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I miei Nirvana

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Kurt Cobain

A 30 anni dalla scomparsa di Kurt Cobain, Manuel Graziani racconta il suo incontro con la musica dei Nirvana

di Manuel Graziani

Il 15 giugno del 1989 usciva Bleach, il primo album dei Nirvana. Avrei compiuto 17 anni qualche mese dopo e già ero intrippato per la musica alternativa. D’estate rimbalzavo dalla casa di Luigi a quella di Nicola per ascoltare musica. Fu proprio Nicola a farmi ascoltare la cassetta di Bleach nella sua cameretta mentre fuori il sole fondeva l’asfalto. Sono sincero, Bleach non mi prese. Era musica troppo metallica e caotica per i miei gusti di allora, che poi sono grosso modo i gusti che ho ancora oggi. Per dire, preferivo di gran lunga If’n dei fIREHOSE che scoprii quella stessa estate.

Due anni dopo, ad agosto del 1991, fresco di diploma liceale, andai in vacanza a Londra con Fabrizio: un amico d’infanzia che abitava nel mio stesso palazzo, con cui condividevo la passione per la musica non allineata. Dormivamo in una camerata di un ostello, mangiavamo per sopravvivere e ci sfrusciavamo i pochi soldi in dischi (per lo più usati a 1 sterlina) e concerti. Nella capitale inglese vedemmo, tra gli altri, House Of Love, Minimal Compact, Hole e Mudhoney al The Venue e a un certo punto ci ritrovammo di fianco Kim Gordon e Thurston Moore. Nella tarda mattina del 23 agosto prendemmo il treno per Reading. La prima serata di quella edizione del Festival schierava sul palco principale il gotha del rock alternativo. Come headliner Iggy Pop, a scendere Sonic Youth, Pop Will Eat Itself, Dinosaur Jr, Chapterhouse, Nirvana, Silverfish, Babes In Toyland.

Dai Nirvana non mi aspettavo granché. E invece mi travolsero. Il loro set fu clamoroso. E doloroso. Il moicano a petto nudo e bretelle che ballava sul palco come un indemoniato, ovvero Antony Hodgkinson (o Tony The Interpretative Dancer), tour manager inglese della band già nel 1990, nonché batterista dei Bivouac e Julian Cope. Krist Novoselic, ciondolante, con i pantaloni rossi e la maglietta viola dei Dinosaur Jr. Kurt Cobain che a fine concerto prese una rincorsa olimpionica e rovinò malamente sulla batteria di Dave Grohl. Assistere a uno spettacolo del genere a 18 anni può cambiarti la vita.

A me la cambiò.

Meno di un mese dopo io e Fabrizio condividevamo una stanza nella periferia di Bologna dove ci eravamo iscritti al primo anno di università. Io frequentavo più Underground Records in Via Malcontenti che la Facoltà di Scienze Politiche in Strada Maggiore. Proprio in quel favoloso negozio di dischi vidi il manifesto del concerto dei Nirvana al Kryptonight di Baricella. Ma dove cazzo stava Baricella? Chiesi a qualche compagno di Facoltà che sfoggiava la s cacuminale. Un tipo mi disse dopo Castenaso. Un altro mi fece capire che era oltre Granarolo dell’Emilia. Il mio amico Luciano che era di Molinella mi disse che non era distante da casa sua, una trentina di km da Bologna, ma che a lui la musica alternativa faceva cagare.

Ok. L’unica era trovare un fuorisede automunito. Non ci poteva andare meglio. Qualche giorno dopo ci accordammo con Tomas, terzo anno di ingegneria, teramano come noi, di una simpatia strabordante. E con una bella Panda di colore rosso sbiadito. Non avevamo idea che quel concerto in un paesino sperduto tra Bologna e Ferrara sarebbe entrato nella storia. Era mercoledì 20 novembre del 1991. Lì dentro saremmo stati in 400 scarsi. Prima dell’inizio tra il pubblico facce guardinghe e un senso di attesa misto a spaesamento. Finché il nostro Tomas tirò fuori l’asso nella manica, aprendo ufficialmente le danze, come un Sergino Petrilli (Pietra) di pazienziana memoria. Quel concerto lo ricordo sudato, teso ma allegro (per via delle magie di Tomas) in un clima perfetto, al quale concorsero anche gli Urge Overkill come gruppo spalla. Un concerto bellissimo, letteralmente epocale, che mi fece amare definitivamente quei tre scappati di casa che, senza saperlo, stavano cambiando il corso del rock.

Non so perché non comprai subito Nevermind. Comunque l’occasione si presentò poco tempo dopo. Durante le vacanze di Natale, a cavallo tra il ’91 e il ’92, andai a trovare la mia fidanzat(in)a dell’epoca che studiava negli Stati Uniti. La prima ragazza a far battere il cuoricino punk che mi ritrovo. E nel negozio di dischi di un modernissimo centro commerciale della Lousiana presi il cd di Nevermind nel formato Long-box. Non vedevo l’ora di tornare in Italia per ascoltarlo per bene. E non vedevo l’ora che tornasse anche la mia fidanzat(in)a per ascoltarlo insieme. Magari nella mia stanzetta da fuorisede. Abbracciati sotto una coperta di flanella a quadri: negli USA comprai anche il cd, sempre in Long-box format, di Flyin’ The Flannel.

Nei sei mesi che seguirono ascoltai Nevermind a ripetizione. Ognuno di noi ha il suo personale Nevermind. Il mio è il giro di basso raddoppiato di Come As You Are che nella mia testa sonorizza le rive fangose del Red River. Il doloroso struggimento di Polly che fuoriesce da una chitarra acustica da 20 dollari. Il violoncello estatico di Something In The Way. Il mio personale Nevermind non è elettrico. È nostalgico. Riguarda la sospensione del tempo. E l’attesa.

A casa ho tutti i dischi importanti dei Nirvana. Nevermind, MTV Unplugged In New York e From The Muddy Banks Of The Wishkah su cd. In Utero e Incesticide su vinile. Su vinile ho anche il bootleg italiano Twat-A-Twat Live On Tour 1991 con su il loghetto della misteriosa Pissin’ Pussy Rex e il 7” split del 1993 coi Jesus Lizard. L’unico che mi manca è Bleach. Ancora troppo metal per i miei gusti. Nevermind non l’ho mai ascoltato con quella mia prima fidanzat(in)a. La coperta di flanella a quadri la tengo nel bagagliaio della macchina. Si è indurita ed è tutta sfilacciata.

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