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In crociera nello Spazio con gli Arctic Monkeys

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Arctic Monkeys Live 1
Credits: Rock In Roma

Anche a Roma gli Arctic Monkeys hanno sfoderato tutta la loro classe conquistando una platea sempre più affollata e intergenerazionale

di Daniela Liucci

C’è un filo sottile e invisibile che lega le stagioni degli Arctic Monkeys e il web. La storia la conoscono (quasi) tutti. Era la fine del 2004 quando un pugno di ragazzi di Sheffield, a colpi di upload su internet e canali peer-to-peer diventò la next big thing dell’indie rock britannico, arrivando a pubblicare, due anni dopo, Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not, album d’esordio che in brevissimo tempo scalò tutte le classifiche. Ed era in uno spazio racchiuso tra la primavera e l’autunno del 2022 che, tra le colonne sonore da trend per TikTok, fece la sua comparsa 505, tratto dal secondo disco (seguita a ruota da I Wanna Be Yours) proiettandoli in un nuovo livello di stardom: successo globale e transgenerazionale.

Niente più hype, nessuna nicchia indie, addio piccole venue: gli Arctic Monkeys compiono il definitivo grande salto nel mainstream. Che non significa alto tradimento o peccato mortale. Ma naturale evoluzione che non (rin)nega il loro cammino. Al contrario, rompe ogni luogo comune. La seconda tappa italiana del loro tour mondiale a sostegno di The Car – nell’inferno dell’Ippodromo delle Capannelle, location sempre problematica sotto molteplici aspetti – non fa che confermarlo. Una “fantastica serata romana”, per usare le parole di Alex Turner, in cui circa trentacinquemila persone hanno preso parte a una celebrazione, a dispetto di caldo, polvere, sudore e disagi, abbracciando con l’entusiasmo delle grandi occasioni ogni singolo mood e umore della band inglese. Circondati da una scenografia minimal-rétro che ammicca ai dancefloor dei Settanta e al futuro-visto-nel-passato dei Sessanta, quasi a voler ricreare una navicella da crociera nello spazio, i ragazzi di Sheffield ripercorrono se stessi con un gioco di perfetti equilibri tra le loro due anime: quella spavaldamente e sarcasticamente alt-rock e ruvida degli esordi e quella più meditabonda e sperimentale del passato prossimo, in un gioco di chiaroscuri, di contrasti e atmosfere, oscillando tra l’irruenza di Favourite Worst Nightmare e AM e la languida malinconia di Tranquility Base Hotel + Casino e The Car.

Si concedono senza risparmio, nello sfoggio dei riff sgargianti e muscolosi di una I Bet You Look Good On The Dancefloor o una Why’d You Only Call Me When You’re High?, nella reinvenzione di una Flourescent Adolescent e la strizzatina d’occhio ai “nuovi fan” con i due brani della “riscoperta”; nella  cinematografia caleidoscopica di una There’d Better Be A Mirrorball e la meditazione quasi psichedelica di Body Paint. Alex Turner è Alex Turner, un frontman che sa tenere il palco come un consumato professionista, elegante, centrato, magnetico nel suo incarnare allo stesso tempo l’anima ribelle e provocatoria del rocker o, in alternativa, un Tony Manero trapiantato nel nuovo millennio, e la consumata esperienza di un crooner alla Elvis Presley che intrattiene turisti in un resort sulla luna. Dalle prime note di Sculptures Of Anything Goes alla fiammata finale di R U Mine? lancia il suo incantesimo e ha tutti in pugno. E non serve chiedersi perché o se tutta questa (nuova) popolarità cambierà il corso della storia. Come canta lui stesso in Perfect Sense: “A volte, l’accaduto riesco a spiegarmelo. E ha tutto perfettamente senso”.

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