Intervista a Kento: “Sto cercando di non fare hip hop ma di essere hip hop, e il carcere puzza di hip hop”

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Unnamed 8

Il nuovo Ep Neanche per sbaglio, il Rap nelle carceri, la letteratura: Kento racconta l’Hip Hop oltre la musica

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di Renato Failla

Francesco “Kento” Carlo è un rapper che incarna alla perfezione l’essenza dell’Hip Hop. Non è il classico MC che si ferma alla sola forma, a ciò che c’è di giusto da dire nelle barre per colpire l’attenzione di chi ascolta, per fare “numeri” e proselitismo senza andare oltre. Come dice lui stesso, parafrasando Bruce Lee, “io non sono Hip Hop, io voglio essere Hip Hop” a dimostrazione di una vera e reale consapevolezza che qui si parla di cultura, di interiorizzazione dell’aspetto sociale e non solo di quello musicale. Nel corso della sua carriera, infatti, non ha pubblicato solo dischi ma ha anche scritto libri: Te lo dico in Rap (Ed. Il Castoro, 2020), dedicato alla formazione dei più piccoli, alla loro crescita personale attraverso il gioco in cui il Rap è lo strumento per esprimersi, quella «chiave a pappagallo adattabile in più contesti». A gennaio del 2021 arriva poi Barre – insieme al disco Barre Mixtape – in cui il racconto viene spostato da un contesto idilliaco e fanciullesco di “Te lo dico in Rap” a quello più crudo delle carceri minorili. C’è sempre l’approccio formativo di Kento ma nei confronti degli adolescenti che non hanno più la possibilità di giocare ma la necessità di sopravvivere e in un contesto decisamente più duro. Qui il Rap diventa strumento di conoscenza e coscienza di sé vissuto grazie ai laboratori tenuti proprio da lui. L’ho incontrato in un tranquillo pomeriggio torinese alla fine di una di queste giornate di laboratori per capire meglio cosa c’è dietro il progetto “Barre”, del nuovo Ep, di come sia riuscito a sopravvivere a questi due anni e di quello che ci sarà nell’immediato futuro.

Partiamo dall’Ep Neanche per sbaglio per Time 2 Rap Records. Lavoro in cui c’è anche la partecipazione di Giancane, quindi realtà diverse che si uniscono.

“Avevo voglia di fare qualcosa di differente, di divertirmi. Con lui era da tanto che volevamo fare un pezzo insieme, parlo prima della pandemia. Abbiamo poi anche girato il video del brano Neanche per Sbaglio tutto in una notte alla stazione Termini, quindi in uno scenario particolare, e grazie anche all’aiuto di Termini Tv, una realtà molto interessante che si occupa anche di documentare, senza pietismo ma con molto rispetto, la marginalità delle persone che vivono alla stazione Termini. Volevamo che questa realtà venisse raccontata nel videoclip in maniera realistica, rispettosa ma senza fare sconti perché le stazioni sono molto spesso il punto di arrivo e partenza, anche in senso metaforico, nelle nostre città e nella nostra società. Per il resto, avevo e ho una marea di materiale scritto in pandemia, perché una delle prime cose che ho fatto appena l’Italia è stata chiusa è stato mettermi a scrivere come un disperato e alla fine del lockdown mi sono ritrovato con trenta canzoni inedite, alcune delle quali finite su Barre Mixtape nel 2021 ad accompagnare il libro. E poi, onestamente, avevo gran voglia di sperimentare questa forma dell’Ep con cui non mi ero ancora mai confrontato in tutta la carriera. Dall’altro lato, non facevo uscire niente dal 2016 e mi andava di fare qualcosa senza troppe pressioni, soltanto in digitale, per vedere che aria tirava, per smuovere un po’ le acque e i risultati sono stati così buoni che francamente un po’ forse c’ho ripensato all’ipotesi di non farlo uscire fisico. Ormai l’esperienza dell’Ep è stata fatta e va bene così, pensiamo all’album, però onestamente ho avuto un riscontro molto buono, tanto affetto. Non sono mai stato molto attento ai numeri, agli stream, elementi che per me lasciano il tempo che trovano, però evidentemente per chi fa musica anche quello è importante. Però, a parte i numeri che sono una cosa fredda, ho avuto una bellissima risposta, tanti mi hanno chiesto, quest’estate sono venute fuori molte date e quindi in un certo senso abbiamo voluto chiudere il cerchio dell’Ep facendo uscire il video di Settembre; come la stagione estiva, così il mio Ep dura da maggio a settembre”.

Un Ep che sotto diversi punti, dal titolo a ciò che viene cantato, quel richiamo ai 99 Posse di “non ci avrete mai come volete voi”, l’aver girato il video tutto in una notte, la commistione di generi diversi, riporta un po’ al crossover, Giancane più rock, tu rap.

“Infatti Giancarlo ha anche suonato la chitarra nel pezzo, quindi chiaramente c’è questo richiamo alla contaminazione che troviamo anche a Termini, una zona, un quartiere meticcio. Tra l’altro, la cosa divertente è che eravamo io, Giancane con la chitarra e Shiny D, il produttore, con la tastiera, quindi ci siamo messi a suonare di notte fuori la stazione senza nessun permesso. È arrivata tanta gente, noi ci siamo presi bene, però con tanta gente è arrivata anche la polizia, e noi abbiamo pensato: ‘ok, adesso abbiamo finito di girare, oppure lo finiamo stanotte in questura’, invece fortunatamente si sono resi conto che non facevamo niente di male ed è andata così. C’è chiaramente un richiamo anche ai classici del Rap di protesta, c’è e ci sarà sempre, ma anche una voglia di libertà di esprimersi, tirare fuori un urlo liberatorio. Anche lo stesso titolo dell’Ep, Neanche per Sbaglio, è un po’ strafottente. Io che ho sempre dato titoli molto seri ai miei dischi: Radici, Da Sud, Sacco e Vanzetti; per una volta ho voluto fare un prodotto che fosse uno sberleffo, perché l’ho fatto senza troppi schemi mentali ma con l’unica voglia di pubblicare qualcosa, con anche un approccio differente. Il suono di questo lavoro è versatile, ci sono delle cose classiche, altre come dicevi tu giustamente più crossover, c’è il Ragga, qualche esperimento, la canzone d’amore. Certo a questo punto dico: «porca miseria, se stampavamo le copie», perché sai che dal digitale arrivano spicci, però va bene così, esperimento riuscito”.

Magari potrà diventare un altro album intero insieme a Giancane…

“Eh, ma non è che non ce l’abbiamo già l’album (risate e sguardo dritto verso di me), questo è il punto. Come ti dicevo, sono uscito dalla pandemia con trenta inediti, quindi ho tante canzoni che mi piacciono molto, altre ancora ne sto scrivendo. Infatti con l’etichetta, Time 2 Rap, abbiamo deciso di mettere un punto, altrimenti avrei continuato chissà fino a quando. Quindi, tanto materiale per il disco, collaborazioni inaspettate che erano in cantiere da molto tempo, e gran voglia di farle conoscere a tutti. Ci sono prospettive molto belle con una nuova agenzia di concerti, per cominciare a costruire il futuro. Parallelamente sto sperimentando un progetto di spettacolo teatrale, con soltanto me sul palco tra la recitazione e il Rap. Abbiamo fatto la data zero a Milano che è stata un gran successo e ora stiamo cercando di capire come portarla di più in giro. E anche il lavoro di Barre non è concluso…”

Proprio riguardo a Barre, tu sei tra gli artisti che è riuscito a sfruttare quel momento di fermo per scrivere, non tutti ci sono riusciti, me per primo…

“Tantissimi sono rimasti bloccati, alcuni non hanno più scritto per i due anni a venire. Il mio approccio alla pandemia è divisibile in due parti: la prima settimana di paranoia totale perché il precedente libro (Te lo dico in Rap, nda) era uscito il 27 febbraio 2020, l’Italia ha chiuso il 28 febbraio, quindi tutti i concerti e le presentazioni del libro venivano cancellati a cascata e ho passato la prima settimana a deprimermi, a guardare le fotografie dei live, a prendermi male, male, male, con tutto il rispetto per chi se la viveva male davvero: i carcerati, chi ha avuto uno o più lutti in casa, quella è un’altra cosa. Ho avuto un momento di instabilità psicologica perché i concerti fino a quel momento erano stati la principale fonte di energie economiche e psicofisiche, ed è stato un disastro. Sono riuscito ad uscirne fuori con la scrittura e con lo studio: mi sono iscritto nuovamente all’università e ho preso un’altra laurea, scritto un libro e trenta canzoni inedite; tante cose belle che stanno accadendo adesso sono il frutto di tutto quel tempo passato in casa a creare, a studiare non solo sui libri ma anche su me stesso. Quest’ultima tesi è incentrata proprio sui progetti di Rap all’interno delle carceri minorili e mi ha aiutato ad inquadrare il tema in maniera diversa rispetto al libro, che è divulgativo, avendo avuto necessariamente un approccio più metodologico/scientifico. Alla fine quindi sono stati due anni importanti per un percorso interiore che non sarei riuscito ad intraprendere se avessi continuato normalmente a stare in giro con i tour. Se non ci fosse stata, probabilmente non avrei avuto tutto questo spazio di introspezione perché da quando è finita, tra molte virgolette, sono sempre in giro da una città ad un’altra, da un posto ad un altro che è una cosa molto bella ma non ti dà il tempo di fare altro di più. In questo momento non potrei scrivere un libro, c’è un progetto ma potrò metterlo in pratica solo quando mi fermerò un po’ per poterci dedicare il giusto tempo”.

Parlando di Barre, il libro in cui ci sono Francesco Carlo e Kento che raccontano l’esperienza dei laboratori di Rap nella carceri minorili. Come lo racconteresti a chi non l’ha letto e soprattutto non conosce questo tipo di realtà?

Barre è un libro che parla di Rap, carceri minorili e di quello che il Rap può riuscire a fare all’interno della carceri minorili. È dedicato a chi del mondo carcerario non conosce nulla, non al 1% di psicologi, insegnanti, educatori che conoscono e capiscono questo mondo ma al restante 99% che non ci è mai andato e mai ci andrà. Dall’altro lato, vuole anche gettare una luce, sebbene parziale perché non rientro in nessuna di quelle categorie appartenenti a quel 1%, su questa realtà delle carceri minorili italiane drammaticamente poco conosciuta. Prima di scriverlo ho cercato delle fonti rimanendo stupito dal fatto di aver trovato praticamente solo pubblicazioni accademiche che sono inaccessibili al lettore medio. Quindi, ho pensato di scrivere qualcosa che possa arrivare al lettore normale e che abbia tre obiettivi: essere realistico e sincero nei confronti dei ragazzi, rispettoso; non fare pietismo e dire ‘poveretti, angioletti’ perché non sono tutto questo, sono ragazzacci di strada; il terzo e forse più importante, mettermi nei panni del lettore e chiedermi cosa vorrei sapere io di questo mondo, delle carcere minorili, di come si fa Rap e come questo possa interagire con questa realtà e dare delle risposte. E quando, mi è successo più di una volta, qualcuno mi dice: ‘sai, avevo questa curiosità sul carcere, sono andato avanti mezza pagina e ho trovato la risposta’, è uno dei complimenti più grandi che inconsapevolmente mi si possa fare”.

Tra l’altro, la forma del libro è quasi romanzata, un racconto molto fluido in cui Kento si pone in prima persona raccontando anche l’approccio personale con cui affronta questa esperienza.

“Dici benissimo, il libro racconta avvenimenti tutti accaduti realmente, però la mia non è una voce neutrale, e non lo sarà mai, che pensa semplicemente al ragazzo di quattordici anni collocato in un posto in cui non dovrebbe mai stare. È la voce di uno che cerca di vedere nel bene e nel male cosa c’è lì dentro e farsi una sua idea. Ci sono tante cose che neanch’io sapevo di voler sapere, per esempio: come ascoltano la musica dei ragazzini che non hanno internet, Spotify, YouTube e neanche il lettore cd? Questa è una domanda a cui non rispondo perché lascio al lettore la possibilità di andarla a cercare nel libro” (ride).

C’è un altro aspetto importante nel libro riguardante il principio cardine, inserito in Costituzione, alla base del sistema di detenzione penale che riguarda la rieducazione del condannato. Ma tu sottolinei ciò che molti non considerano: loro un’educazione primaria non l’hanno mai neanche avuta e quindi come rieducare chi non è stato ancora mai educato?

“Il sistema presuppone che il cittadino, in un certo senso, abbia deviato dalla retta via e debba essere riportato. Ma se, ad esempio, mia mamma spaccia, mio papà è in carcere, mio zio fa le rapine, io a 14/15 anni che cosa posso fare? I reati. Perché per me quella è la vita normale. Ma ti dirò di più, ci sono stati dei casi in cui ad alcuni ragazzi hanno dovuto insegnare a lavarsi, ragazzi che non sapevano come ci si faceva una doccia. E queste cose le dovrebbe fare un cercare minorile? Non credo proprio. Ci sono dei ragazzi con dei problemi psichiatrici, spetta al carcere minorile occuparsene? Non credo proprio. Eppure, purtroppo, finisce ad assumere ruoli che non sarebbero di sua competenza, ma della società lì fuori, e quindi per questo per me è importante sottolineare a chi non conosce, non se ne occupa, quanto il carcere faccia parte delle nostre città, i detenuti della nostra comunità. Perché se noi diciamo che un ragazzo di 15 anni è finito, la sua vita è segnata, tanto vale che gli spariamo un colpo in testa e ci togliamo un problema. Se noi diciamo che non solo non è finito, ma nemmeno ha cominciato a vivere, allora è una responsabilità che ci riguarda un po’ tutti”.

Tu ora sei a Torino sempre per un laboratorio, sei praticamente all’inizio di questo nuovo percorso qui, cosa puoi già raccontarci?

“Sono a Torino grazie alla Fondazione Circolo dei Lettori, una realtà molto bella e interessante che ha organizzato questo laboratorio all’interno del carcere Lorusso e Cutugno (detto Le Vallette, nda), una struttura penitenziaria per adulti; ovviamente le persone con le quali mi trovo ad interagire io sono giovani adulti, perché magari con il cinquantenne, sessantenne è più difficile portare avanti il discorso del Rap. Le Vallette sono una delle carceri più grandi d’Italia, con una popolazione che mi dicono in questi giorni aver raggiunto le 1500 persone, cronicamente sovraffollato, per cui si comprendono tutte le difficoltà che si porta dietro. In una situazione del genere, grazie alla Fondazione Circolo dei Lettori e alla Biblioteca del carcere ho trovato un gruppo molto bello, abbiamo iniziato già a scrivere, da domani inizieremo le registrazioni e stiamo lavorando ad un videoclip. La cosa bella è vedere come il Rap serva a raccontare in maniera trasversale questo mondo. La canzone alla quale si sta lavorando parla di un ragazzo, potrebbe essere chiunque o nessuno di loro, che fa determinate brutte scelte trovando poi in carcere l’occasione di riflettere su alcune di esse, riallacciare il rapporto con la famiglia e provare a capire come rivolgersi al futuro in maniera diversa. Forse non è una cosa che succede molto spesso ma vogliamo leggerla come un augurio che gli stessi detenuti hanno voluto scrivere e dedicare a loro stessi”.

Rispetto a tutta questa esperienza maturata fino ad ora, c’è stato qualche risultato tangibile?

“Mi capita molto spesso di sentire ex allievi che mi scrivono, sentirli liberi è una cosa che rende felice, mi dà sollievo. Purtroppo non mi fa altrettanto piacere rivederli dentro. Per esempio, qui a Torino a Le Vallette, quindi carcere per adulti, ho incontrato un ragazzo conosciuto in un minorile durante uno dei miei laboratori, che era uscito e purtroppo rientrato. Chiaramente, a me non interessa tanto formare il rapper, quell’uno su cento che diventa rapper da professionista…”

Non vai lì per fare il talent scout.

“Esatto! Perché magari ce l’avrebbe fatta anche senza di me, io gli ho dato solo un piccolo aiuto. Mi interessano i novantanove su cento che dopo il laboratorio non faranno più Rap ma che per la prima volta hanno messo la penna sul foglio e hanno detto: ‘Cavolo, e adesso che cosa scrivo? Che cosa della mia mente, dei miei pensieri interessa a chi mi ascolta? Come faccio a razionalizzare ciò che ho in testa, a tirare questo filo per vedere dove mi porta?’. Questa non è una cosa che ha che fare molto con il Rap, quello è uno strumento, una chiave inglese, certo è una di quelle a pappagallo adattabili in molti contesti”.

Abbiamo il risultato di ciò che è alla fine ma il primo impatto, quando entri e li conosci, qual è?

“In realtà è molto più difficile uscire che entrare nel carcere. Perché una volta chiuso il blindo alle spalle, e sei entrato, quando ti trovi nella biblioteca, potresti essere ovunque. Loro molto spesso sono ragazzi qualunque, di periferia, magari stranisce il fatto siano tutti maschi ma ad esempio gli istituti professionali, specialmente al Sud, sono fatti per il 95% di maschi. E poi ho questo strumento che per loro è immediato: ‘Ragazzi, oggi facciamo quattro barre a testa; oggi facciamo una strofa; oggi freestyle’, loro sanno di che cosa sto parlando e vado avanti. Il problema è all’uscita: quando il blindo ti si chiude alle spalle e tu sei fuori, la prima cosa che fai è tirare un sospiro di sollievo perché sei fuori dal carcere, un luogo brutto per definizione; anche quello più bello è un posto brutto, è fatto per essere brutto, altrimenti non si chiamerebbe così ma Grand Hotel. Quindi, fai un sospiro di sollievo e poi ti viene subito il magone, perché pensi: ‘magari io adesso vado con Renato a prendere una birra e i ragazzi sono dentro'”

Però continui a farlo, entrare e uscire, perché ormai è diventata parte integrante del tuo lavoro e anche della tua vita.

“Sai, Bruce Lee diceva: ‘io non faccio esperienza, io sono esperienza’. Io sto cercando di non fare Hip Hop ma di essere Hip Hop e il carcere puzza di Hip Hop allo stesso modo di come puzza di sudore, disinfettante industriale e testosterone. Una delle cose che dico molto spesso ai ragazzi è: ‘Voi siete qui dentro carcerati, quindi il vostro corpo è chiuso. Ma la vostra mente è carcerata o è libera? E se la vostra mente è carcerata, qual è lo strumento che utilizzate per renderla libera? È il Rap, l’arte, lo sport, è pensare alla famiglia – perché magari ci sono alcuni che sono già papà – qual è il vostro modo di rendere la mente libera?’. Però mi sono reso conto che questa è una riflessione utile anche a noi nel mondo dei liberi, molto spesso siamo noi a crearci delle gabbie mentali e tra tutte, le più strette sono spesso quelle che poniamo a noi stessi”.

Hai a che fare con adolescenti, seppur non nella condizione normale di un adolescente occidentale, che comunque hanno un certo tipo di approccio con la musica. Tra quelli incontrati dentro e fuori c’è differenza nell’ascolto?

“I ragazzi detenuti hanno un approccio molto più maturo di quanto si pensi, perché certi ascolti adolescenziali per loro sono cose da bambini piccoli. Determinati atteggiamenti, modi di ostentare, li hanno visti nella realtà e quando sono fake li fanno ridere. Ascoltano Street Rap, anche con dei contenuti gangsta ma più adulti di quello che ci si aspetterebbe. La roba alla Gucci Gang per loro è per i fratellini più piccoli, per bambini. Per esempio, tutti conoscono Tupac in carcere. Magari non hanno bene in mente la canzoni, non hanno bene in mente la carriera, ma se tu dici Tupac, loro ti rispondono ‘leggenda!’”.

Nel libro ci sono un paio di passaggi in cui tu racconti di episodi riguardanti il rapporto tra i ragazzi in carcere e Tupac.

“L’altro ieri abbiamo fatto il discorso sul tatuaggio T.H.U.G LIFE che aveva Tupac”.

Che fine d’anno ti aspetta?

“Molto intensa, oltre ai laboratori in varie località d’Italia – devo tornare a Torino, poi ci saranno Roma, Catanzaro, Cagliari – c’è la mia attività musicale in senso stretto, i concerti nuovi in arrivo, la chiusura del libro e poi devo finire in Calabria delle riprese di un film in cui io faccio il cattivo, e questa è l’unica cosa che ti posso dire”.

Redazione Rumore
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