Intervista: Fritz Da Cat

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di Marco Verdura

Veloce premessa del direttore: Marco Verdura è un caro amico, un bravo collega e un discreto vicino di casa. Mesi fa, sotto Natale, andando assieme in tram a Cinisello Balsamo parlammo di tutto un po’. Compreso il fatto che Fritz Da Cat – suo cugino, con tanto di stato di famiglia, prime mover del rap italiano – stava preparando un disco nuovo, dopo anni di silenzio. Notizia. L’album esce in questi giorni. E perciò abbiamo chiesto a Marco di fargli un’intervista. Ma da cugino. Eccola.

Certe volte i familiari di un musicista sono tra quelli che conoscono di meno il suo lavoro. Se ne devono parlare li senti subito semplificare imbarazzati: “Fa musica”. Questo almeno è quello che capita nella mia famiglia. Che poi è anche quella di Fritz Da Cat, produttore musicale tra i più conosciuti alla fine degli anni 90, scomparso dai radar dell’hip hop per 13 anni e ora pronto a tornare sulla scena. Il concetto di “ritorno” piace molto ai giornalisti ma lascia interdetti i parenti. Per dire, mia madre, l’altro giorno mi ha davvero chiesto “ma dov’era andato?” Quest’intervista parte proprio da una serie di ricordi domestici.

Perché la musica? A casa nostra non se n’è mai sentita molta e di certo mettersi in mostra non è mai stato incoraggiato: un fratello di nostro nonno era pittore e ceramista, recentemente è stato pure esposto a Londra, ma in vita i parenti lo sfottevano tutti.

“Adesso va di moda parlare di pensiero laterale e penso che nel mio caso ci sia un po’ di quella componente, il voler fare cose sempre diverse da quello che vedi intorno a te. Anche alla musica non ci sono arrivato in maniera tradizionale, facendo le lezioni di chitarra per dire, ma dalla Politica o almeno da quel poco di Politica che facevo da sedicenne. Grazie a questa militanza ho scoperto le Posse, allora io e un mio amico* abbiamo subito messo su la nostra posse, la TNT. Eravamo, i Too Nasty Team, i Troppo Cattivi”.

*l’amico in questione è Andrea Rasoli, regista del primo videoclip di Fritz, La Famiglia, e più avanti fondatore di Vice Italia

Ho recuperato la foto di copertina di quell’album. In una conversazione da giovanissimi mi avevi detto che quel disco lo avevi “rinnegato”: in che senso?

“Perché già il fenomeno delle posse aveva poco spessore musicale di suo, noi da sedicenni avevamo fatto una cosa ignorante e annacquato anche quel poco di buono che c’era. E quando dopo abbiamo capito qual era la retta via, abbiamo iniziato a vergognarcene. Questa foto era quella della demo, Reppubblica Fetente. Ripensandoci eravamo stati svegli perché avevamo trovato anche un produttore, ma eravamo più svegli che capaci”.

Radio Popolare, qui a Milano, passava la demo, vero?

“Sì, la cosa assurda è che ci passavano perché anche se musicalmente impresentabili eravamo allineati alla loro parrocchia. Infatti quella retorica lì e il far parte della squadra degli impegnati sociali mi ha stufato presto”. (Qui l’intervista s’interrompe per una decina di minuti di insulti all’indirizzo dei 99 Posse e gruppi affini).

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Il secondo ricordo “musicale” che ho di te è che a una cena di Natale si parlava del fatto che eri andato in televisione, che all’epoca era ancora una cosa grossa. Eri stato ospite di Red Ronnie su Telemontecarlo.

“Era il ’95 erano passati due o tre anni dal primo disco, mi ero messo a studiare, ad ascoltare un sacco di musica, ma non avevo ancora capito che non potevo rappare io. Per quello c’è voluto un altro anno. Quando mi sono avvicinato a Esa, Edo e agli OTR, loro hanno valorizzato il fatto che sapevo produrre bene. Non mi hanno mai apertamente detto smetti di rappare, anzi Esa mi incoraggiava. Però a un certo punto mi hanno presentato Mauri B che cercava delle basi e lui mi disse schiettamente una cosa del tipo la giornata è fatta di 12 ore, se le passi tutte a fare basi diventerai sempre più bravo, se vuoi anche rappare diventerai bravo la metà. Aveva ragione e l’ho piantata lì. Però rappare è fighissimo e per conto mio continuo a farlo ogni giorno quando produco, da solo o davanti ai malcapitati che sono con me”.

A proposito di diventare bravi, oggi ci sono le visualizzazioni ma allora come si faceva a essere riconosciuti come credibili?

“L’unico media che c’era all’epoca era ‘AL’ (rivista dedicata al mondo dell’hip hop) le legittimazioni avvenivano dal vivo, alle jam o alle battle. Tu andavi, ci si sfidava e la gente traeva le sue conclusioni. Era molto importante anche il girare l’Italia e beccarsi in giro, che è un approccio che ho mantenuto anche per questo nuovo disco. La gente è iperconnesa ma io tengo a trovarci faccia a faccia piuttosto che mandare una mail. Rispetto al discorso di come si capiva chi era bravo, all’epoca gruppi come i Radical Stuff diedero un grande input a uscire dalle dinamiche del possettarismo e a concentrarsi sulla ricerca di uno stile e poco a poco il metro di giudizio è diventato quello”.

A questo punto gli ricordo un episodio che mi aveva raccontato molti anni fa: aveva dato delle basi ai Flaminio Maphia e loro l’avevano chiamato tutti gentili e gli avevano detto di rimandarne anche altre, ma poi non avevano agganciato bene e li aveva sentiti dire che in realtà non gli piacevano per niente. E non riusciva a spiegarselo.

(Ridacchia) Sì sì, può succedere, per esempio c’erano un sacco di amici che mi dicevano di non mettere Joe Cassano e Fabri Fibra nel mio disco. Perché erano diversi da quello che si faceva all’epoca e non piacevano. Però se c’è una qualità che penso di avere è quella di capire il bello un po’ prima della media e quando ho sentito Fibra non è che mi dicevo questo spaccherà, però mi veniva da chiamarlo”.

E così sono arrivati i dischi. I primi due (Fritz Da Cat e 950) sono state compilation in cui eri tu scegliere gli artisti. Di solito di un pezzo rap si conosce chi canta e non chi ha fatto la base, tu invece hai messo mc e produttore sullo stesso piano. Sei stato il primo?

“In Italia direi di sì, siamo usciti contemporaneamente io e Dj Enzo. All’epoca in America c’era un giapponese, Dj Honda, che aveva fatto un album così e aveva avuto un sacco di successo, per questo avevo pensato di farlo anche io.

Quei dischi sono emblematici di quello che vuol dire per me fare il produttore. Un po’ come fare il regista, non ci sono solo fare le basi, bisogna confezionare il film: scegliere gli attori, creare uno stile, gestire tutto il progetto. Una cosa molto faticosa che due anni dopo mi aveva esaurito, infatti l’ultimo disco (Basley Click) l’ho fatto solo con Fabri e Fede con cui in quel periodo eravamo molto in sintonia”.

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Inverno ’99, tornavo da scuola e la metropolitana a Milano era tappezzata di adesivi con la tua faccia.

“Degli amici erano stati a Parigi e mi avevano detto che era ‘distrutta’ da adesivi di gruppi rap. Così per l’uscita di 950 avevo fatto stampare 50k di volantini con la locandina del disco (disegnata tra l’altro da Dee Mo, storico mc dell’Isola posse) e con mio fratello e altri li avevamo attaccati a Milano, Firenze, Roma e Napoli. A Milano una sera avevamo  tappezzato la Centrale così tanto che i carabinieri ci hanno inseguito e ci hanno fatto staccare tutto. Ancora adesso ogni tanto mi capita di andare a casa di qualcuno e trovare un adesivo di 950“.

Adesso questa domanda ha perso di significato, visto che basta un computer portatile. Ma allora dove facevi la musica?

“I primi due sono stati dischi da camera, nel senso che li ho fatti in camera mia, con i miei campionatori il Roland prima e il 950 più avanti e le stesse casse che uso ancora. Poi mi sono preso uno studio in uno scantinato in zona Paolo Sarpi, qui a Milano, accanto a un ristorante cinese. Era un posto totalmente inadatto, con la muffa, umidissimo. Era stato prima clinica per aborti clandestini, poi bisca, poi cucina del ristorante. Però è diventato il punto di ritrovo di tutti noi, io, Fede, Dumbo, Fabri Fibra, alle volte c’erano anche trenta- quaranta persone. Quando passava un nostro amico modellaro vedevamo che le sue modelline erano divertite e affascinate da quel posto”.

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Sono stati i “bei momenti” di cui parla Fabri Fibra nella canzone che c’è nel tuo nuovo album?

“Credo di sì”.

E allora perché dopo Basley Click hai smesso?

“Ho smesso di avere voglia”.

Ancora oggi ci sono due pagine di Yahoo! Answer dedicate alla domanda “Che fine ha fatto Fritz Da Cat?” Tra le risposte si va da cose come “se n’è andato e ha fatto fortuna” a “fa l’imbianchino ed è molto depresso”, è il telefono senza fili. Qualcosa di vero c’è, nel senso che ha creato un marchio di bombolette spray, ha iniziato a vendere in tutto il mondo e a girare parecchio. Credo sia stata una faccenda avventurosa, soprattutto all’inizio, a un certo punto lo ricordo in missione a Hong Kong a cercare una nuova linea di pennarelli.

Sono passati gli anni ed è iniziato un periodo in cui pensavo mi pigliassi per il culo. Come la storia della patente. Tu non ce l’hai, ogni tanto butti lì che la vorresti prendere però di fatto non succede mai. Dopo un po’ che mi parlavi del disco nuovo (sono almeno cinque anni) credevo che sarebbe andata a finire così.

(Ride) Sì ce n’è voluto. Ho continuato a mettere i dischi ogni tanto, poi cinque anni fa ero ad Amsterdam con Shablo mi è tornata voglia di fare musica, ma nel frattempo era cambiato tutto, ho dovuto imparare a usare le nuove macchine. Ho ripreso a poco a poco, dando le mie basette in giro (per gli album di Gue Pequeño, Fedez, Ensi, Clementino) e poi è arrivato questo disco”.

Questa è la playlist del nuovo album. Un’ultima domanda, qual è la differenza più grande tra il modo in cui produci oggi e il passato?

“Allora il 950 era il mio campionatore, ed era una cosa che rivendicavo. Adesso non mi frega niente di quale software uso. Forse perché oggi siamo più abituati e integrati con le macchine, ma al centro della mia testa quando produco c’è solo la musica senza la mediazione del mezzo che uso per farla”.

Redazione Rumore
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