Intervista: Frank Siciliano

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frank siciliano

di Elia Alovisi

Matteo Podini, in arte Frank Siciliano, è un caso unico nella scena hip-hop italiana. Co-fondatore di Unlimited Struggle, una delle poche crew di successo del nostro paese, e sempre nominato, conosciuto e rispettato nell’ambito sia come produttore che come MC – ma, finora, mai autore di un album a suo nome. Il suo pezzo più famoso finora, Notte blu, apparve nello storico 60 Hz di DJ Shocca, annata 2004 – Quella era una “Notte senza sonno” in cui Frank era “a Bolo solo in casa / La TV passa nada mentre giù in strada c’è chi grida”. Un buio in cui lasciarsi andare sia alla riflessione che al divertimento, una tensione fondamentale tra distrazione e ragionamento. La soluzione, “La musica che mi porta al largo”. L’atteggiamento, “Calmo, seguo con la sguardo la linea della vita sul mio palmo”. Undici anni dopo, la stessa lucidità permea il suo esordio L.U.N.A. – L’ultima notte assieme.

Il ritornello del primo pezzo estratto dal disco, Il cielo come china, è un buonissimo riassunto: “Notte viene e poi vai, prendi e poi dai / Amo i contrasti che hai (Perché sono anche in me)”. Frank riflette sorridendo. Dà pacche sulle spalle liriche: “Tu quindi pensi che a nessuno importi di te / Che cosa stupida da pensare” dice Oh Boy, un conciso consiglio per vivere meglio. Buongiorno è un’alba perfetta dopo un sonno disturbato dai pensieri: “Io quando ho il fiato sul collo è proprio là che non mollo / Poi mi desto dal sonno e sei qui”. E ancora, “È uno spettacolo averti qui nel letto con me”. La vicinanza come cura al malessere – ed è per questo che il concetto de L’ultima notte assieme può essere contemporaneamente qualcosa di splendido e terribile. Esempio: L’uomo allo specchio, uno dei pochi brani in cui Frank è totalmente solo: “Lentamente te ne vai mentre tutto scivola via / E tu nemmeno lo sai”. Pile di libri sul comodino, e “Quell’affannato cercarsi tra le righe / È un modo per sopperire al nodo che non sai esprimere”. Ma dal basso ci si rialza, ci si crede ancora. Grazie agli amici veri che fanno capolino tra le tracce (c’è praticamente tutta Unlimited Struggle), grazie a una luna ispiratrice e protettrice.

La barba di Frank è bianca e grigia, i suoi occhi azzurrissimi. Il tono della sua voce non cambia tra quando canta, rappa o parla – sempre leggermente melodioso, cullante. Lo abbiamo incontrato a Milano, sorridente, nello splendido momento dell’abbiocco post-pranzo.

Perché ci abbiamo messo così tanto?

Fondamentalmente siamo partiti con Direzioni opposte, che infatti è stata poi inserita nel disco. Sono un po’ di anni fa, forse un bel po’ di anni fa. È tutto partito da lì, poi si è un po’ bloccato.

Che cosa è successo?

Quel video colpì molte persone, e andò molto bene – così come il pezzo. Ma quel video poi mi ha portato realmente a farne altri cento. Da lì è partita la mia carriera da direttore, animatore, e nella post-produzione. Poi abbiamo tirato su Frame24, che è la ditta mia e di Nicola Artico, e abbiamo iniziato a fare video. Ci sono stati un paio d’anni in cui ho collaborato con Fabrizio Conte, che ha fatto video per Club Dogo e altre cose fighe – poi si è trasferito in America. Ha fatto anche un film suo, si chiama The Life. Poi lì ha fatto tot video per artisti da Busta Rhymes a Styles P, eccetera. Mi contattò inizialmente per fare la post-produzione di un video. Fatto quello ne abbiamo fatti un tot assieme. E poi sono andato io in America, e ho fatto video per i cazzi miei per artisti americani. Ho dedicato questi anni a quell’aspetto lì. Tuttora, poi, ho sempre un po’ la paura che la musica si sporchi se dovesse diventare troppo il mio mestiere. Ho sempre avuto questo timore.

Alla fine questo processo è una cosa positiva, perché sei un po’un caso unico. Una persona così tanto coinvolta e conosciuta nella nostra scena hip-hop che per anni non fa quasi niente se non qualche verso, e poi se ne esce finalmente con un album.

È pazzesco. Guarda, quando ne parlo dico, “È una cazzo di magia”. Chiaro, poi ho la visibilità perché ho sempre suonato con Mista, con Shocca, che mi hanno sempre portato live. La gente non si è dimenticata di me. Ma c’è una cazzo di magia che ha fatto sì che la gente a distanza di tot anni in cui non usciva realmente niente di mio mi chiedesse ancora, “Cazzo, ma fai qualcosa?” Ti dirò, mi hanno anche spronato un po’ i ragazzi a fine concerto. “Ma il tuo disco? Ma Notte blu?”

Pensi che sia stata Notte blu il tuo punto di svolta?

Certo, ma c’erano stati anche episodi precedenti positivi, quando eravamo ragazzini. Poi non siamo mai stati al centro della scena italiana, a Milano, ma sempre un po’ decentrati. E chiunque è fuori dal centro deve sbattersi per essere dentro. Da ragazzini abbiamo girato come dei dannati.

Tu dove sei nato?

In Veneto, ma vivo a Bologna dal 2000.

Ecco, Bologna: spesso l’hai cantata nei tuoi pezzi. Quanto ti ha dato e quanto ti ha cambiato come città a livello artistico?

Non molto, direi. Anche se è una città che cambia la vita. Non mi sento un bolognese, a dirla tutta. Così come non mi sento veneto, e non me ne frega un cazzo di essere italiano. Certo che poi la cadenza ce l’ho, ed è quella, e non mi sta neanche più sul cazzo. Un tempo, quando ero giovane, mi sono approcciato all’hip-hop con i graffiti. Poi il rap arrivò quando iniziai a fare una trasmissione radio tramite cui conobbi Mista, Shocca, eccetera. E da lì iniziai a farlo anche realmente. E non mi sento legato a una realtà piuttosto che un’altra. Sicuramente Bologna nei rapporti umani è completamente diversa da Treviso, ecco. In cui insomma… abbiamo Gentilini, quegli esempi lì, che tutti si ricordano in Italia. Te lo nominano e tu, “cazzo”. E quindi me ne sono scappato ben volentieri. Bologna è una città che abbraccia chiunque viene da fuori, tant’è che è più facile conoscere dei pugliesi che dei bolognesi. Anzi, ci ho messo un po’ per conoscere dei veri bolognesi. Che si nascondono in qualche baretto nascosto, non riconoscibile. Però Bologna rimane una città figa in una posizione figa. Un gran paese, mentre Treviso è un po’ un buco di culo. Con però le caratteristiche di una città, dove passa l’evento, c’è la mostra. Vivi e respiri.

Te lo chiedevo anche perché in Pelle, fumo e sogni te ne esci con una frase che fa “Mia madre che mi cerca ogni due per tre / Lei vorrebbe che io lasciassi Bologna”. Perché?

Allora, realmente non è così, però… [interviene Andrea, della promozione: “È una cazzata!” Risate generali. “L’abbiam buttata lì!”] Mia madre mi voleva in Sicilia. Però avrei avuto più difficoltà a viverci. Pelle, fumo e sogni è un po’ un gioco – per carità, abbastanza serio.

Non sembra troppo “seria” perché unisci il personale alla politica. E poi è l’unico pezzo del disco in cui vai più su questioni sociali.

Sì, mi spaventa un po’ perché si rischia sempre di cadere nel generico, nella banalità. Realmente è così, perché come cazzo fai ad affrontare il discorso? È più facile che cinque parole ripetute all’infinito siano più forti di un testo pazzesco, lunghissimo, incredibile in cui spieghi tutto. Però io non sono in cattedra quando sono al microfono. Sono esattamente come te, ti do le mie impressioni ed è quello che voglio da te. Le mie sono chiacchiere da bar. Però un bar figo. (Sorride)

Sempre in quel pezzo parli di un “Fratello che sta documentando nel sud”.

Mio fratello è regista anche lui, è documentarista. La tematica principale su cui lavora la sua società è la migrazione. Poco fa è andato in Bolivia a fare un documentario sull’acqua. È tutto incentrato su quel tipo di tematiche, e quindi in questo mio viaggio vedevo mio fratello che va a vedere che cazzo sta succedendo lì. Insomma, è un viaggio in cui di base si parla del rapporto che ho io con il paese Italia, le sensazioni che ho io da artista. O da uno che ci prova, o da un artigiano con delle velleità artistiche, come si preferisce.

C’è qualcosa di suo online?

Lui si chiama Mauro Podini. La società si chiama Helios. L’ultima sua cosa uscita si chiama Tutti Frutti, parla dell’immigrazione a Bolzano, adesso è basato lì. La tematica è l’immigrazione, come sono cambiate le cose. Va a vedere la persona di colore che in realtà è un professore ma che viene trattato come, insomma… Una volta c’era il terrone, adesso il terrone è più integrato e fa la parte di quello che invece punta il dito sugli altri che adesso arrivano. Insomma, come cambiano i tempi, queste puttanate qui di cui poi siamo tutti vittime. Spesso puntiamo il dito su una realtà che è sfigata quanto la nostra, sbagliando sempre. Sempre con le spalle a dove dovremmo guardare.

Hai sempre avuto la notte come musa, e il tuo nuovo disco si chiama L.U.N.A. – ti senti una persona notturna più che diurna?

C’è una magia tutta particolare. Già il fatto che la notte non ti arrivano delle mail, non devi lavorare – è già un’altra cosa. E poi nella notte si nascondono tutte queste cose, tu sei lì e lì dietro c’è una porticina che apri e c’è un cazzo di mondo che tu non sapevi assolutamente ci fosse. È meraviglioso come la gente si permette di essere sé stessa rispetto al giorno, in cui devi essere sul pezzo. Il giorno poi è una palla. (ride) Cioè, bellissimo, però dici, sì ok, sto lavorando, c’ho da fare, mi sono svegliato, c’ho l’ansia. La cena, ho cenato, quello che dovevo fare l’ho fatto, altro non lo posso fare, cosa facciamo? Chiacchieriamo, beviamoci una cosa. Realmente quando è partito il progetto di quello che non sapevo si sarebbe chiamato L.U.N.A. l’ho sempre pensato molto notturno. Ancora di più forse di quello che è adesso. Realmente poi è un po’ cambiato. C’è un Buongiorno. Però la magia è lì.

A parte la luna hai una musa che ti ispira nello scrivere?

No, direi di no. La musa è la bellezza. Non quella oggettiva, ma quella soggettiva.

A che cosa si ispira L’uomo allo specchio

Al tempo che passa (ride). Dalla barba bianca! Forse in alcuni punti è una delle riflessioni più stronze che faccio su di me. In cui forse mi svelo un po’ di più. In realtà a spizzicottate ce ne sono durante tutto, però voglio raccontarti tutto di me. Non voglio romperti i coglioni, voglio che in quello che ti sto raccontando ci sia anche un pizzico di te.

In La mia verità dici, “Disegnati da Miyazaki / Con gli occhi grandi e assonnati e i volti arrossati”. Come mai questo riferimento?

Bè ciao, è un sogno lui. Un sogno pazzesco. C’è stata un’occasione – a Bologna fanno un cinema estivo, e hanno fatto Totoro, che non avevo ancora visto all’epoca, e ci fu questa visione pazzesca. Insomma, un immaginario così semplice ma così tremendamente bello. Questi ragazzi che hanno queste movenze sempre morbide, pazzesche, anche questi personaggi che ritornano. Conan e Lana, sono sempre loro, quei due/tre personaggi. Più c’è questa cosa del fatto a mano, quel tipo di cose che se ne fotte totalmente di come si fa adesso la grafica animata ma che mantiene intatte tutto quel tipo di professionalità e studi che si sono fatti tanti anni fa. Qualcosa di vecchio ma qualcosa di attuale. Ha una bellezza indescrivibile. Enon ce n’è uno che non mi piace. I film reali sono belli, ma a me piace andare al cinema ed essere portato in un posto che non conosco, dove non sono mai stato. Fammi sognare. Dopo è bello anche il film vero, no? Che esci e sei ancora scioccato, dici, “Porca puttana. Spetta che mi faccio una canna che mi passa un po’ (ride)”.

Sei arrivato prima al titolo Luna o all’acronimo che rappresenta, L’ultima notte assieme?

Aspetta, ci sto pensando. È nato lì lì. Sicuramente cercavo questa cosa – come si chiama? [Schiocca le dita] “Luna”. Facile. Non lo so cosa è venuto prima. Cazzo, non lo so esattamente. Però mi son detto, c’è il tema della notte, quindi la dualità che penso stia dietro al disco e ai suoi pezzi. Due visioni delle cose, mai una cosa precisa. Il sogno. La realtà dell’ultima notte assieme, che potrebbe anche essere una cosa… cazzo, brutta. O no? Mi piace che il tema sia aperto, che ognuno possa leggere quello che vuole. Non mi piace quando le cose sono troppo piane e non c’è niente di mio da aggiungerci. Invece anche io che non sono bravissimo in inglese, ascolto un pezzo magari non capisco esattamente tutto e a volte vado a leggermi, a dire “Che cazzo dice questo testo bene?”, e mi rendo conto di avere fatto dei sogni mirabolanti su un testo che diceva invece altre cose. Ma trovo davvero figo che tu possa chiudere i punti. Se io ho disegnato una faccia tu ci hai visto una motocicletta, insomma.

Il tuo livello di conoscenza dell’inglese ti ha mai dato problemi?

Ti dirò che a volte penso sia meglio che io non sappia bene l’inglese perché alcuni pezzi non mi sarebbero piaciuti tantissimo realmente. Poi perché alcune canzoni pop, hip-hop, hanno dei testi che forse non mi avrebbero convinto e non avrei ascoltato con quella passione. Insomma, un po’ di ignoranza a volte mi piace. Poi ovviamente se sono in America e resto a chiedermi, “Porca puttana, come si dice quella cosa?” mi sta sui coglioni (ride). E quindi mi dico sempre, lo finisco di imparare bene o resto italiano naïf che non sa tutto per bene? Credo sia anche carino così, così come mi piace non sapere tutto di un artista.

La tendenza a spiegare tutto è innegabile ora come ora, soprattutto per quanto riguarda il senso dei testi. 

Ti dirò, magari di un testo si può fare. Però della persona, dell’artista, mi sembra che si sia persa un po’ di magia. Trent’anni fa non si sapeva chi era cosa, avevi solo un disco, non sapevi nient’altro, e non c’era scritto niente da nessuna parte. E ora per ricreare quella magia mi sembra che stiamo facendo delle cose un po’ fake. Stiamo cercando di creare dei contenuti o una sfera attorno alle persone anche se in realtà non c’è la ciccia. Magari non c’era neanche allora, però almeno nessuno lo sapeva e andava bene così (ride). Quindi mi sa che si è un po’ ricercare di avere il suono analogico, notizie analogiche.

Oltre a DJ Shocca e Big Joe chi sono i produttori che hanno lavorato alla musica del disco?

Ci sono Fid Mella, L’uomo allo specchio è mia, Zonta e MadBuddy.

E quindi hai deciso di tenerla in casa.

Sì, poi si dice anche che sul primo disco non dovresti fare troppi featuring. Ma a me è venuto abbastanza naturale. Nonostante avrei potuto chiedere a chiunque in Italia di collaborare con me, ci conosciamo tutti, non ne sentivo il bisogno.

Non fare featuring è quasi un gesto originale ora come ora. Sono usciti un sacco di album di producer con mille collaboratori.

Sono scelte. Ne parlavamo quando è uscita Pelle, fumo e sogni, su cui ci sono Cali e Johnny, ed è un’operazione che non si dovrebbe fare.

Perché?

Boh, me lo diceva qualcuno. [Sorride e indica Andrea, della promozione, che era sovrappensiero. Gli spiega la situazione: “No, parlavamo di Pelle, fumo e sogni come singolo che è un po’ particolare farlo uscire… La tua idea è legge qui! Risate.] Insomma, me ne frego. Mi piaceva, e sono persone che stimo moltissimo e ascolto. I loro sono due dischi che consiglierei. Pesco in casa e mi sembra ci siano le trote migliori.

Il pezzo da cui più traspira un senso di comunanza e amicizia è Vieni con noi. Ti va di farmi una mini-geografia dei riferimenti che fai nel pezzo?

È un attimino un funky remember. Quello è un pezzo per Genius. Perché ce ne sono un sacco, cito tante piccole storie del passato. Sicuramente il Palladium, che è citato anche nel sample che ha utilizzato Fid Mella. Sono gli Earth, Wind and Fire, e loro era il pezzo di chiusura che usava DJ Ciso per chiudere il Palladium. L’ultimo pezzo, alle quattro di mattina quando accendevano le luci e tutti sapevano che se ne dovevano andare affanculo. Allora iniziavano a chiederne un altro finché non li cagavano, a meno che Ciso fosse proprio preso male e se ne usciva con un “Vaffanculo, ciao, ci vediamo la prossima settimana” (ride). Però lì abbiamo fatto due anni, avevamo la Golden Card: “Voi entrate quanto volete sempre gratis”. Noi venivamo con uno sfracello di gente, finivamo il bar, lui era contento e noi pure. Ci sono le cose della mia crew, di quando dipingevamo assieme, le canne, queste stronzate qua. Tutte le situazioni che abbiamo vissuto assieme. Non sono raccontate tutte, ovviamente. Ci sarebbe un altro disco da fare su quello.

Sempre in quel pezzo canti, “Mi dirigo verso il bar guarda caso becco Roc / Non si chiede come va, cosa vuoi, cosa bevi / Tanto lo si sa che cosa si vuole nei bicchieri”. Che cosa c’era nei bicchieri?

Eh, vodka! (ride) Vodka o rum. Sì. Noi ci scherziamo, ma poi siamo veneti e quindi ci sentiamo dire che beviamo tanto…

Perpetuiamo un po’ gli stereotipi.

Esatto. Poi faremo un gadget allegato al disco, una fiaschetta. A me fa ridere. Con scritto “Devi bere” (ride). No, no, ci sarà una grafica, di cui faremo anche una t-shirt. Siamo sempre stati affezionati al design. Shocca fece tutte le collezioni di Broke all’epoca e ora cura il merchandising di Unlimited Struggle. In più ci fa ridere, è carino insomma. Non spingo i ragazzini a bere, ecco (ride).

Che cosa pensi del livello attuale della produzione in Italia? 

Siamo in un periodo in cui ci siamo raffreddati. Va a periodi l’hip-hop. C’è stato un lungo periodo di golden age, forse, e fatto quello abbiamo fatto tutto, rimescoliamo tutto. All’americana. Esce chi ha la cosa diversa, la cosa nuova, e c’è sempre stata l’ìdea di fare la cosa nuova. A me rode un po’ il cazzo l’aspetto di avere le sound bank. C’è tutto un filone un po’ monocorda, senza passione, senza amore, freddo, rime rarefatte, che è chiaro riflette probabilmente questo periodo in cui c’è bsigno di questo. Vuoi che ti faccia qualche nome? Devo dirti che andrei a pescare nel mio team. Credo che Fantastica illusione sia il meglio del meglio. Abbia sì delle sonorità moderne ma riesca ad avere un peso, il soul, dentro. Adesso poi nei beats ma anche nelle rime, Johnny è una bestia. È moderno, molto più bravo di tanti altri che cercano di, però riesce anche ad avere dei contenuti pazzeschi. Lo stesso vale per Cali che ha fatto un disco elettronico e moderno che si chiama La malattia ma di peso, e con tanto gusto. Manca il gusto ogni tanto, mi sembra. Siamo nel periodo dell’ impatto. Vanno le batterie, va il bassone, facciamo questo pezzo così e ce lo siam portati a casa.

Una cosa che da noi non è mai successa è l’imbastardimento del mainstream da parte dei produttori hip-hop.  Guarda Mike WiLL Made-It, che è partito con Future ed è finito a fare singoli di estremo successo per Miley Cyrus uscendo dalle logiche cassa-dritta da classifica. 

Sono gli americani, cazzo. Sono loro che hanno questa cosa che la prossima cosa sarà una cosa diversa. La prossima cosa è inaspettata. Ce l’hanno nel DNA, ciò che è diverso è buono. Qua facciamo fatica. A volte è bello a volte è brutto, perché non dai neanche il tempo alla gente di capire quella cosa che hai fatto. Kanye West è un po’ così, riesce a essere fottutamente mainstream avendo un ego che dà schiaffoni a chiunque gli sia a fianco. Però non è un coglione, non so se sa sempre quello che fa ma è uno che le azzecca. Lessi un’intervista sua quando uscì Runaway, il cortometraggio di 30 minuti. Mi fece un po’ riflettere, lui disse, “Ho quest’idea della fenice che risorge”, un po’ in maniera ignorante, “Ho letto un controfiletto e mi sono fatto una storia”. Però aspetta che chiamo gente con dei coglioni così che mi finalizza il tutto. Poi c’è una modella con le tette e via (ride). Però se penso alla sua carriera dico, è un tipo che umanamente stimo meno ma musicalmente è pazzesco. Poi sentiamo le cose mediate e ci arrivano solo stronzate tue, tipo quelle degli MTV Awards, che ormai si aspettavano tutti. A me fanno sorridere come cose.

Com’è stato registare il video de Il cielo come china a New York?

Bello, è stato molto carino. Ci è venuta la paranoia, “Ma non sarà troppo il filmino delle vacanze?” Poi ti dirò, quando sei lì è esattamente così come te la immagini. Parte un deja-vu. È tutto nel nostro immaginario, da quando eravamo ragazzini. È tutto esattamente come l’hai visto nei film. È stato bello, poi io c’ero già stato un po’ di volte quindi sapevo esattamente cosa avrei trovato e quello che avrei voluto filmare. Una notte qualsiasi a New York. L’idea era facciamoci una notte un lungo giro in cui riprendiamo il tutto, e così è stato. Con l’intenzione anche che il video non sovrasti. Mi sono permesso il lusso di pensare, ma spero che poi si veda, che il video non fosse sopra la canzone ma che fosse integrato. Raccontare un viso, un espressione, che poi è quello che racconto nel pezzo. Piccole cose.

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