Intervista: Auden

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di Luca Minutolo

Nel tempo in cui la parola emocore è sulla bocca di tutti, recuperare e (ri)scoprire gli Auden è un atto dovuto. Un passaggio obbligato nella ricostruzione storiografica di un movimento emozionale nostrano che c’è, ma nessuno vuol riconoscere. Viterbesi con la mente oltreoceano e il cuore gettato oltre la staccionata Midwest, la storia degli Auden è una parabola di ordinaria sfiga comune. Muovendo i primi passi all’interno della nascente scena emocore tricolore, e condividendo palchi, sudore e lacrime con Fine Before You Came e To the Ansaphone, arrivano a realizzare un EP d’esordio come da copione. Sforzo rimasto confinato tra addetti ai lavori e puristi di genere.

Tra scazzi quotidiani, date saltate ed etichette che manifestano interesse senza troppi entusiasmi, la band di Francesco Corti, Stefano Frateiacci, Andrea Bennati e Pierpaolo Calisti si lascia andare in un naturale silenzio mentre gli impegni della vita quotidiana prendono il sopravvento su tutto. Di quell’EP intitolato Love Is Conspiracy possiamo godere oggi grazie al recupero filologico che l’etichetta V4V ha messo in sesto lo scorso anno, attraverso una collaborazione con la band che ha permesso di rimaneggiare e pulire il master originale.Preludio ad un ritorno sulle scene, coronato da nuovo disco registrato con la stessa urgenza emotiva di un tempo, mitigata dall’età adulta.

Some Reckonings è la prova della maturità senza passare dal via. Una presa di coscienza attraverso piccoli trionfi e tragedie quotidiane. Ulteriore prova per una band che si tuffa di nuovo in una giungla musicale selvaggia. Decisamente diversa rispetto a come l’avevano lasciata. Di tutto questo ne abbiamo parlato con Stefano, Antonio, Andrea e Francesco, in una chiacchierata mista.

Qua sotto, l’anteprima di un nuovo brano: Rather Than Not Believe It.

Cominciamo da dove vi eravate fermati nel lontano 2002. Come mai la vostra carriera musicale ha subito uno stop così brusco, proprio nel momento di lancio del vosto EP?

Stefano: A dir la verità non è stata proprio interrotta al momento di lancio. Quel disco era stato registrato e sarebbe dovuto uscire per alcune etichette che all’epoca erano interessate. Suonavamo assieme già da un po’ di tempo, quindi l’EP arrivava alla fine di un percorso fatto assieme. Se buttiamo nel piatto vicissitudini personali e alcune sfighe sparse, tra cui concerti annullati e una demoralizzazione generale all’interno della band, abbiamo semplicemente allentato la presa, perdendoci pian piano in maniera “naturale”. In realtà non ci siamo mai sciolti. Abbiamo provato ad inserire le tastiere al posto del basso, ma l’esperimento non riuscì del tutto.

Love Is Conspiracy è stato un disco per pochi, diffuso esclusivamente tra gli appassionati e addetti ai lavori della scena emocore di inizi 2000. A parte il pressing asfissiante di Michele Montagano (deus ex machina della V4V e famoso stalker della rete, ndr), cosa vi ha spinto a realizzare un nuovo disco a distanza di così tanti anni?

Stefano: (Risate, ndr) In realtà la voglia di tornare a suonare assieme c’era già da un po’. Dopo dieci anni dalla mancata pubblicazione di Love Is Conspiracy, abbiamo deciso di metterlo su Bandcamp. Saranno i mezzi più efficaci rispetto a quelli di dieci anni fa, oppure una semplice botta di culo, ma l’EP ha avuto un attenzione sempre più crescente. Da lì abbiamo deciso di rimetterci a suonare. Abbiamo fatto un paio di prove ed è uscito tutto benissimo. Allora ci siamo detti: “Dai, ricominciamo a scrivere canzoni”. E sono uscite fuori tutte in presa diretta. Senza pensarci troppo su, in tre mesi abbiamo scritto e registrato tutto.

Mantenendo Love Is Conspiracy come punto di partenza, il vostro nuovo disco sembra decisamente più maturo e riflessivo rispetto al passato. C’è molta rabbia controllata di scuola Karate dentro Some Reckonings.

Stefano: Il paragone dei Karate ci fa estremamente piacere. Sono senza dubbio una grandissima influenza fin dai nostri esordi, così come i Van Pelt e alcuni suoni dei Get Up Kids. Ma anche altre cose prettamente indie anni ’90 finiscono inevitabilmente nei nostri pezzi. Dai Fugazi ai Pavement, passando per Dinosaur Jr e buona parte di rock indipendente a cavallo tra gli 80 e i 90.
Antonio: I pezzi di Some Reckonings sono nati molto velocemente, come se avessimo ripreso il filo di dieci anni fa, però con dieci anni di più. Ovviamente escono fuori moltissime influenze sia musicali che emotive accumulate in dieci anni di vita.

Per quanto riguarda l’approccio alla realizzazione dei testi?

Stefano: L’approccio è sicuramente diverso. I testi sono frutto di un lavoro più collettivo rispetto al passato, anche se le tematiche riguardano sempre la nostra sfera personale, ma forse più indefinite. Per chi scrive è sempre difficile spiegare i propri testi, ma probabilmente in Some Reckonings è tutto più aperto a varie interpretazioni. Magari abbiamo cercato di dare un determinato senso alle nostre parole, e poi fuori viene interpretato in maniera diversa dalla nostra. Ma va bene così, è per questo che abbiamo scelto di lasciare tutto più indefinito. Ognuno può prendere, interpretare e fare suoi i testi del nostro disco come meglio crede.
Antonio: Ci sono dei riferimenti abbastanza espliciti e personali, in cui si sente la mano del vecchio EP. Ma evidentemente siamo cambiati molto in questi dieci anni, quindi prima erano più tardo-adolescenziali, mentre ora sono storie, sensazioni ed emozioni più mature.
Stefano: Anche se forse il piglio tardo-adolescenziale ce l’abbiamo ancora.
Antonio: Allora diciamo così, prima era adolescenziale, ora è tardo-adolescenziale.
Andrea: Siamo post-adolescenziali. Dei quarantenni di vent’anni o dei ventenni di quarant’anni. (risate, ndr)

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La scelta tra lingua italiana e inglese rimane sempre una questione di lana caprina per la musica nostrana. Avete mai pensato di scrivere o riadattare i vostri pezzi in italiano? Specialmente in riferimento alla folta schiera di band affini che hanno come punto fermo l’utilizzo della lingua madre.

Stefano: In realtà ne abbiamo parlato spesso tra noi. Quando ci siamo formati, molto prima del nostro EP d’esordio, cantavamo in italiano. Abbiamo una cassetta con almeno una quindicina di pezzi cantati nella nostra lingua, che ovviamente non faremo mai ascoltare a nessuno. Alcune cose uscivano bene, altre un po’ meno. All’epoca per sentire testi in italiano dovevi per forza rivolgerti a band come i Marlene Kuntz o Afterhours, e la cosa ci scocciava molto. Quindi ci siamo buttati sull’inglese, secondo noi più facile ed efficace per trasmettere alcuni stati d’animo e sensazioni difficili da tradurre nella nostra lingua. Alcune figure, idee ed immagini che riusciamo ad evocare solo tramite l’inglese. Ciò non toglie che oggi ci sono moltissime band che stanno utilizzando l’italiano in maniera magistrale. Mi viene da pensare ai testi di Havah costruiti su immagini e continue evocazioni che funzionano maledettamente bene.
Antonio: Per me gli Auden esistono in inglese. Anche durante le discussioni che nascevano tra di noi, se avessimo scritto e cantato in italiano, avremmo dovuto farlo con un altro nome. Sono un fan degli Auden di vecchia data, mi sono inserito nella band in un secondo momento. Amo quelle canzoni, ero sempre sotto il palco per cantarlee a squarciagola. Quindi per me gli Auden devono essere così e in nessun’altra maniera.

Da un punto di vista trasversale come il vostro, che aria si respirava nella scena emocore italiana ai suoi albori? È cambiato qualcosa nella forma e nella sostanza oggi?

Antonio: Non trovo più assolutamente lo spirito di dieci anni fa. Ci sono ancora i gruppi “storici” come Raein e Fine Before You Came, così come invece altre decine di gruppi sono scomparsi dalla circolazione o defluiti in altre band. Ci sono questi ragazzini indiavolati oggi che spingono la propria musica in rete quasi ossessivamente, mentre ai tempi la scena girava in maniera molto più spontanea e umana. Vuoi per i mezzi di comunicazione, vuoi per lo spirito più ingenuo che aleggiava ai tempi, è rimasto davvero poco dell’attitudine genuina che muoveva i fili della scena emocore. Siamo fuori dalla scena, nel senso che non sappiamo nemmeno dove si trova e in cosa consiste. (risate, ndr)
Stefano: Frequentiamo ancora molti concerti, ma probabilmente una vera e propria “scena” non c’era neanche prima, a dir la verità. Qui dove viviamo noi, piuttosto, era molto più incentrato sul punk e l’hardcore.
Antonio: C’erano delle realtà cittadine, ma noi siamo cresciuti tra Viterbo e Roma a suon di concerti hardcore ed emocore. Del giro The Get Up Kids e tutta quella roba là.
Stefano: A Viterbo si respirava un aria più hardcore, spesso fortemente politicizzato, ma l’aria provinciale portava spesso a spostarci verso Roma. Altrove c’ere un gran bel giro di band e concerti che spesso ha toccato anche la capitale. Adesso a dir la verità non sappiamo nulla. Ci sono dei gruppi che personalmente mi piacciono molto, tra cui Lantern, ma vedremo tra qualche mese come si muove la scena in questo momento.

Tornerete a suonare in giro, giusto?

Stefano: Si, stiamo cercando date, anche con l’aiuto di Michele che ci guida nelle scelte e nella parte organizzativa della faccenda. Non fa altro che ripeterci “Guardate che non siamo più nel ’98. Non si fa più come una volta”, e noi allora lo lasciamo fare. Tra un po’ di mesi faremo il punto della situazione, e ci renderemo conto in prima persona di cosa è cambiato e cosa, invece, è rimasto immutato. L’approccio live sarà sempre emotivo e d’impatto. È per questo che preferiamo suonare in piccoli club o comunque in situazioni più intime e vicine al pubblico. In fondo, sono queste le cose migliori.

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