Live report: ScHoolboy Q + Isaiah Rashad @ Tunnel, Milano – 11/05/2014

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schoolboy q tunnel big

di Elia Alovisi

Le mie personalissime aspettative per il concerto di ScHoolboy Q di ieri sera a Milano erano relativamente alte – dopo aver visto lo scorso febbraio dal vivo, ai Magazzini Generali di Milano, il suo compagno di etichetta e crew Kendrick Lamar mi aspettavo qualcosa di ugualmente convincente. Lamar era, ai tempi, reduce dalla pubblicazione del suo esordio su major (e ottimo disco) good kid, m.A.A.d. city e sull’orlo di un’esplosione mediatica che l’ha poi portato nel gotha del rap mondiale (performance ai Grammy, endorsement di Dr. Dre, una magistrale rivitalizzazione del dissing in Control di Big Sean, spot da headliner un po’ ovunque). Lamar appariva sicuro di sé ed era già perfetto esempio di ciò che la sua crew Black Hippy (Lamar, Q, Jay Rock ed Ab-Soul,tutti pubbicati dall’etichetta indipendente Top Dawg Entertainment), rappresenta: l’hood losangelino che si affaccia ad un pubblico mondiale reinventando gli stilemi del gangsta rap e apparendo, come nessuno era riuscito a fare nella contemporaneità, genuino.

Ad aprire il concerto c’era Isaiah Rashad – semi-esordiente sempre pubblicato da TDE ma proveniente da Chattanooga, Tennessee. Rashad sale sul palco senza troppi preamboli e convince, eseguendo diversi brani dal suo EP d’esordio Cilvia Demo – sia Shot You Down che R.I.P. Kevin Miller vengono accompagnate dalle voci del pubblico che esplodono, liberatorie – soprattutto durante il “We live for bitches and blunts / We live for weed and money” della seconda. Rashad gioca col pubblico, prende in mano una GoPro dalle prime file, si ferma dopo il suo set a caricare la folla mimando i pezzi che vengono messi su dal DJ.

Quando arriva il turno di Q è una celebrazione: Quincey Hanley appare padrone del palco e capace di gestire al meglio la folla (presa decisamente bene) e di apparire sia umile nel ringraziare il pubblico costantemente sia impeccabile nel portare avanti il suo messaggio. Si apre con Fuck LA, dichiarazione di dominio sulla scena losangelina (anzi, personificazione – “Bitch, I am LA” scandisce il pubblico nel ritornello). Il filo rosso che unisce i pezzi di Q è fatto di marijuana, medicinali, soldi, alcol, armi e papponaggio, cantati a pieni polmoni sia per celebrarli che per cercare di metterli in prospettiva. Alla prima categoria appartengono pezzi come Hands on the Wheel (“Life for me is just weed and brews”), Gangsta (il ritornello non dice altro, basta ascoltarla), Collard Greens (“Smoke this, drink this / Straight to my liver / Watch this, no tick / Yeah, I’m the nigga”), What They Want (“Drop your pants to your knees / Girl, I’m capital G”), Hell of a Night (“Feeling good, all this money on my bank card / 10 grand in my pocket, nigga all ours”). Alla seconda, soprattutto Prescription, con il suo buio racconto di stasi e menefreghismo indotti dai medicinali (“My mommy call / I hit ignore / My daughter calls / I press ignore”). Bellissima la parentesi Blessed, in cui Q chiede a tutti di accendere le torce dei propri cellulari o i propri accendini, illuminando il Tunnel quasi a giorno. Nella setlist trovano posto anche una cover di m.A.A.d. city di Kendrick Lamar (quasi il momento di maggior potenza della serata), e Brand New Guy di A$AP Rocky e Work (Remix) di A$AP Ferg. L’apoteosi arriva sul finale per Man of the Year, che chiude il set principale: tutti che pogano, tutti che saltano, tutti che alzano le mani, tutti che fumano e sudano e si prendono bene.

“I travelled a long way to get here” dice Q sul finale, ringraziando tutti i presenti, a torso nudo ma con sempre addosso il suo cappello da pescatore, stanco e sudato ma visibilmente soddisfatto di come, anche in un paese dall’altra parte dell’Atlantico, ci siano persone pronte a rispondere ai suoi cori o a saltare frenetiche al suo comando. Lui cantando del suo passato di quartiere, il pubblico a immedesimarcisi o soltanto a celebrarlo per divertirsi – che è poi il punto di tutto questo.

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