Intervista: The Dear Hunter

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the dear hunter

di Elia Alovisi

English version here

I Dear Hunter sono una band di Providence, Rhode Island, nati come il progetto solista del cantante/chitarrista Casey Crescenzo. Tutti dicono che fanno progressive rock, ma non lo fanno nel senso più usato del termine (più avanti ne parliamo bene). Vennero fondati quando, nel 2006, Crescenzo venne buttato fuori dalla sua prima band, i Receiving End of Sirens. Il loro esordio, Between the Heart and the Synapse fu una luce di originalità e massimalismo in mezzo al marasma post-HC-emo-simil-screamo dei primi anni zero in America: un concept album sull’accettazione di sé che tirava in mezzo Shakespeare una canzone sì e una no, il tutto con tre voci, tre chitarre, intermezzi, cori e parti di elettronica mischiate in mezzo. Il potenziale per un disastro c’era tutto. Ma invece no. C’erano i pezzi simil-singoli che però facevano trapelare linee melodiche, armonie e stratagemmi ad ogni momento, così come le suite da sei minuti contenenti citazioni da filastrocche per bambini che paragonavano le relazioni ad una guerra. I TREOS si sarebbero sciolti poco dopo, nel 2008, dopo un buon secondo album il cui concept – per star sempre tranquilli – partiva da una citazione di Keplero sulle note che la Terra emetteva rotando su sé stessa (mi, fa e mi, se vi interessa).

Nel frattempo, Crescenzo aveva iniziato a fare tutto da solo, pubblicando in proprio (e suonando tutti gli strumenti) Act I: The Lake South, The River North, esordio dei Dear Hunter e primo capitolo della storia del Caro Cacciatore che dà il nome alla band. Perché l’opera di Crescenzo è un concept di quelli enormi, un po’ alla Coheed and Cambria: la storia di una vita ambientata in un passato non definito, semplicemente. Con il passare del tempo, la musica di Crescenzo si è fatta progressivamente più normale: meno note, meno grida, meno stramberie. Ma in senso positivo – il vitale caos di Between the Heart and the Synapse veniva declinato nell’esperienza di un singolo, in una strumentazione più tradizionale, senza tante metafore o salti concettuali. Il suo è un prog rock nel senso più ampio di quello strettamente tecnico. Forme-canzone tranquillamente trascurate, piccoli motivi a ripresentarsi di canzone in canzone, brani suddivisi su più album e una fortissima influenza 60s come linee guida.

I primi tre atti della storia arrivarono tra il 2006 e il 2009, con i Dear Hunter che man mano diventavano una band a tutti gli effetti. Act I, raccontava la nascita del protagonista e il rapporto con la madre; Act II i suoi anni di formazione, e il suo primo amore; Act III lo scoppio di una guerra e la sua esperienza del conflitto. Poi basta. Nel senso: Crescenzo scelse di dedicarsi a progetti extra-concept: una serie di EP basata sullo spettro dei colori, un album a sé stante e la composizione di una sinfonia con l’orchestra di Brno, Amour & Attrition. Poi, dal nulla, ecco arrivare Act IV – sei anni dopo l’ultimo episodio. Ne abbiamo parlato con Crescenzo lo scorso 4 settembre, sulla panchina di un parco fuori dall’Hoxton Square Bar & Kitchen, dove i Dear Hunter avrebbero suonato il loro primo concerto di sempre a Londra.

Perché hai deciso di ricominciare a raccontare la storia del Dear Hunter?

“Avevo iniziato a scrivere un disco. Ero in questo stato di depressione estrema in cui stavo ripensando alla mia carriera, e mi dicevo – “È da un sacco di tempo che sto facendo tutto questo. Non so veramente cosa mi resta in mano per dimostrarlo.” Era da un po’ che non andavamo in tour, e ho passato abbastanza tempo a casa da iniziare a impazzire. Quindi pensavo, “Che cosa dovrei fare? Dovrei fare un disco pop? Dovrei scrivere un po’ di canzoni commerciabili e lavorare con un produttore famoso? Dovrei giocare al gioco per vedere se, magari, potrei vincere?” E allora mi sono messo a giocare. Ho scritto delle canzoni e le ho mandate al mio manager, e all’etichetta, pensando che le avrei modificate in base ai loro suggerimenti. Ed è stato demoralizzante. Sono come andato a sbattere contro un muro. Mi sono detto: “Che cazzo stai facendo? Non sei un musicista pop. Non sai nemmeno scrivere pezzi pop. Non hai mai iniziato tutto questo perché altre persone avessero il controllo sulla tua creatività”. Non che fosse colpa loro, stavano solo provando a darmi una mano. Ma ti senti come una marionetta. E quanto può essere soddisfacente una vita creativa in cui sei una marionetta di successo? Anche la miglior marionetta che ci sia? Non sarebbe così bello come essere il peggior burattinaio, per dire. Comunque, colpito quel muro era finita. Ho chiamato il mio manager e gli ho detto che non volevo più andare avanti con quel progetto – “Non ce la faccio più, è terribile.” Ed era passato solo un mese. E lui, “E allora cosa vuoi fare?” E gli ho risposto, “Act IV“. È stata la reazione impulsiva che provare a diventare un cantautore pop mi ha causato. Ho voluto andare nella direzione perfettamente opposta, sono tornato ad un concept. Sono tornato a fare la cosa che mi rende davvero felice.”

Quindi Act IV non è stato minimamente pianificato. Avevo anche letto delle interviste in cui dichiaravi apertamente che non era nei tuoi piani iniziare a scriverlo, men che meno pubblicarlo.

“Per molto tempo è stata la verità. Ho portato avanti questa versione anche mentre lo stavo registrando, perché non sapevo se lo avrei finito, e se sarebbe stato un bel disco. Volevo aspettare di essere sicuro prima di dire, “Sì, Act IV sta per arrivare”. Onestamente, dovevo solo rimettermi a fare quella cosa che mi dava, e mi dà, la carica. Migrant è stato un disco che avevo bisogno di fare, così come The Color Spectrum. Ma succede tutto in modo naturale, anche se gli eventi che hanno portato a questo album sono stati caotici e drammatici. Sono terminati in una luce perfetta che mi ha detto, “Iniziamo Act IV“. E da lì sapevo che era il momento giusto.”

Com’è stato riprendere il controllo del personaggio-Dear Hunter dopo sei anni di pausa? E, dato che hai scritto la storia nel 2006, com’è cambiato il Casey di dieci anni fa rispetto a quello di oggi?

“Il Casey di oggi è completamente diverso, e questo ha un impatto sul disco, esattamente come dovrebbe essere. Quello del Dear Hunter è un concept in evoluzione. Inizia con un bambino e prima o poi dovrà finire con una persona alla fine della propria vita. Quindi, quello di cui sento la necessità è scrivere questi dischi man mano che invecchio. Il lasso di tempo più importante, per me, è quello tra il terzo e il quarto atto. Act III mi ha portato al limite a livello emozionale, fisico e creativo. E se mi fossi messo a scriverne subito il seguito non sarei stato sincero. Ora, dopo essere passato attraverso un sacco di relazioni finite – tra cui un divorzio – e dopo aver visto così tanti posti nel mondo, e tutto il resto, ho percepito la mia nuova esperienza. La mia vita è più ricca, grazie sia al dolore che al piacere. E questo mi permette di scrivere musica di cui mi sento sempre più sicuro. Invece di farmi coinvolgere dalla finzione posso continuare a imparare, a provare esperienze, e pescare da lì dentro per scrivere una storia più sincera rispetto a quella che potrei scrivere con la mia immaginazione. Perché tutto quello che c’è nel concept è una versione romanzata della mia vita. Per dire – in Act II il protagonista si innamora di una prostituta. Non che mi fossi innamorato di una prostituta, ma mi sono innamorato di una persona che ha avuto su di me un effetto così negativo che io ho voluto demonizzarla. E quindi le ho dato della prostituta, ed è una cosa molto amara da fare. Se dovessi scrivere Act II ora sarebbe un album molto diverso. Questo è il momento giusto per Act IV, perché il punto a cui sono arrivato nella mia vita è in perfetto parallelo con le tematiche che la storia deve affrontare. Il lasciarsi dietro certe amarezze. Farcela”.

Facciamo un riassuntone della storia per chi non la segue dall’inizio. A quanto ero rimasto, Act III vedeva il protagonista partire per la guerra dopo aver provato un amore andato piuttosto male. 

In Act III il Dear Hunter va in guerra ma, soprattutto, conosce una persona che scopre poi essere suo fratello. Incontra anche suo padre per la prima volta, e questo lo colpisce, lo riempie di risentimento più che altro. Suo padre e suo fratello muoiono entrambi in guerra, ma prima di andarsene il fratello gli dà il compito di tenere i contatti con tutti i suoi cari – la sua ragazza, sua madre, i suoi amici. Lui ripensa alla sua vita, la paragona a quella di suo fratello – sono identici, e quindi decide di prendersi la vita del fratello fingendo di essere stato lui a morire. In Act IV, che inizia molti anni dopo, il protagonista torna ad una vita normale nella sua città come una persona nuova, convinto di poter fare molto di più e che la sua vita migliorerà. L’album racconta i suoi successi e insuccessi in tutto questo, parla delle sue interazioni sia con persone nuove sia provenienti dal suo passato, e del suo tentativo di far funzionare questo stratagemma”.

In Waves, il primo singolo estratto dal disco, canti: “Pensavo di sapere cosa fosse l’amore / Ma era solo un’onda che si infrangeva su di noi”. Non sapevo che avessi avuto un divorzio, quindi mi chiedo – c’entra qualcosa? 

“Non voglio dare una visione onnicomprensiva dell’amore in senso negativo. Waves è una sezione trasversale sia per me che per il protagonista, nel senso che racconta la desensibilizzazione nei confronti dell’amore. Diventa sempre più difficile convincerti dell’esistenza dell’amore. Dopo troppo tempo, il tuo cuore grida “Al lupo! Al lupo!”. Ti trovi in una determinata situazione, ti senti appassionato, è come se fosse la fine di tutto – in senso buono: pensi che non dovrai più pensare all’amore. Eri lì, ed eri lì per sempre. Poi ti tirano via il tappeto da sotto i piedi ed è come se dovessi ricominciare da zero. Quella parte del testo parla di un primo amore, e di come ci si sente quando questo cade a pezzi. La cosa migliore che puoi fare, penso, è ovviamente prenderla come una lezione. Ma in questo caso è più il fatto che il protagonista ha sbagliato, e a volte anch’io ho commesso degli errori credendo che se un amore era fallito allora l’amore non esisteva. E pensavo di avere capito tutto, ma si è rivelata essere solo una sensazione temporanea. Non vedo comunque necessariamente l’amore sotto questa luce, è che vedo un’amarezza nell’amore in quanto incapacità di convincere te stesso che quando qualcosa fallisce è perché tu non sei stato abbastanza bravo. O perché non te lo sei meritato. Nel contesto della storia, il protagonista vede l’amore come qualcosa di passato, qualcosa di irreale, quindi considera le sue relazioni future come qualcosa di strumentale più che altro. Quando in realtà è un’esperienza incomprensibile che condividi con un’altra persona.”

C’è un brano che inizia in Act II, The Bitter Suite (“La suite amara”, che però in inglese si pronuncia in modo simile a “Bittersweet”, e quindi vuol dire anche “Dolceamaro”), e continua ora in Act IV. Qual è il senso del pezzo all’interno del concept? Ed è stata una cosa che avevi pianificato o è semplicemente successo? 

“Questa volta l’avevo pianificato. Non che sapessi già come i pezzi sarebbero stati. Il punto è che in Act II le prime tre parti della Bitter Suite raccontano un incontro, un’esperienza condivisa con qualcuno, e queste tre nuove parti ne raccontano le conseguenze. Le Bitter Suite sono principi, momenti d’inizio, le basi degli errori del protagonista. In entrambi gli album, quei brani sono il momento in cui si getta ciecamente in una situazione che si rivelerà poi essere motivo della sua rovina.”

Qual è secondo te il valore dei concept album a livello narrativo? 

“Partiamo dal presupposto che sono davvero stupido (ride). Non leggo molto. Penso che il valore della narrazione dipenda dalla storia. Alcuni scrivono storie di basso livello e va bene così, c’è bisogno anche di quelle storie. Il punto è che ogni canzone racconta una storia. Il discorso va fatto principalmente per il pop, perché la maggior parte degli artisti che fanno pop non scrivono i loro pezzi. Stanno solo raccontando la storia di qualcun altro che l’ha scritta per loro. Io ho una morale da rispettare nei confronti della storia. Ed è sentita, ed è organica. Non è questione di farmi grosso per il fatto che sono riuscito a scrivere un concept, non è questione di far prendere bene gli altri. In fondo, un concept è solo un metodo per raccontare una storia così come una singola canzone. Ma per me è il modo migliore in cui riesco a comunicare i miei pensieri e i miei sentimenti, quello che mi viene più naturale e quello in cui posso sentirmi di stare dando il mio meglio. Penso quindi che i concept siano una splendida fondazione per i cantautori e gli scrittori che vogliano creare qualcosa che vada oltre a quello che si richiede solitamente a un ascoltatore o lettore, qualcosa la cui morale sia più grande della singola storia, qualcosa le cui idee siano più grandi della singola storia. Una canzone può spaccare il mondo, essere qualcosa di maestoso, ma ha sempre la dimensione di una sola canzone. Con un pezzo da 3000 ore potresti raccontare la storia dell’universo giorno per giorno, ma con tre minuti e mezzo puoi arrivare solo a un certo punto.”

Quali sono alcuni degli album che hanno marcato questa tua convinzione?

California dei Mr. Bungle. Il secondo album dei Coheed and Cambria, In Keeping Secrets of Silent Earth: 3 è uno dei miei preferiti. Sgt. Pepper’s doveva essere un concept ma ci è arrivato solo a metà, ma resta uno dei miei album preferiti di sempre. Un altro classico è Smile di Brian Wilson e, in particolare, è un album che quando ho sentito per la prima volta è stato come una luce che si accendeva. L’ho sentito quando ero ancora nella mia band precedente, e fu quel disco a farmi schioccare qualcosa dentro, a farmi legare così tanto alla forma-concept. Mi ha fatto capire che un concept non deve essere un album prog rock di 70 minuti, non deve essere qualcosa di meccanico. Smile è un album da cui trapela un enorme talento musicale ma non necessariamente una grande prodezza tecnica. Ma il modo in cui scorre, il modo in cui certi motivi vengono stabiliti e poi manipolati, il modo in cui le canzoni si susseguono, l’assenza di una tradizionale struttura verso-ritornello-verso-ritornello-bridge-ritornello – ecco, è stato Smile a farmi entrare in tutto questo.

Il punto è che fare prog rock non dovrebbe essere necessariamente un tentativo di ripetere chessò, gli Yes o i Dream Theater.

“Esatto. E secondo me molte persone si perdono qualcosa quando vedono definire una band come “prog”. Non capiscono che il concetto implichi semplicemente una progressione, e tutta l’arte dovrebbe essere progressiva.”

Tra l’altro sono felice che tu abbia menzionato i Beatles e Brian Wilson dato che sento una certa influenza 60s nell’opera dei Dear Hunter. Basta ascoltare Smiling Swine.

“Un’enorme influenza. È stata la decade. Il punto di partenza di tutte le cose che continuiamo a fare. Senti ancora persone che scrivono canzoni come le scrivevano i Beatles. Senti ancora persone che cercano di riprendere Stevie Wonder, anche se erano più i primi 70s. Senti ancora chitarristi che fanno di tutto per suonare come Hendrix o Clapton. È impossibile negare l’enormità di quel periodo. È la musica con cui sono stato cresciuto, ed è radicata in me come ispirazione costante.”

A proposito di concept album: sono passati dieci anni dall’uscita del tuo unico album con i Receiving End of Sirens, Between the Heart and the Synapse. Che cosa provi ripensando a quel disco?

“È più o meno quella sensazione che provi quando guardi i disegni che facevi da piccolo e appiccicavi sul frigo. Per tutte le persone coinvolte nel progetto, è un disco immatura. Ma il fatto che eravamo insieme a farlo significa qualcosa. La vedo come musica che ho scritto dieci anni fa, e nel frattempo ho imparato moltissime cose, e mi sento molto più a mio agio con la mia creatività. L’ultima volta che l’ho ascoltato è stato qualche anno fa, quando stavo reimparando i brani per suonarli con i ragazzi. Ricordo che pensai, “Che cazzo stavo pensando? Perché cantavo così? Perché gridavo così? Perché sentivo il bisogno di suonare sempre così veloce?” Ma allo stesso tempo quell’album mi fa venire una nostalgia immensa perché riesco a provare le stesse emozioni che provavo allora. Mentre lo riascoltavo pensavo a tutte le cose che avrei cambiato, ma il fatto che non posso farlo è positivo. È giusto che non possa farla alla George Lucas e metterci tutti gli effetti speciali che voglio (ride). Ma non provo alcun sentimento negativo quando ci penso. È grazie a quel disco se posso fare quello che faccio, se ho avuto anche la minima possibilità di farcela con la musica, la minima opportunità. Quindi l’ultima cosa che voglio fare è parlarne male.”

In che modo comporre una sinfonia ha cambiato il modo in cui ti approcci alla scrittura di una canzone? 

“La differenza tra lo scrivere una canzone e una sinfonia è la stessa che passa tra il guardare un dipinto e avere qualcuno che separa ogni singolo pigmento del dipinto per mostrartene la profondità. Ha sbloccato qualcosa in me, è stato un altro momento da luce-che-si-accende. Mi sono reso conto di quanto profondamente possa spingersi la polifonia. La conversazione complementare tra strumenti e tamburi e ritmi. E il potere di un ensemble. È stato interessante trovarsi nel ruolo di compositore e non dover suonare neanche uno strumento, cosa che non avevo mai fatto prima. Mi ha permesso di scrutare molto più a fondo le mie capacità di scrittura”.

Arrivato a 30 anni, andare in tour ha ancora un peso sulla tua vita personale?

“Assolutamente sì. Non penso che nessuno, crescendo e sviluppando una propria idea di relazione, consideri parte della cosa starsene lontani per mesi. Non è qualcosa di naturale ma, detto questo, siamo tutti tremendamente fortunati ad essere qua e dovremmo esserne grati. Le nostre ragazze e mogli sono sei delle persone più di supporto che abbia mai conosciuto. Ma mentirei se ti dicessi che ogni giorno nessuno pensa, “Dio, vorrei essere a casa con lei”. Questo non significa disprezzare quest’incredibile esperienza, ma a volte è dura. Adoro viaggiare e vedere il mondo ma, dopo dieci anni, ti viene da dire, “Cazzo, sarebbe bello essere a casa sul divano a non fare nulla”. Ma non è così che mi sento stasera.”

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