Intervista: Editors

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di Elena Rebecca Odelli

È dato noto come, dal loro esordio nel 2002, gli Editors siano sempre stati ignorati dalla stampa londinese, loro terra d’origine, lottando – se così si può dire- per avere un impatto tra le orde di band indie che hanno indirettamente colpito anche il panorama italiano dei primi 2000. Eppure, rimanendo nell’ “ombra” gli Editors hanno pubblicato i primi cinque album (Violence escluso) vivendo da una parte ciò che gli altri gruppi mettevano sul piatto discografico e, dall’altra, affermandosi, almeno per i fruitori musicali, come una delle band maggiormente in costante evoluzione del Regno Unito. Violence è un discorso a parte. Gli Editors si presentano con un singolo ammiccante, calando di fatto il poker d’assi. Magazine, con un sound alla Depeche Mode ma non troppo, vira verso il pop d’autore, quello curato nel dettaglio e non di certo una bozza scribacchiata e buttata nella mischia, eppure pop rispetto agli esordi. Ritroviamo Rahi Rezvani, fotografo che segue la band nello stilish video e fotografico da qualche anno. Questa apertura pop va di pari passo all’apertura radiofonica della band di Birmingham eppure sarebbe riduttivo definirli in tal senso, proprio per il discorso di evoluzione fatto poc’anzi. Tom Smith nel 2005 cantava “I’ve got milion things to say” (Lights) e se vogliamo per certi versi, il punto focale di Violence rimane proprio questo: l’urgenza di dire che va a convergere con l’urgenza del suono. Gli Editors hanno abituato i suoi ascoltatori a virate musicali dal wave di The Black Room al versante synth –elettronico di In Dreams. Allora cosa è cambiato? È cambiata la percezione, o solo il punto di vista. Sì perché Tom Smith aveva effettivamente milioni di argomenti da trattare, guardandosi in giro con la Brexit sullo start e un Trump presidente, eppure lo fa mai direttamente, piuttosto allargando il confine e parlando alle coscienze. Un tour che permetterà di connettersi. Un record tour per gli inglesi, un nuovo stimolo per gli Editors che sono sicuramente una live band. Li vedremo in Italia al TOdays Festival di Torino.

È stata una decisione consapevole fare in modo che Violence suonasse in questo modo?

“Sforzo un po’ il concetto di ‘esser conscio’, per risponderti. Hai ragione, c’è uno sfondo per molte delle nuove canzoni. C’è un’accettazione o un riconoscimento del mondo esterno. Ecco da dove viene la parola “violenza” e perché risuona in modo preponderante nel disco. Ad un ascolto più attento, però, ci si accorge che ciò che è importante è la connessione umana. Una relazione o amicizia, qualcosa di fisico. Per me, il disco si concentra sulle persone. Certo, c’è anche un po’ di rabbia. Il mondo in cui viviamo in questo momento, te la mette davanti agli occhi tutti i giorni. Per quanto riguarda il suono invece, penso che ci siano delle “indicazioni” o riferimenti ai dischi precedenti. Se ascolti The Back Room ci sono brani come Camera a cui Hallelujah o Salvation possono tranquillamente riagganciarsi. La differenza sta nel tipo di peso che abbiamo dato al suono: proviene da un posto più basso. Il suono della chitarra, per cui eravamo famosi nel passato, era alto e stridulo, nei ‘bei vecchi tempi’… quando potevamo suonare velocemente (ride ndr). Le cose si sono evolute e sono cambiate”.

In Violence appaiono dei punti di contatto tra i vari brani, seppur so che non siete grandi fautori del concept album.

“C’è un mondo violento da cui i personaggi stanno scappando. Il punto focale per me è ancora la connessione umana, concepita come un mezzo di fuga. Spegnere il telefono, chiudere la porta anteriore e concentrarsi su qualcosa di diverso per un po’. Disconnettersi per riconnettersi con le persone, con la vita reale. È quello che cerchiamo di fare anche live. La violenza è ovviamente una parola che lascia atterriti, per l’impatto stesso del significato. Nel disco potrebbe essere la violenza delle emozioni, così come gli abomini del mondo che vediamo e viviamo. Il modo in cui siamo esposti a ciò che accade nel mondo è violento in sé. Il modo in cui consumiamo o siamo bombardati da immagini e messaggi di odio, qualunque sia il lato della barriera, è senza sosta e terrificante”.

L’album ha seguito un flusso creativo costante? Magazine risale a cinque anni fa e poi è finito come singolo apripista.

“Sì, Magazine è stata in sospeso per un po’, è venuta fuori dall’ombra quando stavamo facendo questo disco. La canzone ha chiesto di essere registrata di nuovo. In termini di etichetta o gestione, nessuno di noi ha mai considerato questa canzone come il primo singolo o altro. C’era solo un silenzio totale a riguardo. Il disco è stato fatto, tutto ad un tratto Magazine è stato realizzato come il punto focale dell’album”.

Anche No Sound But The Wind è finito nell’album? È un album dei “ritorni”?

“Tom ha cambiato il testo quando abbiamo inserito una versione della canzone nella colonna sonora di Twilight, ma quella era solo una demo registrata in stanza da Tom. La band non aveva mai registrato quella canzone. Sembrava un brano in cui dovevamo disegnare una linea. C’è una versione dal vivo che ha avuto un significato in Belgio, ma solo in Belgio. La canzone ha un po’ di storia, ma non l’abbiamo mai registrata, quindi sembrava che il disco avesse bisogno di un momento di calma. C’è un sacco di elettronica frenetica. Ogni canzone ha una storia e un viaggio diversi. Penso sempre che sia interessante se qualcosa viene dal tuo passato, come Magazine. A volte è bene rivisitare le cose. Succede e basta”.

Ritorna ancora Rahi Rezvani, fautore anche della copertina di Violence?

“Volevamo un’immagine di impatto che esprimesse il concetto visivo di tutto il disco. Rahi non è un ritorno ma una costante, ormai cura praticamente tutti i nostri aspetti visivi, foto dei concerti comprese. È un sodalizio iniziato nel 2015, firmando i video di No Harm, Life Is A Fear e Marching Orders e le magnifiche immagini dell’artwork di In Dream. Lo consideriamo uno della band a tutti gli effetti”.

C’è stato un buco generazionale delle band inglesi che negli anni si sono fatte strada, eppure sembra che qualcosa si stia muovendo e le chitarre stiano tornando, penso agli Shame. Come vivete il panorama musicale “da band”?

“C’è una mancanza di ‘band band’, di band alla “moschettieri” per intenderci, perché è quasi impossibile permettersi di essere “tutti per uno” oggi. Ho sempre pensato che band come Arctic Monkeys e quel lotto, provenissero da uno sfondo di classe lavoratrice, da una vera e propria storia d’amore. Ora la storia è cambiata. Le etichette non finanziano le band emergenti. Quindi, anche se non sono così interessato alla musica che stanno facendo, mi piace il fatto che band come Shame siano ‘lì’ perché non ce ne sono state per un po’”.

Redazione Rumore
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