Intervista: Satanic Surfers

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di Davide ‘Deiv’ Agazzi

Dopo Zlatan Ibrahimovic e le polpette dell’Ikea, i Satanic Surfers sono la cosa migliore mai uscita dalla Svezia. Formati nel 1989 – c’era ancora il Muro! – ed esplosi a livello planetario nella metà degli anni ’90, in congiunzione con l’ondata di pop punk californiano cavalcata da NOFX, Green Day e Offspring, la band di Lund torna con un nuovo album, coerentemente intitolato Back From Hell, dopo ben otto anni di silenzio. Non otto anni di silenzio assoluto: c’è stata – ad esempio – la parentesi degli Atlas Losing Grip, side project del cantante Rodrigo Alfaro, ma la pausa necessaria è servita soprattutto a ricaricare le batterie, ritrovare stimoli e metter su famiglia. A qualcuno è anche toccato andare a lavorare. Non tutto però è andato secondo i programmi: nonostante l’esplosione del genere, il grande successo ha solo sfiorato i surfisti infernali: certo, le melodie vocali non sono mai mancate, ma la struttura delle canzoni è sempre stata più complessa rispetto a hit radiofoniche come Basket Case o Come Out And Play. E non ci sono mai stati pezzi ska o video coi robottoni che tanti dischi han fatto vendere agli assai più commerciali – e commerciabili – conterranei Millencolin. Tanto è vero che, nonostante essersi ritrovati al posto giusto nel momento giusto – la Svezia hardcore degli indimenticabili nineties, con in tasca un contratto con la Burning Hearts (la più grande etichetta europea del genere) e uno di distribuzione oltreoceano con la Epitaph (l’etichetta fondata da Brett Gurewitz, chitarrista dei Bad Religion, capace praticamente da sola di riportare in auge l’intero carrozzone) il satanico quintetto non sia mai – lo ripeto, mai! – riuscito a metter piede negli Stati Uniti, la mecca di questa rivoluzione su tre accordi. Se con la fortuna non c’è mai stato troppo feeling, quello che non è mai mancato ai Satanic Surfers è l’amore dei propri fan, quello che nel 2014 li ha fatti tornare insieme per una tournée piena di successo. Il cerchio si chiude quattro anni dopo, con la pubblicazione del nuovo disco e il pullmino di mille avventure che riprende a macinar chilometri. Il tour di ritorno è passato anche dall’Italia per due date, a Milano e a Livorno: proprio in occasione della tappa toscana, ho colto l’opportunità di fare una chiacchiera col chitarrista Magnus Blixtberg.

Cosa avete fatto in questi otto anni?

Magnus Blixtberg: “Io, personalmente, ho cominciato a lavorare e ho messo su famiglia, ho una bimba adesso. Ho continuato a suonare, così come tutti gli altri, tutti hanno altre band dove suonare. Altre band, altra musica, credo fosse il momento giusto per fermarsi un po’”.

Stavate perdendo interesse o forse la musica cominciava a sembrare un lavoro?

Magnus Blixtberg: “Guarda, se davvero diventasse la nostra professione, non sarebbe male. Se non vendi i dischi, non fai i soldi, e devi stare in tour tutto il tempo, e questo è quello che è successo all’epoca. Io sono stato parte della band dal ’93 al 2006 e davvero avevo bisogno di fare altro per un po’”.

In tour siete stati moltissime volte in Europa ed in Sud America. Che mi dici del Nord America?

M.B.: “Siamo stati in Canada, in diverse occasioni, la prima volta nel ’96. Sempre bei concerti, tanta gente. Mai in America”.

Com’è possibile!? Soprattutto considerando che all’epoca godevate di un contratto di distribuzione esclusiva con la Epitaph.

“Onestamente, non lo so. Forse per via del permesso di lavoro, che è davvero costoso ed è comunque difficile entrare nel paese. Lo era prima, figuriamoci adesso. E poi è un paese grandissimo, ci sono una valanga di band, è difficile trovare un proprio spazio. Voglio dire, probabilmente se fossimo riusciti ad andarci nel ’96, immagino che poi saremmo riusciti a tornare in seguito diverse volte, ma non è mai successo. Vai a sapere. Chiaro, ovviamente ci volevamo andare, sognavamo di andare in California, ma niente da fare. Soprattutto col disco del ’99, Going nowhere fast, e forti del nostro contratto Epitaph, eravamo certi di andare a suonare in America. Col senno di poi, penso che le persone con le quali lavoravamo, in Svezia ed in Europa, semplicemente non avessero alcun tipo di contatto oltreoceano”.

Arriviamo a oggi, allora. Siete in giro da una vita, avete sempre avuto un grande seguito, forse non negli Stati Uniti, ma sicuramente nel resto del mondo, e vi ripresentate con un nuovo disco dopo otto anni di silenzio. Che tipo di aspettative avete per questo Back From Hell?

“Abbiamo provato i pezzi per qualcosa come due anni, davvero, non so quante prove abbiamo fatto. Volevamo realmente tornare con un prodotto all’altezza, volevamo buttar fuori nuova musica e volevamo che fosse di spessore, roba che facesse pensare ai nostri fan “è così che deve suonare la roba dei Satanic!” e penso che ci siamo riusciti”.

Non so se ti piacerà quel che sto per dire, ma nel vostro nuovo disco ho trovato esattamente quello che mi aspettavo di sentire da voi.

“Sì, esatto. Credo che sia una buona fusione tra le nostre cose più veloci e dure e l’impronta melodica che abbiamo sempre avuto per le voci. C’è anche una grossa influenza di rock. Penso sia il nostro disco migliore: abbiamo tanti pezzi buoni anche sugli altri lavori, ma credo che questo sia il nostro disco più riuscito, più compatto, che funziona dall’inizio alla fine. E abbiamo anche altri 4 o 5 pezzi che tireremo fuori in futuro, ma volevamo fare un disco intenso e breve, e quindi dieci pezzi, tutti buoni”.

Il disco, lo abbiamo detto, si intitola Back From Hell. Che tipo di inferno è stato il vostro? Professionale, personale o altro?

“No, no, sicuramente non professionale. Il titolo è il nome di uno dei pezzi ed è una sorta di scherzo. Ovviamente adesso ci troviamo in una situazione più piacevole rispetto a qualche tempo fa: gli ultimi tre anni sono stati davvero fichi, è fantastico poter incontrare nuovamente il nostro pubblico. Non so dirti se fossimo all’inferno, ma sicuramente adesso siamo in un posto migliore rispetto a dove ci trovavamo dodici o tredici anni fa”.

Siete ancora in contatto con la scena skate svedese?

“Beh quella è stata una cosa che è durata poco. Sarà durata, all’incirca, dal ’94 al ’97, e indubbiamente è stata quella la molla che ci ha permesso di uscire dalla Svezia. Ma poi la cosa è morta lì. C’eravamo noi, i Millencolin, i No Fun At All ed altre band svedesi ma poi è finito tutto. La scena DIY, invece, quella è sempre stata più sviluppata ed è da quella che arriviamo noi”.

Quindi si tratta di una forzatura mediatica? Ricordo che le riviste dell’epoca mettevamo sempre voi assieme ai Millencolin e ai No Fun At All, per quanto il vostro sound sia sempre stato ben diverso.

“Sì, sicuramente c’è stato un periodo in cui abbiamo suonato assieme, ma noi siamo sempre stati un’altra cosa. Le altre band sono più pop, strofa-ritornello e via, mentre le nostre canzoni hanno sempre avuto una struttura più contorta (ride). Immagino che il tutto sia successo solo perché la Svezia è un paese piccolo e allora, per forza di cose, capita di suonare tutti assieme ma questa immagine ci aveva abbastanza stufato. Poi, qualche anno dopo, è successo la stessa cosa con il rock e gruppi come gli Hellacopters e tutta quella scena lì. Sembra che in Svezia ci possa essere spazio solo per una scena musicale alternativa alla volta, e una volta che questa termina si debba necessariamente rimpiazzarla con altro. All’epoca, da noi, funzionava così”.

Col senno di poi, in retrospettiva, credi che la grossa esplosione mediatica e commerciale che certo punk ha avuto tra la metà e la fine degli anni ’90, abbia aiutato o limitato la vostra carriera?

“No, ci ha sicuramente aiutato. Anche perché nella metà degli anni ’90, o stavi su Burning Hearts o stavi su Epitaph. O eri una band americana, o eri una band svedese. Altro non c’era. E noi, fortunatamente, abbiamo fatto parte di questo meccanismo da subito, e questo ha permesso che oggi ci siano tante persone che ci conoscono anche se siamo fermi da otto anni. Ci siamo trovati al posto giusto al momento giusto. E lo stesso è successo per gli americani, che ovviamente erano molto più grandi di noi, ma se guardi i cartelloni dei festival punk odierni, gli headliner sono gli stessi di 20 anni fa. Dove sono le nuove band? Io vorrei sentire dei nuovi gruppi, magari con delle belle linee melodiche che riprendano i primi lavori dei Propagandhi o dei Bad Religion e non le trovo. Mi spiace. E vi assicuro che le cerco, non voglio sembrare il vecchio trombone che ascolta sempre le solite cose, ma questi gruppi non ci sono”.

Quale invece lo scenario dei vostri esordi? C’erano band alle quali vi ispiravate?

“Beh, Rodrigo (Alfaro, voce della band) ha dato vita al gruppo nel 1989. Io sono entrato nel ’93, le cose cominciavano a muoversi, arrivavano i primi echi di quello che NOFX e Green Day stavano facendo in America, mentre da noi si parlava dei Millencollin, dei Randy e ovviamente dei Refused. Fu nel ’94 che le cose cominciarono a muoversi davvero, fu in quell’anno che si crearono i presupposti per poter parlare di una scena”.

Come mai da un paese così poco abitato esce così tanta musica di qualità? Che risposta ti dai?

“Non saprei, onestamente. E pensa che, prima ancora, c’era un’enorme scena death metal”.

Non è proprio il mio genere.

“Oh io invece amo quella roba. Entombed, Dismember, cose così. Però, ecco, non so se le cose siano ancora così, ma quando ero ragazzo io c’erano degli spazi pubblici, chiamati Youth Center, una sorta di doposcuola, completi di strumentazione, dove era possibile suonare e provare con la propria band. Io, ad esempio, ho imparato a suonare la chitarra così. O forse, semplicemente, fa troppo freddo (ride). Però, scherzi a parte, il nord della Svezia, la zona da dove provengono i Millencolin o i Randy, per molti mesi è semplicemente buia. Poi purtroppo abbiamo avuto otto anni di governo di destra, e molti di questi servizi sono stati tagliati”.

 

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