L’urgenza di un desiderio senza nome: Steve McQueen dei Prefab Sprout

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(Prefab Sprout – Steve McQueen, 1985 – Kitchenware)

Riconoscere immediatamente un suono o un gusto è un riflesso automatico e quotidiano. “Rumore”, in collaborazione con Jameson, vi porta a scoprire ciò che li rende riconoscibili.

di Mauro Fenoglio

Nel libro Il Giovane Holden di J.D. Salinger c’è un passaggio, quasi alla fine, che chiarisce il significato del racconto. Il protagonista, Holden Caulfield viene messo all’angolo dalla sorella Phoebe, che lo incalza, chiedendogli se ci sia una cosa, una, che veramente gli piaccia. Lui prova per un po’ a eludere la domanda, come sempre, aggrappandosi al rifugio della burla. Alla fine, capitola e dice, quasi esausto: “Mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale, eccetera, eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo. voglio dire, se corrono senza vedere dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non devo fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia”. Cosi, in parole semplici, ecco esposta l’urgenza di un desiderio, che non è figlio di pulsioni immediate, ma anela a qualcosa di più alto, un paradiso, che si fa fatica a sillabare. Un desiderio che non è figlio di eroismi o rinunce, che meritano una compensazione. Se esiste un disco che incarni bruciante, l’urgenza di quel desiderio senza nome, e lo traduca in musica popolare, quello è Steve McQueen. Uno dei testamenti sentimentali del ‘900. Uscito nel giugno del 1985, come un miracolo. “Troppo bello” ripeteva, quasi a corto di possibili definizioni, Giampiero Vigorito, nella sua appassionata recensione uscita su Rockstar alla fine di quell’estate indimenticabile. Era la metà degli anni ottanta. Il furore nichilista del post punk e le dolci ferite aperte del dark trovavano la forza di non impiccarsi, cercando uno sbocco nel sorriso lisergico di In Between Days dei Cure. Morrissey e i suoi Smiths s’impossessavano del diario segreto di adolescenti, rimasti senza idoli con cui identificare il loro disagio. Il futurismo sintetico e nuovamente romantico, nato in Inghilterra, invadeva anche l’America del rock, prendendo nuove forme, non sempre concilianti. Ma c’era una tribù di orfani sentimentali, a cui tutto questo non bastava. Adolescenti, con le tasche piene di pagine di romanzi, bloccati dalla timidezza, nell’offrire la propria complessità al mondo. Giudicati troppo vecchi e irrisolti, per la rabbia giovane dei coetanei. Abitavano camerette, che avrebbero voluto teleportare sul set di Irma La Dolce. Avrebbero voluto ballare con Gene Kelly sotto la pioggia o baciare in fronte Audrey Hepburn sulla quinta strada a New York. Con lo sguardo triste di Spencer Tracy, rischiavano la presa in giro, provando a indossare il vestito buono, sempre male in arnese e a corto di mezzi, per tracciare in qualche modo anche loro, un’identità qualsiasi. Alfieri di una borghesia sentimentale, derubricata come puro riflusso del privato, poco eroica, storicamente non pervenuta. Steve McQueen inaugurò ufficialmente la loro stagione fulminante. Non sarebbero mai più stati soli. Un obbligo di definizione quasi distratto, avrebbe declinato tutto questo come sofisti pop. Storiografi più curiosi avrebbero provato a spingersi oltre, confezionando un post Steely Dan Northen Pop, che ne certificasse l’eleganza. Sta di fatto, che Steve McQueen aprì la strada ad un esercito di cantautori e musicisti britannici, accomunati dall’urgenza dell’arrangiamento baciato dalla storia della musica, la fascinazione filmica dell’America, il tocco di classe di Donald Fagen e il conforto caldo del sentimiento que se baila (bossa in primis), a colorare cieli altrimenti grigi. I Deacon Blue di Ricky Ross, i Danny Wilson di Gary Clark, Roddy Frame / Aztec Camera, i Love and Money di James Grant, gli Everything But the Girl, i Bible di Boo Hewerdine, gli Scritti Politti post Cupide & Psyche. Solo per citarne alcuni. Paddy McAloon, il leader dei Prefab Sprout, il benzinaio di County Durham, il compositore che guardava a Paul McCartney, Steven Sondheim e Jimmy Webb, il prete mancato (perché’ la religione non dovrebbe essere insegnata ma offerta). Che avrebbe voluto poter telefonare a J. D. Salinger, con il suo romanzo preferito in mano, ogni volta che le cose non andassero per il verso giusto. L’uomo che progettò il miracolo, sull’orlo dell’abisso, lo dice molto bene in Cruel (l’incredibile blues metropolitano che su Swoon, esordio della band, anticipa tutta la poetica del capolavoro che lo segue) “Sono un tipo liberale. Troppo figo per l’ardore macho, con un dente segreto per la ciliegia sulla torta”. Steve McQueen, in fondo, è tutto li. Ma il desiderio ha bisogno del treno musicale adeguato. Nel 1984, Thomas Dolby, eclettico musicista elettronico inglese, viene invitato a una tavola rotonda in una trasmissione radiofonica su Radio One. Un gruppo di esperti ascolta e discute dei singoli usciti quella settimana. Passa Don’t Sing, tratta da Swoon. Come molte delle canzoni dell’esordio, è un diamante grezzo, figlio dell’ansia compositiva di Paddy. Con gli accordi di chitarra tirati oltre misura, a seguire i testi surreali, in una successione di toni minori, appaiati secondo scale bizzarre. Alcuni dei partecipanti, scherzano, capendoci poco: “ecco, non cantare, è meglio”. Invece Dolby ne rimane ipnotizzato. È qualcosa di completamente diverso dal resto. Cosi, presi i contatti con i McAloon, li raggiunge a casa. È l’autunno del 1984. La dimora della famiglia è in una casa parrocchiale in mezzo alla brughiera. A completare il quadro, c’è la stazione di benzina del padre, all’ombra del ciliegio. Tutto torna, come sempre, con Paddy. I due fratelli McAloon (Paddy e Martin) hanno messo su la band fin dagli anni settanta, mutuando il nome da un’interpretazione errata del testo di Jackson di Lee Hazlewood e Nancy Sinatra. Paddy scrive febbrilmente canzoni preziose, da anni. Ne conserva gli abbozzi e i testi, impilati su fogli che custodisce sotto al letto, in camera sua. Dolby cena con la famiglia e poi accompagna Paddy in camera. E così, come spesso capita con i capolavori pop, inconsapevolmente e quasi involontariamente, si consuma uno dei momenti più importanti per la musica del ventesimo secolo. Il produttore chiede al cantautore di fargli ascoltare le canzoni. Paddy ne tira fuori da sotto il letto una quarantina, molte composte addirittura prima di Swoon, e le interpreta alla chitarra spagnola della madre. Seduti in una camera da letto, con fuori l’autunno, che lieve accomoda le foglie gialle della campagna inglese sul grembo della terra. Un vulcanico produttore che già immagina ad occhi chiusi, percorsi astrali che diano forma compiuta a quegli scarabocchi, che sembrano usciti da un musical dimenticato nel tempo. E un cantautore, stretto nei panni vestiti fino ad allora, fra necessità terrene e desiderio di paradiso, con l’ambizione di salvare l’innocenza dall’abisso.

Così nasce Steve McQueen. Il nome, ispirazione venuta in sogno a Paddy. E poi la copertina. I quattro componenti della band, tutti insieme sulla motocicletta Triumph che Steve McQueen usò nel film La Grande Fuga. Un nome che è ancora una volta, rischio, avventura, salto nel vuoto. Una foto, in cui l’innocenza viene offerta in modo quasi selvaggio. Lo sfondo cela gli stessi segreti del paesaggio dietro alla Gioconda di Leonardo Da Vinci. Chi si cela fra la nebbia della brughiera? Le cime tempestose di Emily Bronte? Il campo di segale di Holden Caulfield? La figlia dell’attore non gradirà comunque l’omaggio, e l’edizione americana del disco dovrà avere un titolo diverso. Two Wheels Good, parole tratte dalla Fattoria Degli Animali di George Orwell. Nella testa di Paddy c’è già una poetica salvifica, che provi a guardare il mondo con dolcezza, per salvarlo attraverso la musica. I simboli, che lo accompagneranno durante tutta la sua vita artistica. Da Elvis a Michael Jackson, da Bruce Springsteen a Dio. Che saranno invocati tutti, lungo i suoi dischi, per leggere il mondo e accarezzarlo. Nelle canzoni di Steve McQueen pulsa tutto il ‘900, quasi faticando a rimanere racchiuso nei contorni di canzoni pop. Il jazz, il funk, il doo woop, Gershwin e Sondheim, l’epoca d’oro di Hollywood, il soul e gli Steely Dan. Tutti parte del disegno, che Paddy ricama, aiutato dalle intuizioni di Dolby, per dare materia all’Olimpo del desiderio. È ovvio che, quando all’uscita del disco, la stampa prova a metterlo in competizione con Morrissey, Paddy non trovi altra risposta, che dirsi confrontabile solo con Rodgers e Hammerstein (padri del musical americano). McAloon e Morrissey. Radicalmente diversi, pur se ugualmente dotati da un punto di vista lirico. Uno immerso nella contemporaneità e cantore delle sue storture, da un punto di vista emozionale. L’altro calato nel presente, ma anelante rimedi universali. Uno James Dean, l’altro Steve McQueen. Uno esteta in lotta col mondo, come Wilde. L’altro alla ricerca di risposte per tutti, attraverso le parole, come Salinger. Se vogliamo, solo Paul McCartney (non per niente, idolo confessato di Paddy) è arrivato a tradurre in pop, quella perfezione di sentimento, senza rischiare mai di eccedere nella resa e negli zuccheri.

Il disco viene registrato in 5 settimane negli studi Marcus a Londra. “Sono soddisfatto nello scrivere le canzoni. Non mi serve altro”. Dice Paddy. L’altro glielo offre Dolby. I Fairlight CMI è il sintetizzatore digitale e campionatore che viene eletto a totem dal produttore. Lo utilizza lungo tutte le tracce, per esaltare le asperità della voce del cantante (enfatizzandone i sospiri) e il soffio aulico del controcanto di Wendy Smith. I due accordi di banjo dell’iniziale Faron Young, sono realizzati da Dolby, passando una chitarra al Fairlight. Introduzione alla guida notturna di Paddy. Il suo primo sguardo critico ad un’America, che rischia l’abisso nelle sue certezze. Ne tratterà, più in dettaglio, nel successivo From Langley Park To Memphis. Ma è con Bonny che arriva il primo capolavoro assoluto. Un vento digitale, introduce fra le nebbie (ancora la copertina) il tocco secco di una chitarra acustica. Le armonie vocali della Smith punteggiano un testo sull’essenza della rinuncia e del ricordo. Sono perso per il paradiso e sono perso per la terra. Sembra di sentire Travis che in Paris, Texas, racconta la sua storia a Nastassja Kinski, che lo ascolta, oltre il vetro del peep show. Pare che Paddy l’abbia scritta durante la malattia del padre alla fine dei settanta. Elegia di qualsiasi città grigia, di un qualsiasi Nord del mondo. Neanche il tempo di riprendersi, ed entra leggera Appetite. Quasi un funk bianco alieno, insinuante come il serpente del peccato originale. Mette in bella mostra la meraviglia di un album, che vive di esplosioni improvvise e di eleganti delicatezze mai pedanti. When Loves Break Down è ancora una gemma di mezza stagione, che racconta il momenti immediatamente successivi a una rottura sentimentale. Le stigmate della perdita, non ancora cicatrizzate, svelate con dolcezza impareggiabile.


Goodbye Lucille #1
è una delle canzoni che avrebbero dovuto finire su uno dei mille progetti mai finiti di Paddy: un album tutto dedicato a una creatura immaginaria chiamata, appunto, Lucille. Disseminati lungo canzoni, che vivono fra morbidezze levigate con un cesello finissimo e accelerazioni studiate, tracce della fascinazione di Paddy per l’Holden di Salinger. Dai fiori per i funerali di Bonny, fino al calembour della bossa Horsin’ Around (originariamente scritta per i Sunset Gun, in cui militavano Louise and Deirdre Rutkowski, poi con i This Mortal Coil) “fare lo sciocco è un affare serio, l’ultima cosa che vuoi è qualcuno che testimoni”. E poi arriva il monumento finale al desiderio. Uno di quegli stacchi, che entrano senza avvisare, per definire un’epoca. Come Deacon Blues in Aja degli Steely Dan o Con Il Nastro Rosa, alla fine di Una Giornata Uggiosa di Lucio Battisti. Desire As è una creatura introdotta dal Fairlight di Dolby, in un modo che diventerà quasi cifra stilistica, per quelli che proveranno (stolti) ad approcciarsi a qualcosa di simile. Il desiderio vissuto a nudo, quando il suo oggetto è oramai lontano nel tempo e nello spazio. Il volto della fine di una storia, svelato dall’ordinarietà del dopo, raccontato dalla voce a pelle d’oca di Paddy e l’etereo corredo di Wendy Smith. Il desiderio come una silfide che cambia la mente di lei. Il sassofono e i sintetizzatori cadono in concerto, lungo cascate di diamante, che accarezzano l’intimità del momento. La perfezione. Se cercate un simbolo per il sofisti pop, lo trovate qui, sull’orlo del dirupo del cuore. When The Angels saluta il capolavoro, con la celebrazione di Marvin Gaye e inaugura il museo dei personaggi dell’autore, che si arricchirà di protagonisti lungo gli album successivi. Un disco troppo bello per essere vero. Appunto. Che rimarrà un sigillo del cuore per una generazione senza definizione storica, e per musicisti che proveranno nei decenni successivi a impararne la lezione (l’esordio dei Phoenix non sarebbe esistito senza i Prefab Sprout). Paddy McAloon invecchierà fisicamente, rischierà di perdere vista e udito, vivendo da aristocratico recluso a Durham, fra le braccia amorevoli di moglie e figlie. Ogni tanto, passati i sessant’anni, si fa ancora vivo, sempre pronto ad accarezzare un mondo sull’orlo del baratro. Il suo capolavoro, ancora oggi, dopo più di trent’anni, rimane assolutamente magico e contemporaneo all’ascolto. Come la voce del desiderio, che non conosce i limiti della convenzione, che non teme il salto nel vuoto. Tanto Paddy è sempre li, nel campo di segale, pronto ad abbracciarci, se rischiassimo mai di finire in fondo al dirupo. Non deve fare altro tutto il giorno.

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