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Editoriale 347: la rivoluzione non russa

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Di Rossano Lo Mele

Qualche anno fa, in un istituto superiore specializzato in letteratura di Mosca, agli studenti venne sottoposto un questionario. Questa la domanda principale: chi è il tuo poeta contemporaneo preferito? La risposta praticamente unanime fu: Boris Ryžij. Risposta anagraficamente appropriata, giacché Boris Borisovič Ryžij è nato nel 1974 in una delle molte città russe che costeggiano i Monti Urali. Figlio di un ingegnere attivo nel partito comunista di zona e di una madre dottoressa, Boris aveva due sorelle. Trapiantato in un’altra città per via del lavoro del padre, Boris decise di seguirne le orme anche negli studi, conseguendo una laurea in ingegneria a pieni voti. Tuttavia la sua passione principale non coincise mai con le miniere locali che avrebbero dovuto inghiottire gran parte della sua vita lavorativa, bensì con la poesia. Già da adolescente Boris iniziò a comporre versi pieni soprattutto di ciò che gli scorreva a fianco: la criminalità più o meno organizzata, il molto alcol che circolava nei bar e che lui stesso consumava in dosi massicce, la bruttezza sempre immutabile del paesaggio circostante, lo spaccio, il degrado delle periferie: architettura industriale, sedi di partito, anziani che passeggiano, fermate del bus.

Ispirato dalla poesia di un connazionale come il gigante Iosif Aleksandrovič Brodskij, antecedente a Boris di una generazione, Boris si sposa alla fine degli anni 90: dal matrimonio nasce un figlio. A cavallo tra il 2000 e il 2001 la sua mancata carriera da ingegnere e la sua vocazione da poeta sembrano però mettersi d’accordo: nel 1999 vince l’Anti-Booker Prize, fra i più prestigiosi premi di poesia russi, mente nel 2000 viene invitato a Rotterdam, dove si tiene il Festival Internazionale di Poesia.

Cosa ci porteremo dietro di questo 2020 che sta per finire? La pandemia, certo, i decreti, sicuro, la malattia strisciante, ovvio, il senso di paura e fragilità, naturalmente. Tutte le sciocchezze ascoltate e spesso scritte, talvolta pronunciate, quasi sempre con parenti, amici o gente che non conosciamo nemmeno. Ma tutta questa roba è la superficie. Sotto c’è l’imperfezione della solitudine, il tempo che non passa mentre al contrario l’orizzonte temporale si restringe. I progetti che naufragano, per tanti, quasi tutti. E che inabissandosi si mangiano la forza di volontà, perché l’isolamento fa anche questo. C’è una canzone che dice più o meno così: “Vivere è duro e scomodo, ma almeno morire è comodo”. La canzone s’intitola Sudno, che significa, all’incirca, “nave”. Gli autori si chiamano Molchat Doma, vengono dalla Bielorussia e quando i presentatori autoctoni li introducono trasformano la “o” di Doma in una “a”, così da suonare quasi come la parola “dama”. Li abbiamo lasciati in sospeso su queste colonne il numero scorso di “Rumore”. In sospeso perché, di fronte a una nostra richiesta di chiarimento sulle loro posizioni politiche, ci hanno fatto sapere – tramite il loro ufficio stampa – che non intendevano esporsi sul tema. Ma la verità è un’altra: nettamente più noti in Europa e nel resto del mondo che a casa, i Molchat Doma hanno più volte chiesto di poter suonare in Bielorussia. Per farlo devi presentare una documentazione completa al Dipartimento Cultura del Comitato Esecutivo della città di Minsk. Permesso che gli è sempre stato rifiutato. Ora, con la crescente popolarità, la band confida finalmente (dopo un tour mondiale già annunciato per il 2021, chissà) di poter a breve suonare anche in patria. Fra le canzoni in programma dal vivo immaginiamo non possa mancare quella sopra citata, Sudno: divenuta inaspettatamente una hit anche su TikTok, il social media più usato dagli adolescenti in questi mesi. Sorprende che un brano così scuro e dal testo così pecioso possa diventare un trend su TikTok, ma forse è proprio la platea esistenzialista degli adolescenti a poter decrittare meglio questo male di vivere. Anche perché le parole del testo provengono proprio da una poesia di Boris Ryžij. Che i Molchat Doma hanno deciso di omaggiare e ricordare in questo modo. Già perché fra qualche mese, nel 2021, ricorrono i 20 anni dalla morte del poeta: suicidio, impiccagione per l’esattezza. Gli eroi sono tutti giovani e belli, cantava un altro poeta (della canzone, ma nato a Modena 80 anni fa esatti, ancora in vita per fortuna). Gli eroi sono sì tutti giovani e belli, ma sono ancora più eroi se defunti. Cosicché, se volessimo fare della cronaca di livello discutibile e trovare il titolo già scaldato al microonde, non potremmo non notare che Boris appartiene al celeberrimo club 27 dei vari Kurt, Jimi, Amy e via dicendo. Ma no, non è questo il punto. I Molchat Doma hanno faticato enormemente, per loro stessa ammissione, a chiudere in pieno lockdown il disco appena edito: desertificati emotivamente. Il risultato artistico, tuttavia, è lì a testimoniarlo. Nell’auspicare che quanto vissuto quest’anno sia presto solo un ricordo, ci auguriamo anche che – allo stesso modo – possano da qui nascere grandi opere nel futuro che verrà.  

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