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Morphine, un blues per Mark Sandman

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di Francesco Vignani

La sera del 3 luglio 1999 Mark Sandman ha 46 anni ed è sul palco del festival Nel nome del rock di Palestrina, secondo Google a un’oretta di macchina da Roma e a qualche migliaia di chilometri dal suo Massachusetts. Non ha avuto una vita facilissima fino a lì: due fratelli persi in sequenza in giovanissima età, un elenco infinito di mestieri improbabili in giro per il mondo e una rapina terminata con un accoltellamento al petto che avrebbe potuto avere un finale anche peggiore. A guardarla col senno di poi, la carriera musicale pare un ripensamento, qualcosa di simile a un’ultima spiaggia. Tanto che uno dei modi migliori per fargli chiudere anzitempo un’intervista è il chiedergli come mai abbia cominciato tanto tardi, soprattutto in un periodo – gli anni Novanta – in cui il rock è ancora lontano dall’attuale gerontocomio. Già trentenne ai tempi degli esordi con i Treat Her Right, ad esempio, buoni per cominciare a scardinare la serratura della scena di Boston e iniziare a farsi conoscere nel resto degli Stati Uniti. E trentaseienne nel 1989 al momento di formare i Morphine, dove mette a capitale quanto fin lì imparato e cristallizza un suono che lo colloca immediatamente fra gli irregolari del decennio alla pari di gente come i Soul Coughing o – e soprattutto per l’amicizia fra le due band – i Presidents Of The United States Of America. Tanto per citare due fra i più strani, visto che il gruppo in quota non si fa mancare nulla. La formazione? Una batteria (affidata salvo un breve periodo a Jerome Deupree), il sassofono di Dana Colley e Sandman a metterci voce e basso a due corde, il vero marchio di fabbrica del gruppo. “Ho cominciato con una sola, metterne un’altra è stata solo una mia stravaganza: la prima bastava e avanzava visto che così aumentano solo le possibilità di errori”, racconterà con quel viso tutto diagonali nel documentario postumo Cure For Pain del 2011. Combinando una tecnica fra il geniale e l’autodidatta a una filosofia less is more fatta più di gesti concreti che di svolazzi politici, per quanto fra i fan rientri da subito l’ex Minutemen Mike Watt. Uno il cui celebre motto è “We jam econo”, sorta di versione più sintetica di una frase che Sandman userà spesso per spiegare le regole d’ingaggio dei Morphine: “Facciamo quello che dobbiamo fare per fare quello che vogliamo fare”. Salvo poi approfondire: “Suono come cucino, probabilmente. Per esempio per anni ho preparato un sugo al pomodoro con origano, timo, un po’ di basilico, del pepe nero e del sale. Un po’ di questo e un po’ di quello. Poi un giorno non ci ho messo nulla, me ne sono semplicemente dimenticato ed è venuto fuori il miglior sugo che io abbia mai fatto: ecco, quel momento mi ha insegnato tantissimo. Chissà perché poi tutti mi chiedono del basso e nessuno mai chiede a un gruppo rock se ha intenzione di fare ancora molti dischi con le chitarre? Per me i Morphine sono come il codice segreto di una cassaforte. Hai tre soli numeri da scegliere, ma prova ad aprirla se non li conosci. Vediamo quanti tentativi ti serviranno”.

Non aiuta la digeribilità della formula il citare Muddy Waters come modello quando la liturgia grunge del periodo prevede altri santini oltretutto, come ricorderà Dana Colley: “Ai festival facevamo la figura di quelli buoni solamente per ripulire il palato, una specie di sorbetto in mezzo a panini di chitarre pesantissime”. E infatti nelle recensioni del periodo molti inchiodano davanti alla scarsa decifrabilità della struttura del gruppo e si tengono lontani da definizioni troppo nette. I Morphine non fanno blues, semmai suonano bluesy. Pop? No, al massimo poppish. Solo che probabilmente il più grande merito dei tre è la velocità con cui l’ascoltatore dimentica gli elementi meno ortodossi del gruppo e inizia a perdersi in una serie di canzoni memorabili. Magari non dal principio, se Good (esordio del 1991) lascia tuttora un po’ il senso di una band che sta finendo di incastrare tutte le mattonelle del proprio suono. Ma la doppietta Cure For Pain (del 1993 e raccontato benissimo qui) e Yes del 1995 è fra quelle imprescindibili per chi dice di voler conoscere gli anni Novanta. C’è di tutto e tutto ha il suo spazio: testi asciuttissimi di area beat, groove r’n’b che sembrano sul punto di rilassarsi prima di rinculare più feroci di prima e un gusto per la canzone pop che Sandman fa risalire persino a Prince. Un po’ come dei Lounge Lizards in cantina con Jon Spencer, non fosse anche questa una definizione troppo riduttiva per album sensuali eppure rognosi, delicati eppure magmatici. E con un senso per i pieni e i vuoti perfetto per il cinema, e saranno in molti ad accorgersene su una linea che parte dal cinema indipendente, passa per i Sopranos e finisce in Viaggi di nozze di Verdone.

La lucidità si appanna semmai al momento della firma con la Dreamworks nel 1997. La storia è la solita del periodo, quella dell’assalto alle indie da parte delle major negli anni post Nirvana. Ma ha aggravanti non da poco nel caso dei Morphine: la Dreamworks è nata da pochissimo, deve ancora trovare la sua missione e si convince di poterlo fare andando a caccia di figurine e mettendo un (bel) po’ di soldi in tasca al malcapitato del momento. Salvo poi lasciarlo solo ad arrangiarsi l’istante dopo, precisamente quel che capita con Like Swimming dello stesso anno, non tanto poco ispirato quanto probabilmente finito in fretta e furia una volta che il gruppo si accorge del clima nella nuova etichetta. E soprattutto quello che succederà con quel The Night che Sandman finisce di registrare pochissimo prima di morire e che verrà pubblicato nel 2000: se ci fosse un campionato per i dischi postumi meno celebrati l’album finirebbe almeno ai più quarti di finale, probabilmente. Ed è doppiamente un peccato, se The Night sembra il più classico dei dischi – nel suo fondere jazz e il penultimo Tom Waits, il tutto insieme a un tentativo di ingrassare il proprio suono – in grado di allungare la carriera di un gruppo. Oltre che figlio di un periodo tutto sommato felice a livello di umore: il rapporto con la compagna Sabine va a gonfie vele, la coppia ha appena finito di scegliere casa e i soldi della Dreamworks consentono almeno qualche agiatezza in più, inclusa la trasformazione dello studio casalingo in qualcosa di molto simile a una struttura professionale. Ottimismo che però porta a mettere sotto il tappeto gli effetti sul lungo periodo dello stress degli anni precedenti. Sabine racconterà ad esempio di un principio di infarto a casa due settimane prima della morte, derubricato dall’interessato a indigestione in modo da rimandare i controlli alla fine del tour. Così come non aiuta il pacchetto di sigarette al giorno da una vita, ma l’arrivo a Palestrina per la seconda data del tour estivo pare dei più sereni, a sentire Dana Colley: “Ci siamo arrivati il giorno prima passando per questa strada tutta curve, arrampicandoci su una collina a un’ora da Roma. Il palco era in uno dei posti più belli che io abbia mai visto, e non parlo solo di luoghi dove abbiamo suonato. Il giorno dopo il caldo era atroce, ma ricordo benissimo Mark al soundcheck. Era lì che giocava con la batteria, con gli altri strumenti. Stava mordendo il freno, non vedeva l’ora di suonare e aveva un sorriso enorme quel pomeriggio.”.

Il concerto di quella sera, com’è noto, non arriva mai al termine. Dopo alcuni brani – chi dice due, chi di più, e non essendo presenti video le versioni differiscono su alcuni dettagli – Sandman finisce di recitare in italiano il testo di Mona’s Sister (brano del suo periodo nei Treat Her Right), pronuncia la frase “Grazie Palestrina. È una serata bellissima, è bello stare qui e voglio dedicarvi una canzone super-sexy”, si china sulle ginocchia e cade indietro. Morirà sul colpo, secondo i medici dell’ospedale a cui viene portato di corsa da un’ambulanza. Ma non ci sarà mai un’analisi dei motivi (il caldo? Qualcosa di congenito?) che hanno portato all’arresto cardiaco. Come noterà Michael Azerrad, celebre giornalista americano e conoscente personale di Sandman, nessuna autopsia verrà mai chiesta dalla famiglia in ossequio ai dettami della religione ebraica che non solo considera il corpo come il tempio dell’anima ma richiede anche una sepoltura entro tre giorni. Assenza di esami a cui ascrivere come contraltare gli anni di pettegolezzi a venire, tutti giocati sul fare discendere dal nome Morphine una consuetudine con le droghe che tutti le parti vicine a Sandman smentiscono con assoluta fermezza malgrado la pochissima eleganza di alcuni quotidiani del giorno dopo nell’accennare a presunti “medicinali nella stanza d’albergo”.

Il lascito, dal punto di vista puramente pratico, è purtroppo inferiore al talento del fondatore del gruppo. Vero: il comune di Palestrina gli dedica una scalinata, e il resto del gruppo tornerà a suonarvi nel 2009 (nell’ambito di un progetto nato come Orchestra Morphine) a dieci anni dalla morte. Ma a lungo altri buoni sentimenti resteranno puramente di facciata: velocissima sarà la Dreamworks a dare un prevedibile benservito agli altri due del gruppo, ad esempio, e durerà anni la battaglia legale sul catalogo dei Morphine. Quello che ci resta ed è rimasto, in pratica, oltre a qualche raccolta e live postumo. Invecchiato benissimo, molto più di quello di altri ben più celebri colleghi dei Novanta, aiutato per assurdo in ciò proprio da un’assenza delle chitarre che ha contribuito a renderlo poco databile. Come da una personalità talmente definita da averli resi praticamente inimitabili, cosa che spiega una certa trascuratezza da parte della stampa specialistica nel ricordarne il peso. Ma un tipo di eredità che a un personaggio schivo e orgoglioso come Sandman sarebbe piaciuta tantissimo.