così-remunerativo o una storia da raccontare a se stessi. Nina Nastasia s’è comunque in tour in giro per l’Europa (assieme a un cane, sembra di vedere dalla sua pagina Instagram), e lo scorso fine settimana il tour ha toccato l’Italia.  

Una delle domande diventa, quindi: chi è davvero interessato, nel 2023, a uscire di casa un venerdì sera per andare a vedere Nina Nastasia dal vivo? Questa è una parte dell’argomento che avevo affrontato in sede di recensione. La risposta non è facile. La scorsa settimana in questo posto ha suonato Micah P. Hinson (folk americano, una lunga storia con l’Italia, un disco prodotto da Asso Stefana eccetera) e ha fatto sold-out. Due giorni prima hanno suonato i Širom, fenomenale folk-band slovena di cui ultimamente si sta parlando tanto – grossa risposta di pubblico per un concerto molto sperimentale. Non ho idea di cosa serva per creare aspettative, e quindi paganti, verso un concerto piuttosto che un altro. Di Nina Nastasia mi ha sempre colpito quello che dice di lei Steve Albini, che la cita sempre al primo posto tra le persone di cui preferisce registrare i dischi. Dice che ha suonato con migliaia di persone e da ognuna di queste persone ha tirato fuori il meglio. Stasera sul palco è da sola con una chitarra. Nel posto non vola una mosca. 

Nina Nastasia 2
(Credit: Enrico Martinelli, live at Bronson)

La storiografia parla di dischi profondamente tragici che da sempre ascoltiamo con l’orecchio appoggiato allo spioncino”. Prendere parte al dolore privato di qualcuno è un atto di condivisione che può essere profondamente egoista e profondamente altruista. Nel caso di una musicista che lo condivide spontaneamente c’è tutta una grammatica che va a crearsi di volta in volta e non è utilizzabile per altri casi analoghi. Nina Nastasia è una grande autrice di canzoni e una musicista che, nel bene o nel male, ha il controllo di quello che esce dalle sue dita. È lei stessa a parlarti di certe cose della sua vita. Il suo concerto parla di questo. “Questi sono i limiti del mio dolore, questa è la mia esperienza, questo è quel che sono disposta a raccontare di ciò che è successo”. Non è molto diverso da chiacchierare con un amico prima del concerto e scoprire che la sua storia ultradecennale con la moglie è finita in pezzi d’improvviso in autunno. Nel senso, un sacco di gente si porta dietro qualcosa di indicibile a un concerto, e qualcuno di loro magari è sul palco. Il patto non scritto che un ascoltatore stringe con i musicisti impone di dar credito alle loro storie e sapere che potrebbero mentire. Nina Nastasia sta suonando le sue canzoni in punta di dita, forse è salita da due minuti, forse sta andando avanti da tre ore. Tra un pezzo e l’altro c’è quasi imbarazzo ad applaudire.  

Non ho elementi per dire che nel 2023 ci siano più o meno artisti che affrontano le loro pene in modo diretto con la loro musica di quanti ce ne fossero nel 1973. Forse sono di più, ma è una cifra che va capitalizzata al progresso culturale e morale della civiltà (una volta la depressione non esisteva, per dire). La sensazione è che ad ogni nuova grammatica del dolore s’impara comunque qualcosa che serve a comprendere certe cose che nella musica, e purtroppo anche nella vita, stiamo ancora imparando. È una questione privata, succede nella testa di ognuno in modo diverso. Forse c’è un certo grado di fascinazione da considerare. Forse c’è anche da considerare che, come pubblico, ci offriamo come volontari per essere d’aiuto in un processo di elaborazione del dolore, e nel caso è giusto che ognuno faccia la sua parte e rimanga ad ascoltare. In questo senso, quel che sta succedendo stasera non è un normale concerto di musica, e niente di quel che lo rende diverso può essere ricondotto a questioni di tecnica strumentale, setting o utilizzo della voce. 

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La sera del 17 marzo 2023 Nina Nastasia ha suonato al Bronson di Ravenna un concerto di voce e chitarra acustica. I paganti erano grossomodo una ventina. Ero presente al concerto e quella notte non ho dormito. Non mi capitava da molti anni di essere tenuto sveglio da un concerto di musica. Non posso assicurare che le altre persone presenti abbiano avuto un’esperienza simile, per intensità e ripercussioni, alla mia. A qualche giorno di distanza non riesco a pensare ad altro. 

Redazione Rumore
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