Detroit is burning: Kick Out the Jams degli MC5

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(MC5 – Kick Out The Jams, 1969 – Elektra)

Riconoscere immediatamente un suono o un gusto è un riflesso automatico e quotidiano. “Rumore”, in collaborazione con Jameson, vi porta a scoprire ciò che li rende riconoscibili.

di Andrea Valentini

Metà anni Ottanta. Ero un ragazzino di 16 anni o poco più e compravo le riviste musicali inglesi in un negozio di dischi microscopico della provincia piemontese, che era però una specie di Mecca del metal, del punk e delle sonorità più sotterranee (non esiste più da anni, ma lo lasceremo innominato… i più agée vedevano le pubblicità sui mensili musicali di riferimento dell’epoca). In un numero di Kerrang Mega Metal (chi lo ricorda?) c’era uno speciale dedicato alla nascita dell’heavy e una serie di personaggioni – fra cui il signor Lemmy dei Motörhead – citavano un album di cui io non sapevo nulla. Certi MC5 avevano sfornato un disco live, 17 anni prima, che poteva essere considerato l’origine del metal, del punk e di tutto ciò che venisse in mente a proposito di musica eccitante e dura… era Kick Out The Jams. “E che roba sarà mai questa?”, devo avere pensato, archiviando la faccenda nel famoso cassetto mentale con l’etichetta “roba-vecchia-che-boh”. Solo qualche anno dopo mi resi conto del madornale errore di valutazione… come dire: spesso la gioventù è sprecata in mano ai giovani, come sentenziò qualcuno.
Per cui: <<Rewind.

Questa è l’ennesima vicenda di perdenti del rock. Gente che ha influenzato generazioni a venire, ha segnato l’immaginario popolare e il corso della storia, ma in pratica non ne ha tratto alcun beneficio, a parte un tardivo riconoscimento. Stiamo parlando dei Motor City 5, alias MC5, forse la più devastante formazione di rock’n’roll, hard rock, proto-metal e proto-punk mai partorita dalle viscere metalliche del Michigan. Tre dischi epocali tra il 1969 e il 1971, poi un vortice di droga, arresti, progetti che naufragano e decessi, fino a scomparire in una coltre d’anonimato, diradatasi solo con la tardiva reunion del 2004 e una di questo periodo, su cui preferirei sorvolare (c’è solo Wayne Kramer…).

Tutto ha inizio a Lincoln Park, una cittadina poco più a sud di Detroit nella Wayne County. Conta tra i 30 e i 40.000 abitanti ed è vicinissima agli impianti di produzione più grandi della Ford. Qui, nel 1962, tre studenti della Lincoln Park High School si conoscono e iniziano a frequentarsi per via della passione comune per le macchine, le ragazze e la musica: Wayne Kambes (poi Kramer, chitarrista), Dennis A. Tomich (in seguito Thompson, batterista) e Frederick Dewey Smith (alias Fred “Sonic” Smith, chitarrista). Inizialmente suonano in gruppetti rivali, ma nel giro di un paio d’anni si trovano tutti assieme nei Bounty Hunters, il cui nome è preso dal dragster su cui corre un pilota della zona, divenuto piuttosto famoso nel circuito e poi diventato milionario: Connie Kalitta. Dopo alcuni rivolgimenti di formazione, con la band ben inserita nel circuito locale di bar e feste, l’organico si stabilizza con l’ingresso di Robert Derminer (poi Rob Tyner) alla voce e Michael Davis al basso. Ben presto i cinque cambiano denominazione: “Il nome MC5 lo trovò Rob Tyner”, ricorda Wayne Kramer. “Diceva che suonava come il numero di serie di una componente meccanica. […] Poi dopo, ovviamente, ci accorgemmo che MC poteva anche essere Motor City abbreviato. Ci piaceva anche inventarci sul momento significati nuovi per MC, tipo ‘morally corrupt’, ‘marijuana cigarette’, ‘much cock’…”.

Nel 1965 gli MC5, dopo un paio d’anni di gavetta, sono un gruppo ben noto e rispettato nella scena delle cover band; suonano vecchi blues, le prime cose degli Stones, pezzi rock’n’roll da classifica, Motown, Chuck Berry, i primi Who, gli Yardbirds… gran parte del repertorio è costituita da canzoni di band inglesi. Ma, in questo catalogo da juke box svetta un pezzo originale, ossia la violentissima “Black To Comm”, il primo passo verso la consapevolezza e la fiducia necessarie per comporre materiale proprio. È così che gli MC5 si lanciano senza più remore nella scrittura di canzoni che loro stessi iniziano a definire “avant rock” per il loro potere deflagrante e l’ispirazione (almeno a livello di feeling) al jazz più sperimentale; in realtà i cinque ragazzi amano alzare il volume senza pietà e lanciarsi in jam a base di feedback e freakout selvaggi.

Nel 1966, partecipando a un evento chiamato “A Festival Of People”, la band entra nell’orbita del poeta e attivista politico John Sinclair e della sua corte, dando il via a un’amicizia che ne segnerà il futuro. A questo punto gli eventi si rincorrono a valanga ed entra in scena un personaggio bizzarro di nome Russ Gibb. “Zio Russ, come gli piaceva farsi chiamare”, racconta Michael Davis, “mi pareva uno che voleva fare l’hipster senza riuscirci. Era un insegnante e un imprenditore alle prime armi. Usava il linguaggio dei giovani, ma lo faceva a sproposito, usando le frasi sbagliate”. Per quanto naif, quest’uomo ha però un progetto fenomenale, ossia creare a Detroit un luogo sulla falsariga del Fillmore di San Francisco: la Grande Ballrrom. Gibb è alla ricerca di una band da scritturare come gruppo resident per la sua nuova creatura; va ad ascoltare gli MC5 e l’accordo è presto siglato. L’idea di Gibb prende rapidamente piede e il locale funziona, divenendo un punto di aggregazione per i giovani, gli artisti, i musicisti e i fan. Ma soprattutto per la comunità di persone che orbitano intorno a John Sinclair, con cui l’imprenditore stringe un accordo per svolgere assieme una serie di attività di promozione e organizzazione di eventi. Intanto gli MC5 guadagnano sempre più notorietà, grazie all’instancabile attività live.
Nel mese di febbraio del 1967 Sinclair, sua moglie Leni e il disegnatore (nonché membro delle White Panthers) Gary Grimshaw fondano la Trans-Love Energies Unlimited: un collettivo di attivisti politici e artisti specializzati in varie discipline, che organizzano concerti e installazioni, pubblicano libri, serigrafano poster, stampano un giornale e fanno booking per gli MC5, gli Psychedelic Stooges (ossia gli Stooges agli esordi) e Billy C & the Sunshine. Ora la band ha sviluppato anche una propria sorta di ideologia, che è in qualche modo parallela a quella del movimento della controcultura e delle White Panthers: il rock’n’roll per gli MC5 è ribellione. Questo non sfugge a Sinclair che nell’agosto dello stesso anno si offre di diventare il manager della band e li coinvolge in prima linea, facendoli suonare a tutti gli eventi, le convention e i raduni di estrema sinistra che organizza con il suo movimento. La stretta collusione con John comporta la quasi immediata schedatura degli MC5 come gruppo di comunisti, provocatori hippy e l’FBI apre addirittura un fascicolo su di loro.

Il gruppo ora ha una buona fanbase locale e anche un contingente che lo segue ovunque: The Stompers. A rovinare la festa, però, interviene un evento che cambia il corso della storia dell’umanità: il 4 aprile Martin Luther King viene assassinato a Memphis. Immediatamente la polizia, temendo nuovi disordini razziali come quelli dell’anno precedente, istituisce un coprifuoco. Nel giro di 15 giorni gli MC5 e la Trans-Love Energies Unlimited si trovano al verde: i concerti e gli eventi infatti sono tutti sospesi e non entra più un dollaro in cassa. Urgono provvedimenti drastici: all’inizio di maggio la band e l’intera corte di Sinclair si trasferiscono nella vicina Ann Arbor (dove hanno il loro quartier generale gli Stooges); gli MC5 si insediano al 1510 Hill Street, mentre il resto dell’organizzazione si sistema al 1520 della medesima strada. La casa è in pratica una comune. Qui il legame del gruppo con gli Stooges si fa più profondo, tanto che la band di Iggy e dei fratelli Asheton viene presa sotto l’ala protettrice di Tyner e compagni, che fanno da fratelli maggiori.
È in questo scenario che avviene l’incontro fatidico con Danny Fields. della Elektra Records. Sinclair, tempestandolo di telefonate, lo persuade a presenziare al concerto che gli MC5 tengono il 21 settembre alla Grande Ballroom con gli Amboy Dukes. Ciò che vede lo soddisfa, ma Wayne Kramer lo avvicina e gli dice: “Se ti siamo piaciuti, andrai pazzo per la band dei nostri fratellini minori, Iggy e gli Stooges”. Ed è così. Il lunedì seguente Fields si trova nella cucina della casa al 1510 di Hill Street con John Sinclair e Jimmy Silver (il manager degli Stooges): mette sotto contratto entrambi i gruppi per una somma complessiva di 25.000 dollari.

Nonostante l’accordo con la Elektra i rapporti tra gli MC5 e Sinclair sono tesi. Il gruppo si sta rendendo conto di essere il bancomat che finanzia le attività politiche e artistiche del collettivo. E la cosa non rende felici i ragazzi. Ad ogni modo, ora c’è un disco da fare e l’idea della Elektra è immortalare un concerto, con tutta l’energia e la forza vitale che si sprigiona. Alla band non dispiace affatto e così nasce la pietra miliare intitolata Kick Out The Jams. L’album raccoglie otto brani (altrettanti vengono esclusi, per la cronaca) incisi live tra il 30 e il 31 ottobre 1968 alla Grande Ballroom. Il rumore del pubblico è, come consuetudine, aggiunto in postproduzione e Wayne Kramer ricorda: “Alcuni pezzi sono stati registrati al pomeriggio, senza pubblico in sala, con la Grande Ballroom vuota”.
Nonostante questo, l’impatto è fulminante, anche grazie all’incipit sfrontato, la presentazione di J.C. Crawford che presenta il gruppo. E poi c’è la fatidica frase di Tyner, l’epocale slogan: “Spaccate tutto, figli di puttana” (“Kick out the jams, motherfuckers!”). L’album esce a febbraio del 1969 e attira immediatamente un ciclone di polemiche: in particolare quel “motherfuckers” è foriero di problemi gravi a livello di distribuzione e passaggi radiofonici. Rob Tyner: “I magazzini Hudson’s, che erano uno dei punti vendita privilegiati per la Elektra, si rifiutarono di commercializzare il disco per via di quel ‘motherfuckers'”. In tutta risposta la band acquista uno spazio su un giornale per pubblicizzare l’album con lo slogan “Comprate il disco. Si fotta Hudson’s”, corredato dal logo della Elektra. L’etichetta la prende malissimo, licenzia la band e mette in commercio una versione edulcorata del live. Tyner: “Ci diedero un calcio nel culo e nel frattempo avevano già eliminato dalla copertina del disco gli scritti politici. E dopo levarono la parola ‘motherfuckers’ dall’audio”. 

Kick Out The Jams non è un campione di vendite, ma viene accolto piuttosto bene e, come la storia dimostrerà, è semplicemente una pietra miliare. Intanto il rapporto tra gli MC5 e John Sinclair è giunto al punto di non ritorno e la band inizia a lavorare con Jon Landau, un critico musicale molto vicino ai vertici dell’Atlantic (sarebbe poi divenuto il manager di Springsteen), che procura in poco tempo un nuovo contratto al gruppo. Entro luglio tra gli MC5 e il loro ex manager (che nel frattempo è stato arrestato nuovamente per possesso di marijuana) è calato un gelo mortale, che culmina nella fine della loro collaborazione. Rob Tyner: “C’era un’incredibile quantità di denaro che veniva generata da noi e finiva nelle tasche di Sinclair, del movimento e delle White Panthers. Noi eravamo il sostegno di tutta la baracca, coi soldi dei concerti e dei dischi venduti. […] John nel suo libro Guitar Army dice che l’abbiamo mollato, che l’abbiamo lasciato in prigione. Ma non è così, perché lui ci aveva lasciati già da tempo e si concentrava solo sulla politica. […] Ci sentivamo usati e sfruttati”. Sinclair dal canto suo, durante la reclusione scrive una lettera infuocata alla band, il cui passaggio saliente è: “Voi volevate essere più popolari dei Beatles. Io vi volevo rendere più famosi del presidente Mao”.

Quello che resta, al netto delle amarezze e delle recriminazioni, è un album incendiario, capace di mettere d’accordo tutti e con una potenza di fuoco – a quasi 50 anni di distanza dall’uscita – travolgente. Serve altro?

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