Live report: Fun Fun Fun Fest @ Auditorium Shores, Austin TX, 7-9/11/2014

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fun fun fun fest

di Mauro Fenoglio

Town Lake è il nome del bacino artificiale sul fiume Colorado che ospita l’aera verde più amata nella capitale del Texas. L’area preferita dai locali, per uscite in kayak o giri in bici all’ombra della statua di Stevie Ray Vaughan. A completamento della cartolina, il ponte su Congress Avenue, che ospita la famosa comunità di pipistrelli, e la sagoma dei grattacieli di Downtown e delle gru che continuano a tirare su nuovi condomini extra lusso. Austin sta cambiando, da anni oramai. Il prosaico appellativo “Town Lake” ha lasciato spazio al più celebrativo “Lady Bird Lake” nel 2007 e gli irriducibili slacker della prima ora hanno visto orde di californiani arrivare pieni di dollari, attirati dal conveniente trattamento fiscale e dalla crescita delle aziende dell’informatica della zona, e conquistare spazi che prima erano aree di orgoglioso non allineamento. E allora, sempre più SUV parcheggiati fuori dai club della 6th Street e lo spirito dei bei tempi forse perduto per sempre. Le dinamiche della gentrificazione, il ricambio generazionale, il mondo che tira dritto. Il Fun Fun Fun Fest (dal titolo di una canzone dei Big Boys, gloria skate punk locale di qualche decennio fa) nasce nel 2006 e si propone come alternativa di mezza stagione al carrozzone sempre più ingombrante dell’Austin City Limits. Una programmazione dedicata ai talenti emergenti del panorama alternativo, metal e hip hop inclusi. Le prime edizioni si svolgono nel piccolo Waterloo Park, dirimpetto allo stadio della squadra di college football locale, i gloriosi Longhorns, per poi traslocare nella più ampia area dell’Auditorium Shores, appunto a Town Lake. Quattro palchi a tema, tre giorni di programmazione fitta, e una gestione quasi metronomica della durata dei singoli concerti. Il tutto corredato dalla solita rilassata creatività texana. Chioschi con birre artigianali, wrestling, pista per skate e proposte culinarie azzardate. L’edizione 2014 non parte esattamente nel migliore dei modi. Il primo giorno, per disguidi di carattere informatico (nonostante i californiani…), gran parte del pubblico si ritrova a fare diverse ore di coda prima di riuscire a guadagnare l’ingresso. Alcuni non riusciranno nemmeno ad entrare. Dallas Green dedica all’affranta folla in coda la prima canzone dei suoi raffinati City and Colour, quasi a voler lenire le loro pene.

La gestione quasi militare dei tempi mette a dura prova la capacità di affinare i soundcheck. Molti riescono a trovare il passo solo nella seconda metà dei loro interventi, e non sempre in maniera indolore. I Pains Of Being Pure At Heart procedono leggeri e quasi impalpabili, con il cantante Kip Berman che fatica a far sentire la propria voce e la cugina corista, che canta praticamente per se. I Pissed Jeans sono costretti a prendere tempo con improvvisazioni di puro rumore, e dare modo al chitarrista Bradley Fry di accordare la chitarra. Il pubblico giovanissimo non se ne cura e continua a inscenare uno stage diving spensierato e giocoso che avrebbe fatto inorridire uno come Ian Mckaye. D’altra parte, non tutti sono qui per salvarsi la vita con il rock, ma per passare qualche bella ora con gli amici. I tempi cambiano. I pomeriggi riservano graditissime sorprese. Prima fra tutte, Courtney Barnett che, dall’Australia si porta tutto il bagaglio di obliquità melodiche e storie storte di scuola Flying Nun, per ricordare agli astanti come in fondo Austin sia la culla degli Slacker e di certa attitudine off. I suoi racconti di ordinaria nevrosi e la sua svagatezza illuminata, fanno molto ben sperare per il futuro. Elias Bender, voce dei danesi Iceage, sfoggia un fascino oscuro e si segnala come una giovanissima versione New Wave di Di Caprio / Mr. Grape. Scaletta incentrata sul recente ed eclettico Plowing Into The Field Of Love, ma pure spazio per la cover trasfigurata dell’Ultima Occasione di Mina. Dissonanze chitarristiche e trasporto teatrale degni di Nick Cave e i suoi Bad Seeds, sotto il cielo di Berlino. I californiani Foxygen mettono in scena un’esplosiva celebrazione glam, con tanto di coriste, lustrini e ammiccamenti unisex, fra Rolling Stones, Meat Loaf e il Rocky Horror Picture Show. Se riusciranno a bilanciare teatralità e voglia di strafare, potrebbero diventare grandi. E c’è pure il tempo per qualche piccola polemica. Mark Kozelek, qui accompagnato dai Desertshore, abbandona a tratti la fedele chitarra e spinge molto sul lato piu rock dei suoi pezzi, ma non si trattiene dal sillabare ancora una volta War On Drugs Suck My Cock, sua personale polemica verso i musicisti che, suonando in contemporanea su palchi a lui adiacenti, lo infastidiscono. Questa volta non c’è Granduciel a rispondergli, ma i Run The Jewels, che gli dedicano una sentita Suck My Dick Sun Kil Moon”, dal palco vicino. Simpatiche fellatio verbali, che non scalfiscono la serenità della giornata. E’ lo stesso Kozelek a riprendersi la scena, chiudendo con un’intensa Somehow The Wonder of Life Prevails. E poi i veterani. Lo stacanovista J Mascis inizia con Lou Barlow e i suoi Dinosaur Jr, protetto dalla sua torre di amplificatori Marshall, infilando una hit dietro l’altra, per poi affascinare con un set acustico impreziosito dalle sequenze del pedale loop e imperniato sui due album a suo nome. E poi gli impagabili Yo La Tengo che sfidano la platea texana, mostrando la classe del rumore bianco targato NY. Sette soli pezzi, in cui, come d’abitudine, i tre si scambiano strumenti e dialogano fra ritmi circolari e tensione sorvegliata. Ira Kaplan chiude con i venti minuti di Pass The Hatchet, I Think I’m Goodkind e la sua chitarra oscilla e accarezza le casse, alla ricerca dell’ultima onda di suono possibile rimasta nell’etere. L’eleganza dell’esperienza.

fun fun

Sul versante modernità, gli Alt J si presentano con un curatissimo spettacolo di proiezioni luminose in sincrono con melodie minimali, curato nei minimi dettagli, come vuole la nuova scuola britannica. Sono certamente popolari e la folla risponde affascinata dal gioco fra immagini e musica. Impeccabili sicuramente, e quasi maniacali nella gestione della presenza scenica, anche a rischio di pagare in imprevedibilità. Un successo quasi unanime, a parte per chi, con qualche capello grigio e poca voglia di novità, preferisce dedicarsi al ritorno ruspante dei Judas Priest, bellissimi o ridicoli, a seconda dei gusti. I più giovani scaldano le ugole per le First Aid Kit, due innocue sorelline svedesi, baciate da importanti amicizie con personaggi di grido quali Jack White, candido esempio della definitiva caduta delle barriere fra mainstream e indie pop. Divergenze generazionali, irriducibilità indie che cede il passo alla gentrificazione del rock alternativo. Solo uno come Isaac Brock può mettere tutti d’accordo. I Modest Mouse raccolgono il pubblico più numeroso dell’intera tre giorni. Brock e i suoi muovono da radici alternative figlie degli Husker Du e dei gruppi che ci hanno salvato la vita, e raggiungono una sintesi pop, che rischia anche spunti di cantautorato teatrale alla Tom Waits. Una sintesi perfetta. Suonano tre canzoni nuove e gli astanti saltano a tempo, mandando a memoria i testi di Float On, The Good Times Are Killing Me o Gravity Rides Everything. Una vera apoteosi e attesa che cresce sempre di più per il loro nuovo lavoro. L’ultimo giorno riserva l’opportunità di assistere all’ “Air Sex Championship”. Il nome la dice tutta e i partecipanti si danno molto da fare, per convincere il pubblico dell’assoluta veridicità delle simulazioni proposte. Austin non si fa mai mancare nulla, soprattutto se politicamente scorretto. La luna si è fatta spazio fra le sagome delle gru, quando Jeff Mangum dei Neutral Milk Hotel si affaccia sul palco, come se fosse venuto giù dalle montagne dopo un esilio di anni. Barba e capelli lunghissimi, accompagnato dai suoi fedeli compagni, guida il pubblico lungo le storie oblique di In The Aeroplane Over The Sea, fra ottoni, violini e sega ad arco. Tutti conoscono i testi dei suoi sogni inquieti e li cantano con lui e la sua banda di strada, quasi fosse l’opera da tre soldi e non un concerto rock. Cellulari vietati per specifica richiesta dell’autore e devozione totale. Il ragazzo che inghiotte gli uccellini di Little Birds, circondato da migliaia di accendini accesi, saluta e non da nuovi appuntamenti, come sempre. Un’anti-modernità quasi rivendicata con furore, che ha conquistato un paio di generazioni. Alla faccia della gentrificazione.

Intanto, è tempo di andare e rituffarsi nella contemporaneità. Non prima di incrociare all’uscita uno strano figuro con un carretto e un piccolo cartello che dice “Psychedelic Vagina Necklaces”. Letteralmente collane psichedeliche per vagine. Sparisce inghiottito dall’oscurità placida di Town Lake, prima che qualcuno abbia il coraggio di chiedere ulteriori dettagli. Keep Austin Weird, nonostante tutto.

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