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I Preoccupations sono stati come rasoiate nella nebbia

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La band canadese è passata in Italia per promuovere il suo ultimo album Arrangements, uscito a settembre 2022. Milano ha inaugurato la serie di tre date con un concerto impeccabile.

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di Luca Doldi / Foto di Starfooker

I Preoccupations sono la classica band che anticipa i tempi e riesce ad essere precorritrice dei movimenti musicali che arriveranno dopo, avendo il merito di tracciarne le coordinate ma la sfiga di non esserne inclusa, anche per pertinenza geografica, perdendo la possibilità di occupare prime pagine, speciali e celebrazioni. Perché in fondo la band di Calgary ha anticipato di tre anni tutto quello che è successo poi a South London, seppur con alcune sostanziali differenze sonore da quel movimento. Ma se il post punk ha attirato l’attenzione di tutti in questi ultimi anni, il merito va anche a loro che hanno acceso i riflettori su un nuovo modo di interpretare il genere, insieme ai Protomartyr, anch’essi provenienti dal continente americano.

Non è una band che ti conquista al primo ascolto, non ha singoli dirompenti che catturano l’attenzione dei più distratti. La loro musica si versa lentamente e va lasciata posare sul fondo, come un caffè turco. Forse anche per questo, nonostante gli ormai quattro album all’attivo, in Italia (soprattutto) non ha avuto il riscontro di pubblico che meritava, cosa che ha dato la possibilità ai presenti al concerto di Milano di goderseli in una situazione ottimale. Era davvero tanto tempo che non vedevo un concerto di una band importante, almeno per il giro di quelli che capitano su queste pagine, sul palco interno del Magnolia (per chi non lo sapesse il Circolo Magnolia nella sua configurazione invernale ha due palchi: uno al chiuso molto raccolto e uno sotto un tendone per concerti da circa 1500 persone). Passano gli anni ma la qualità, l’impatto e l’intensità che restituisce quel palchetto rimane insuperabile. Un luogo magico che ha regalato performance indimenticabili, come quella dei Battles nel 2007 o i Terra Tenebrosa nel 2014, e anche con i Preoccupations non ha deluso le aspettative.

Il pubblico del martedì sera a Milano non è facile da conquistare, con l’affollamento di eventi che caratterizza la città, in genere chi si muove in una fredda serata di inizio settimana è gente che di concerti ne vede parecchi e non si lascia stupire con poco, è un pubblico attento, che vuole ascoltare e capire, più che un pubblico composto da fan. Non a caso nelle prime battute l’atmosfera risulta un po’ fredda. La band arriva senza tanti convenevoli, facendo un rapido check degli strumenti e quindi non sottoponendosi a quel rito pagano dell’ingresso sul palco. L’accoglienza di conseguenza è molto tiepida: qualche urlo di incitazione, qualche isolato battito di mani ma nulla più, come fosse entrato un gruppo di amici. 

L’inizio riprende fedelmente l’ultimo album con la sequenza Fix Bayonets! e Ricochet, giusto il tempo di aggiustare i suoni e il live si avvia su binari solidi, che sorprendentemente percorrono tutta la tracklist di Arrangements, uscito a settembre del 2022. Scelta abbastanza inusuale, ma che alla fine si rivelerà azzeccata vedendo quanti andranno via con il vinile sotto braccio. Nelle retrovie si stenta anche a battere le mani fra un pezzo e l’altro, ma con il passare dei pezzi il live cresce sempre di più e l’atmosfera si scalda. I Preoccupations sul palco sono come in studio, solidi, non fanno sconti, non concedono nulla allo show. Anche visivamente si nota subito un’impostazione austera: l’unico sotto i riflettori è Matthew Flegen, piantato davanti al microfono con il suo basso, mentre i due chitarristi rimangono un passo indietro, nascosti fra le luci. 

Ma nei momenti in cui il gioco di luci nasconde anche la figura del cantante, è la sua voce a diventare unica protagonista: materica, palpabile, sembra quasi di poterla toccare, come se vivesse di vita propria. Una delle migliori del nostro tempo. Profonda ma non in senso classico del termine: è una texture complessa, ruvida ma allo stesso tempo avvolgente, sempre sul sottile crinale fra recitato e melodia, ma capace anche di emergere su note alte e parti urlate. Insomma, non c’è particolare presenza scenica perché non serve. Nelle poche parole pronunciate fra un pezzo e l’altro poi emerge un carattere gentile e forse anche un po’ di timidezza che curiosamente contrasta con la ruvidezza e l’intensità della sua voce.

Il concerto alterna momenti di nebbia sonora, carica di reverberi e delay che vengono squarciati da ritmiche serrate e dalle chitarre che spuntano fuori all’improvviso come rasoiate nell’aria, con riff e arpeggi suonati all’unisono con armonizzazioni appena percettibili o con botta e risposta continui. Il basso è costante e chirurgico, nonostante l’impegno che serve a Flegen per tirare fuori quelle frequenze monumentali dalle sue corde vocali.

La seconda parte del live è dedicata a una manciata di quelli che potremmo chiamare classici della band, anche se nel loro caso non ce ne sono di veri e propri, durante la quale è chiaro anche visivamente che il pubblico ormai è stato ampiamente conquistato. Lo spartiacque è Silhouettes dal loro primo album, che scatena la prima vera reazione scomposta sotto il palco, come a scaricare la tensione accumulata in precedenza con il continuo crescendo di intensità della band, che prosegue in modo esponenziale fino alla conclusiva March Of Progress, con la sua accelerata finale che sembra fatta apposta per dare il colpo di grazia al concerto.

Anche in chiusura niente fronzoli, si posano gli strumenti, si saluta e si esce. Niente bis, niente inchini. Giusto così. Perché non c’è bisogno d’altro. Il concerto dura poco più di un’ora e termina al culmine senza mai un calo di tensione, nulla che ti spinga ad andare a prendere la seconda birra. Uno di quei concerti che si ferma sul più bello lasciandoti ancora la voglia di ascoltare la band e che ti manda a casa carico e soddisfatto per aver visto qualcosa che ti rimarrà addosso per diverso tempo. Non c’è bisogno di suonare due ore per forza, anzi, spesso la necessità di suonare tanto per accontentare l’ascoltatore medio che valuta i concerti solo in base alla durata, nasconde tanti episodi trascurabili che fanno calare l’attenzione. I Preoccupations invece ti sbattono in faccia il loro monolite di suono e ti mandano a casa.

Una band di cui si comprende a pieno il potenziale solo vedendola dal vivo, che riesce a superare le aspettative senza essere ruffiana, e che andrebbe vista anche solo per curiosità. Anche perché con un biglietto a 16€ (era tantissimo tempo che non vedevo una band di quel livello sotto i 20€) sarebbe stato davvero un delitto lasciarseli scappare. Ed è davvero un delitto che nel nostro Paese non riempiano posti ben più grandi, ma egoisticamente parlando è anche un bene per chi li sa apprezzare, finché sarà sostenibile per loro passare dall’Italia. Fun fact finale, che fa capire lo spirito di una band che si prende sul serio ma non troppo, i quattro lasciano il palco sulle note di Easy Lover di Phil Collins e Philip Bailey.