Live report (multiplo): Goat/Lay Llamas/Keaton Henson e altro, Londra

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Goat ensemble SI

UN PROLUNGATO WEEKEND AUTUNNALE A LONDRA

di Stefania Ianne

Goat – Roundhouse London 3 October 2014

È la fine della settimana lavorativa. Muscoli tesi e nervi a fior di pelle. Impossibile non essere tentati dalla presenza dei Goat alla Roundhouse di Chalk Farm a Londra per scaricare la tensione settimanale. Che strano ensemble sono i Goat. Scandinavi. Svedesi per la precisione. Arrivano da un posto sperduto al di là del circolo polare. Dei posti di una magia incomparabile, dove l’oscurità e il gelo l’inverno sembrano infiniti. La creazione di un gruppo musicale sembra una scelta obbligata per esorcizzare le temperature glaciali e la depressione.

Sono preceduti sul palco dai siciliani Lay Llamas, a cavallo tra l’etnia-psichedelica e la dance-hall siderale, una miscela spiritata di chitarre e sintetizzatori, voce sporadica e batteria tribale. Ad un primo ascolto dal vivo il suono traspare più ambient che psichedelico. La sezione ritmica è insufficiente. Ma sicuramente riscaldano l’atmosfera per i Goat e il pubblico sembra apprezzare. Il singolo We Are You chiude la breve esibizione, ma la ripetizione ossessiva delle parte vocale, la musica ormai spenta, rovina leggermente l’atmosfera per mancanza di originalità.

Tra l’altro l’anonimità visiva dei Lay Llamas non passa inosservata a stretto paragone con l’esuberanza dell’immagine dei Goat. Questi ultimi come da copione conservano l’anonimità della propria identità e si presentano sul palco con un miscuglio multi-etnico e molto poco scandinavo di costumi e maschere tribali per iniziare uno spettacolo memorabile per presenza scenica e intensità musicale. Il mistero creato intorno alla banda sembra intatto nonostante le valanghe di recensioni positive e la costante presenza sul circuito internazionale negli ultimi 2 anni.

Sin dalle prime battute le due voci femminili raramente si concedono una pausa nei loro movimenti tarantati e i musicisti alle loro spalle non fanno una piega mentre intavolano il tessuto musicale psichedelico per cui sono ormai diventati ormai famosi. A pochi minuti dall’arrivo sul palco il riff riconoscibilissimo di Let it Bleed scatena il pubblico ormai in modalità party. I Goat hanno iniziato ufficialmente la promozione della propria seconda produzione musicale, Commune questa volta con la forza della Sub Pop alle spalle negli USA. Il nuovo suono è maturo ed intrigante allo stesso tempo: a volte il fantasma musicale di Fela Kuti sembra essersi reincarnato sul palco,  accompagnato da un coro di streghe e dal martellante suono di djembé rituali mentre l’intera sala viene proiettata negli spazi del deserto americano con un uso esasperato dell’effetto wah wah e di organo Hammond  in una traumatica spirale atemporale. Il pubblico è completamente trippato, assisto a scene isteriche di danza innaturale mentre un paio di ragazzi scalano le colonne portanti della sala per la disperazione degli agenti della sicurezza. I Goat offrono un viaggio sensoriale totale. L’esperienza è contagiosa e liberatoria al di là dell’immagine incoerente – tra il cuore selvaggio dell’Africa più oscura e il controverso mondo musulmano – e a volte ingenua.

Viaggi musicali come Dreambuilding, Run from the Sun e Words sicuramente valgono il prezzo del biglietto.

Goat ensemble 2 SI

John Cooper Clarke Royal Festival Hall 4 October 2014

Manca la musica stasera. Non manca il ritmo. Non mancano le parole. Una serata di poesia. Una serata d’ironia.

Il tutto molto inglese. Uno humour che probabilmente non funziona nemmeno oltreoceano, o per chiunque abbia poca dimestichezza con il mondo quotidiano inglese nonostante la perfezione del proprio inglese.  Impossibile non citare l’inizio con Phil Jupitus che impersona Porky the Poet con le sue odi sul quotidiano e l’attacco frontale in rima a Jeremy Clarkson – cacciato letteralmente a pietre dagli argentini incandescenti a causa della sua ignoranza e arroganza – condiviso dal 100% della sala. Jupitus è seguito in ordine da Simon Day, che si presenta come Yorkshire’s least famous poet Geoffrey Appleton, Luke Wright e Mike Garry, in una miscela di stili e una valanga di parole, ognuno divertente e profondo a modo suo.

Tutti preparano la strada per l’ironia tagliente di John Cooper Clarke, per chi non lo conoscesse, il dottore si è fatto strada nel mondo confuso e proletario degli anni 70 aprendo per i concerti punk con la sua miscela esplosiva di parole mitragliate sulle folle violente e ubriache che popolavano i locali inglesi dell’epoca. Una leggenda metropolitana, un sopravvissuto dell’uso indiscriminato di droghe pesanti, intatto nell’aspetto fisico – la solita zazzera di capelli neri, occhiali scuri e magrezza scheletrica – nella propria etica professionale – sul palco nella settimana dedicata alla poesia nonostante la recente diagnosi di Alzheimer – nell’umore tagliente: Get Back On Drugs You Fat Fuck una delle sue ultime composizioni. Impossibile vivere a Manchester, sua città natale, senza essere un tossico, ci spiega.

Abbiamo riso e tanto e abbiamo rivissuto recitazioni mitiche di poesie come Chickentown – la versione musicale con la voce di Cooper Clarke alla fine di uno degli innumerevoli episodi della serie dei Soprano forse il momento di maggiore fama. L’Inghilterra sicuramente sarà più triste il giorno in cui Dr Cooper Clarke smetterà di presentarsi sul palco…

20,000 Days On Earth ICA Q&A con i registi Iain Forsyth e Jane Pollard  5 October 2014

Il documentario sulla vita musicale e privata di Nick Cave non poteva mancare in questo weekend londinese. Alla fine della proiezione mi sento manipolata. È l’impressione dominante. Niente sembra lasciato al caso, neppure la scelta di due registi dal carattere apparente debole o comunque dominati dalla figura larger than life di Cave.  Nonostante la musica, nonostante momenti d’intimità e d’intensità notevole, mi sento più lontana dal mistero Nick Cave. Tutto sembra troppo perfetto e la mia mente si ritrova a vagare nel nulla durante gli innumerevoli voice-over scritti e recitati da Nick Cave sul processo musicale.

Quel che traspare sia dalla visione che dalla discussione è che Nick Cave è ossessionato dalla sua musica e la sua musica ossessiva continua a conquistarmi ma questo documentario mi appare inutile. Semplicemente dissolve la magia del mondo cavernoso.

Keaton Henson – Vivaldi Four Seasons – The Oval Space 8 October 2014

Il mio prolungato weekend londinese si conclude inaspettatamente quando all’improvviso i biglietti per uno spettacolo inusuale diventano disponibili. L’ermetico Keaton Henson ha ideato l’esecuzione delle Quattro Stagioni di Vivaldi come esperienza live multisensoriale: l’olfatto ingannato dai profumi della natura mentre il suono di un’orchestra ridotta composta di soli violoncelli e il violino virtuoso di Alexander Sitkovetsky eseguono la composizione barocca; il tutto associato a delle variazioni di temperatura impercettibili per significare il cambio delle stagioni insieme a giochi di luci drammatici. L’esecuzione è preceduta da una performance estemporanea di Henson alle tastiere in una serie di pezzi dal sapore improvvisato, atmosferici ma blandi, accompagnato da alcuni componenti di Cellophony. Inutili anche gli interludi registrati alla tastiera da Henson che hanno cadenzato l’esecuzione della parte classica del concerto.

L’idea è geniale. Il progetto è ambizioso, ma l’esecuzione è povera. Il posto è azzeccato per atmosfera: un quartiere dalla forma ovale e dal sapore industriale, le sagome enormi dei tanti serbatoi del gas giganteschi che nutrivano la metropoli sono ravvicinati, si possono quasi toccare con mano. Ma lo spazio ristretto dell’ovale non consente al pubblico di muoversi liberamente come la preparazione del set avrebbe voluto. Finiamo tutti affollati su una scala industriale ad ammirare le strutture metalliche gigantesche illuminate dalla luna durante l’intervallo sotto la pioggia. L’attesa è ancora enorme nonostante la poca originalità della monolitica performance in miniatura di Henson. Per il resto, nonostante la virtuosità dei musicisti classici, ho la sensazione di testimoniare un’occasione perduta, una magia mancata. In fondo un progetto narcisistico ma povero in contenuti, povero in sensazioni. Un peccato.

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