Intervista: Lino Capra Vaccina

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di Maurizio Narciso

Ci sono musicisti che si dedicano ai loro strumenti in modo totale, anzi è proprio il loro rapporto con la musica – e quindi con le vibrazioni che il suono produce nello spazio – che è totalizzante. Poi c’è Lino Capra Vaccina, che incarna questa attitudine ma la spinge “oltre”, utilizzando la propria espressione e attitudine musicale percussiva per indagare sia lo spazio esterno dell’uomo che quello più imperscrutabile e intimo. La scoperta di sé attraverso la musica è uno degli argomenti che tornerà più spesso nell’intervista che segue, nella quale riannodiamo i fili del tempo approfondendo tutte le tappe fondamentali di uno degli sperimentatori contemporanei più indomabili e curiosi.

Dai suoi anni ’70 della libertà creativa all’interno degli Aktuala fino all’incessante esplorazione del proprio io interiore con il suo progetto omonimo che attraversa gli anni ’80 e arriva fino ad oggi, passando per l’esperimento di ricerca e improvvisazione Telaio Magnetico fondato assieme a Franco Battiato e Juri Camisasca.

Ma non stiamo parlando solo di un grande innovatore e sperimentatore che fu, perché la sua attività è ancora importante e non smette di affascinare, come dimostrano le parole che un talento incredibile come Four Tet gli ha dedicato in occasione della recente ristampa del primo album solista Antico Adagio: “Ci sono dischi che ho trovato nella mia vita che quasi speravo esistessero ancora prima di ascoltarli. Dischi con nuove combinazioni di suono e atmosfera che sapevo avrei amato, se mai li avessi trovati, e che poi si sono rivelati anche migliori di quanto potessi immaginare”.

Se penso a Lino Capra Vaccina mi vengono in mente due parole: “studio” e “curiosità”. Definire è limitare ma forse in questo caso potresti essere d’accordo.

“Direi proprio di sì. Lo studio è una costante che mi accompagna da sempre, sia nell’ambito della ricerca musicale che, in una qualche maniera, in quella interiore. Poi, hai detto bene, c’è la curiosità, che è quella cosa che mi ha mosso fin dall’adolescenza alla scoperta del non noto, che mi ha guidato al superamento di barriere e preconcetti e che ancora oggi è mia compagna fedele. Sì, quelli che hai scelto sono due aggettivi che mi stanno bene, sia nell’ambito della musica che più in generale nella vita”.

Facciamo un passo indietro, qual è il tuo primo ricordo connesso alla musica?

“Il mio primo ricordo risale all’infanzia, o poco dopo. Riguarda quelle onde e frequenze sonore che provenivano dall’ambiente casalingo, grazie alle feste che i miei genitori organizzavano, dove avevo modo di sentire diversi tipi di sonorità. Mio padre era un appassionato di musica, di quella classica, della lirica ma anche della nazionalpopolare, quindi le mie prime esperienze sono state assai varie. Per quanto riguarda invece il primo vero richiamo a una percezione che mi piace definire “altra”, diversa da quella legata ai canoni musicali, è arrivata grazie ad un rapporto abbastanza precoce con la natura e i suoi suoni. Vivevo in un ambiente naturale molto bello e ricco di stimoli; oggi un approccio a questo tipo di effetti verrebbe chiamato “field recordings”, lo saprai (ride ndr). Ebbene questi suoni naturali sono connessi alle prime esperienze in cui mi sono sentito davvero incuriosito, utilizzando l’aggettivo di cui abbiamo parlato prima, e anche stimolato ad iniziare una mia ricerca”.

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Quindi c’è stato un momento in cui il solo ascolto non bastava più?

“Esattamente. Ad un certo punto, ribadirei precocemente e da autodidatta se me lo permetti, mi sono sentito di confrontarmi in prima persona con i suoni e con la musica e questo ha fatto sì che ai tempi delle medie io cercassi di formare una band. Ci riuscii con un gruppo di amici con i quali si condivideva la stessa voglia di “giocare” con i suoni, di produrre qualcosa che fosse nostro, di andare alla scoperta del nuovo in musica ma anche di approfondire la conoscenza di noi stessi attraverso di essa”.

Questo è un concetto affascinante: la scoperta di sé attraverso la musica.

“Sì, per me è sempre stato così. Riflettendoci oggi, è come se ci sia sempre stata una parte in me che anelava al suono e alla musica perché sentivo che mi avrebbe fatto incontrare me stesso, intendo la mia natura autentica, quella più profonda. Quindi è sempre stato fondamentale fare musica e proseguire la scoperta, indagando sempre di più il mio io meno in evidenza; non è facile da descrivere questa sensazione, spero di esserci riuscito”.

È stato difficile portare avanti questa visione senza cedere alle lusinghe di produzioni più edulcorate?

“Devo dirti la verità, non è stato mica facile! Ad un certo punto della mia carriera l’ambiente mainstream o chiamalo pop, se preferisci, mi ha fatto la corte. Ne ero anche affascinato, non te lo nego, però allo stesso tempo decisi di non cedere e oggi so dirti il perché in modo più lucido. Il motivo riguarda proprio la struttura delle produzioni diciamo “commerciali” che tendono a stufarmi subito, non riesco a goderne appieno perché diventano sterili dopo qualche ascolto, le trovo fini a se stesse. Non sto criticando chi si confronta con il genere, non è mia intenzione, ma semplicemente non ritenevo e non reputo nelle mie corde questo tipo di espressione. Quindi sono rimasto sul mio cammino; so di aver fatto bene perché è necessario che ciascuno indaghi il proprio ambito elettivo, senza paura, senza freni”.

È questa idea di libertà che ti ha portato a fondare negli anni ‘70 assieme a Walter Majoli e ad Antonio Cerantola gli Aktuala?

“Sì, a diciott’anni assieme a Walter e Antonio, che era un mio amico già ai tempi delle medie, fondammo gli Aktuala proprio con l’intento di portare avanti una ricerca sonora che andasse al di là di quella che era la concezione musicale che andava in voga al tempo. Già la formazione era anomala perché era senza basso e senza batteria, forse ancora oggi una band così sembrerebbe fuori posto (ride ndr). Non so quali dèi mi abbiano guidato in questo percorso, ma è stato sempre abbastanza naturale muovermi in una dimensione sonora che non somigliasse a niente. L’originalità sonora era proprio una mia fissazione, anche quando suonavo all’età di quindici anni lo facevo in modo strano, particolare, forse per non ritrovarmi dentro a una delle tante cover band che giravano”.

Quali erano i suoni che avevate attorno ai tempi degli Aktuala? Se non sbaglio c’era il progressive rock, la psichedelica, il free jazz ma anche il minimalismo di Steve Reich e di Terry Riley.

“Non sbagli, però il progressive arrivò leggermente dopo. Erano sicuramente i tempi del free jazz, parlo di quello cosmico di Don Cherry e Sun Ra giusto per farti qualche nome. Poi si sentiva già qualcosa dalle nostre parti circa il minimalismo che proveniva d’oltreoceano, lo avevamo percepito in qualche misura. La psichedelica è però il genere che si sentiva di più e che cercavamo di rendere personale, rifuggendo dagli esempi che avevamo attorno”.

Mi piacerebbe parlare con te del concetto di ripetitività. Trovo che nella tua musica rivesta un ruolo importantissimo.

“Assolutamente sì, per come la vedo io la ripetitività sonora rispecchia il cammino umano nella sua totalità. Pensa ad esempio alla ciclicità delle stagioni o più in generale a quella dei fenomeni ambientali, tutto muta e si trasfigura nel tempo ma nel mentre ci sono fenomeni che si reiterano continuamente. La ciclicità sonora per me vuol dire proprio non fermare la musica, riuscire a creare qualcosa che superi le strutture della forma canzone, che sono rigide e condensano un determinato umore in un determinato momento. La ripetitività invece richiede un abbandono, come quando si ascolta il rumore della risacca marina che va e viene, come se il passato, il presente e il futuro perdano i propri confini, scivolando l’uno sugli altri”.

Nella tua opera c’è molta improvvisazione. Come si concilia questa rispetto allo studio della musica?

“Questa è una domanda difficile, oggi riesco a coniugare questi due momenti sonori con più facilità di un tempo, ma è un lavoro davvero impegnativo. Credo che la musica libera o meglio “aleatoria”, come la definiva John Cage, debba essere espressa all’interno di un alveo ben preciso, con un rigore che definirei “architettonico”, partendo dalle fondamenta e proseguendo con metodo e non a casaccio. Lo studio mi ha dato una mano in questo, perché ho acquisito le tecniche compositive tradizionali che poi possono essere lasciate correre, ma sempre all’interno di un determinato binario. L’improvvisazione pura, probabilmente non esiste o comunque non porta a niente, deve essere una libertà “composita” che abbia una direzione o, meglio, un fuoco verso il quale dirigersi”.

Questo ragionamento ci porta al progetto “Telaio Magnetico” che hai condiviso a metà anni ’70 con Franco Battiato, Juri Camisasca, Terra Di Benedetto, Giacomo Di Martino e Roberto Mazza. Un super gruppo dedito alla ricerca sonora e all’improvvisazione.

“Eravamo innanzitutto grandi amici, soprattutto con Franco e con Juri, e questo nostro rapporto facilitava tutte le dinamiche del gruppo. Avevamo in mente gli stessi mondi sonori e ci si comprendeva ad occhi chiusi. Ci vuole anche molta umiltà e rispetto nei confronti degli altri componenti di una band di questo tipo, ma si trattava davvero di un’intesa totale dal punto di vista emozionale, intellettuale, musicale ed esecutivo. La nascita del gruppo, poi, è stata rapidissima – lo abbiamo messo in piedi appena tre mesi dopo aver espresso la voglia di farlo. È nato tutto dalla necessità espressiva di fare cose diverse, esattamente come nel caso degli Aktuala”.

Parlami del tuo rapporto artistico e di amicizia con Battiato.

“Eravamo innanzitutto molto amici. Ci si vedeva tutti giorni, si finiva a studiare assieme, a suonare, a sviluppare idee ma condividevamo anche gli aspetti più ordinari della vita – le cose comuni insomma, quelle non riguardanti la sfera musicale. Ci confrontavamo sulle letture, i film, si disquisiva su tutte le forme d’arte in generale e quindi inevitabilmente metabolizzavamo tutti questi stimoli che si rivelavano importantissimi nel momento in cui sul palco dovevamo esprimerci. A un certo punto non passavamo più inosservati e questo ci ha dato diversi momenti di ironia, di divertimento. Creavamo dei siparietti divertenti quando la gente ci riconosceva (ride ndr)”.

Arriviamo al primo lavoro a nome Lino Capra Vaccina, Antico Adagio. Raccontami il percorso che ti ha portato alla sua produzione.

Antico Adagio è nato dal proposito di cercare un mio personale linguaggio compositivo e sonoro, quindi dalla ferma intenzione di voler rappresentare musicalmente ciò che ero io al tempo. Subito dopo il periodo del Telaio Magnetico mi sono dedicato completamente alla composizione e poi nel ’78, dopo due anni di ricerca, sono riuscito a portarlo alla luce. Quello che volevo era proprio sganciarmi da qualsiasi somiglianza sonora. Poi è chiaro che le affinità sonore ed elettive ci sono e ben vengano, soprattutto se lavori in determinati periodi storici in cui la musica esprime determinate possibilità, ma quello che mi interessava era proprio esprimere un linguaggio musicale che fosse mio. Credo di esserci riuscito (ride ndr)”.

Quando si è in fase di scrittura di una pietra miliare come Antico Adagio si ha il sentore che si sta facendo qualcosa di importante? Oppure la consapevolezza arriva soltanto dopo?

“Sarò sincero: dentro di me ero convintissimo di essere sulla strada giusta. Credo che il disco sia atemporale, trasuda di qualcosa di “altro”. Oltre a percepire la sua grandezza, speravo che potesse davvero essere accolto nel modo giusto. Sai, chi ascolta deve essere sintonizzato sul disco, deve avere un approccio corretto per goderne appieno. All’inizio non trovai attorno a me molte orecchie attente, avevo avuto dei consensi però non nel modo che mi sarei aspettato; era forse un disco troppo avanti rispetto alla sensibilità comune di quegli anni. Per questo motivo ci misi anche un bel po’ a farmelo produrre. Poi con il tempo c’è stata una riscoperta più collettiva, come se lo stesso pubblico si fosse, come dire, evoluto nel frattempo o, meglio, abituato all’ascolto di suoni diversi”.

Infatti nel 2014 è stato ristampato e abbiamo avuto anche un regalo inaspettato, parlo del recupero di inediti al tempo non pubblicati.

“Oltre alla ristampa del disco originale,o ho avuto la possibilità, finalmente, di pubblicare tutti quei pezzi che erano rimasti fuori per motivi economici.Al tempo era già difficile stampare un LP, figuriamoci un doppio. Quei brani li considero una prosecuzione naturale del discorso iniziato con il mio album di debutto ma, ironia della sorte, sono venuti alla luce solo nel 2014. Ci provai diverse volte a farmeli pubblicare negli anni ’80, ma poi qualcosa andava sempre storto”.

Proprio in occasione di questa stampa si è rivelato un ammiratore illustre, Four Tet, che ha dedicato ad Antico Adagio parole bellissime. Lo conoscevi?

“Non conoscevo Four Tet e quando ho letto le sue parole, che mi hanno fatto molto piacere, ho iniziato ad approfondire la sua musica. Ha un approccio al suono che sono riuscito a comprendere; ascoltando la sua musica ho capito anche cosa possa aver trovato di interessante nella mia. Io continuo ad ascoltare la musica sperimentale dell’oggi, ci sono correnti diverse che trovo ricche di spunti, penso ai field recordings, al noise o al drone. Per fortuna per me c’è poca elettroacustica, quindi poca concorrenza (ride ndr)”.

Nel 2015 hai pubblicato il tuo ultimo disco Arcaico Armonico. Si ripetono le due “A” come in Antico Adagio e si approfondisce lo studio sul suono, sulla frequenza e sulla vibrazione.

“Mi fa piacere che te ne sei accorto! La “A” è una mia costante, anche il titolo del mio album del 1992 Attesa si inserisce in questo discorso. La citazione quindi è voluta, seppure non forzata, ed è qualcosa che mi riporta molto indietro nel tempo. Anche il nome Aktuala lo scelsi io dall’esperanto e inizia per “A”. Quando nel 2014 mi sono rimesso a studiare con l’intenzione di produrre un nuovo disco ho voluto riprendere a piene mani la ricerca che avevo interrotto, per dargli una nuova spinta propulsiva. Guardando avanti ma mantenendo fermo un fattore che considero importante, il rallentazionismo, che si pone in antitesi con il più noto accelerazionismo che va tanto di moda oggi”.

Chi è Lino Capra Vaccina oggi?

“Direi che sono un compositore che lavora sulla ricerca sonora da sempre e che porta avanti un linguaggio avanguardistico, sperimentale ma anche rispondente alle necessità dell’uomo; ecco mi piacerebbe che si dica che la mia musica accompagna il vivere dell’essere umano nella sua interezza”.

Il 3 dicembre suonerai al Varvara Festival di Torino. Il tuo pubblico non deve avere preconcetti di sorta e presentarsi solo con la sua curiosità. Senti di aggiungere altro?

“Credo che un ascolto privo di aspettative sia la condizione ideale per drizzare le antenne della propria percezione. Un’ultima cosa che posso dire a chi mi ascolta è che l’anno prossimo probabilmente uscirà qualcosa di nuovo, non posso dire di più”.

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