Intervista: Mecna

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mecna

di Elia Alovisi

Corrado Grilli, in arte Mecna, è sempre stato – o comunque sembrato – un po’ diverso dagli altri. A sentire quella serie di brani che sono diventati il mixtape Bagagli a mano, uscito nel 2011, era difficile non rimanere sorpresi innanzitutto dalla scelta delle basi: 31/07 era basata su Avril 14th di Aphex Twin, Tuta spaziale su Feel Like Dying di Flying Lotus, Super su Loud Pipes dei Ratatat. Strumentali tutto tranne che appartenenti al mondo dell’hip-hop. I testi erano terreni, sanguigni, appassionati. C’era tutta un immaginario fatto di cibo (“Il blues del latte”, o “dei tortellini in brodo”, “Mangio lento una banale pasta al pesto”), di speranze (“Mi immergo nella calma che uso se ti combatto / A patto che possa essere l’unico che è rimasto / A sognare di tenerti in braccio”), di addii (“Quand’è che parti di preciso? Quanti giorni che hai deciso? Dove dormi? Quanto manchi?”) e un minimo di sbruffoneria-rap di quelle non odiose (“Sei un fenomeno locale, a te ti tengono per il collare / A me non mi riescono a collocare”). Tutto calibrato in modo giusto.

Disco Inverno, il suo album d’esordio, aveva le stesse caratteristiche – ma più affinate, e con molti più featuring, quasi tutti ottimamente riusciti. Andrea Nardinocchi animava La ballata dell’odio, dichiarazione per pianoforte di unicità. Ghemon coronava Kryptonite con un hook devastante. Kiave e Frank Siciliano sciorinavano rime taglienti su Più o meno. Poi un tour, delle date con una strumentazione live, e un successo sempre maggiore. A Natale 2013, poi, una sorpresa: La pagherai. Un brano uploadato su YouTube, e un cambiamento di sound: è stato il primo pezzo “cattivo” di Mecna, anche se con una certa ironia – nonostante il titolo aggressivo verranno pagate solo delle rose, comprate a un euro “dal tipo delle rose”. Ma qualcosa era successo.

Poi, un sacco di silenzio. E poi, a un anno di distanza, è arrivato l’annuncio del suo nuovo album Laska. Ancora il freddo, quindi, a quanto pare sua musa principale – “Fanculo l’estate” dice spesso prima di cantare 31/07 dal vivo. E lo stesso tono ambivalente con cui ci aveva lasciato, nuvole all’orizzonte. Insomma, le ultime parole del disco sono “Tu non raccontarmi le tue favole / che non ci credo più”. Abbastanza chiaro. Durante l’album, racconti di rotture, viaggi, donne conquistate e abbandonate. Abbiamo parlato con Corrado di come Laska si introduce nel suo immaginario, dei suoi produttori, dell’auto-tune, della Norvegia e dell’andare a vedere concerti in giro per il mondo.

La differenza più grande tra Disco Inverno e Laska, mi sembra, sia il modo in cui ti approcci. Alla positività si è sostituita la disillusione. Ho letto che hai registrato parte del disco in Norvegia – che senso ha avuto quel viaggio per te?

Da quando ho iniziato a scrivere e fare musica mi sono sempre lasciato abbastanza andare. Se ci sono dei cambiamenti a livello di scrittura sono solo delle trasposizioni di quello che ho vissuto a livello sentimentale, umano. Sicuramente prima di iniziare a scrivere Laska ho pensato di voler fare il disco che volevo, quello più opportuno in questo momento della mia vita. Cioè senza fregarmene troppo di dover fare il pezzo per il live, quello che parla di quel determinato argomento – cosa che in realtà in Disco Inverno un po’ avevo cercato di fare. Insomma, mi son detto, “voglio fare come mi va a me”. (ride) A livello di esperienze sono ovviamente successe un po’ di cose e ne sono cambiate altre, però la mia impostazione e il mio modo di vedere le cose credo che sia più o meno sempre quello. Andare in Norvegia è stato l’inizio di tutto. Avevo già un pezzo fatto, Non ci sei più, però ero in grosse paranoie, perché non riuscivo ad andare avanti. Quindi ho deciso di andarmene da qualche parte. Quindi ho detto a un mio amico e collaboratore, Alessandro Cianci, se voleva venire con me in Norvegia in un’estate in cui non avevo nulla da fare, e lui mi ha seguito fortunatamente. Abbiamo preso questo cottage a strapiombo su un lago, totalmente isolato, e lì abbiamo iniziato a tirare fuori delle idee con un po’ di beat che avevamo. Tornati in Italia avevamo una base, e da lì ho proseguito.

L’inizio di questo nuovo atteggiamento, però, penso si possa trovare in La pagherai – che è stato un po’ il primo pezzo in cui hai fatto il grosso. E la produzione era di Iamseife, che ha lavorato molto su Laska.

Appena tornati dalla Norvegia avevo già in mente il fatto di voler andare in una direzione musicale leggermente diversa. Però il fatto di aver beccato Iamseife effettivamente è stata una svolta. Abbiamo degli ascolti molto simili, e insomma, mi sono gasato.

Invece com’è stato lavorare con Yakamoto Kotzuga e Pasta degli Amari [produttori rispettivamente di 31/08 e Roar]? Non sono produttori tipicamente hip-hop.

Yakamoto, avevo avuto modo di ascoltare delle sue cose, e anche sul mixtape di Ghemon, per cui aveva prodotto l’intro. Successivamente mi sono totalmente innamorato del suo EP, quindi quando l’ho contattato lui era un fan, quindi per me è stato perfetto collaborarci. Ricordo che quando gli ho mandato il primo provino era impazzito. È stato proprio un bello scambio. Con Pasta abbiamo moltissimi amici in comune, e anche lui ha un progetto disco, i Fare Soldi – mi continuava a dire, “Ti voglio mandare dei beat, perché secondo me…” E quello che mi ha mandato all’inizio era già molto figo ma non aveva l’apertura da ritornello. Gli ho proposto di aprire totalmente, tipo togliere la batteria e far entrare dei synth, e la prima cosa che mi ha mandato era esattamente quello che avevo in testa. Poi ci abbiamo messo Patrick [Benifei, dei Casino Royale] ed è uscito il pezzo.

Passando alle canzoni: che rapporto c’è tra 31/07 e 31/08?

Diciamo che sia 31/07 che 31/08 sono cose abbastanza personali. La prima l’avevo scritta quel giorno, la seconda è una data che mi ricorda una cosa. La cosa simpatica è che la gente le ha ovviamente associate entrambe ad una perdita, ad una separazione. 31/07 lo è, 31/08 è tutt’altro. È stato simpatico vedere come la gente le ha recepite. Effettivamente nel ritornello ci sono cose che fanno pensare che il pezzo sia stato scritto in quel senso.

Ti va di spiegarmi il senso dell’inizio di Taxi, in cui te ne esci con un “Voglio fottere te e Drake”?

Oltre ad essere una cosa mia e di Iamseife è comunque un modo di giocare sul fatto che esista questo personaggio a cui spesso mi si associa. A me piace molto, e spesso mi hanno detto anche sfottendomi questa cosa qui. Anche lui fa musica molto personale, eccetera. Forse prima, adesso si è un po’ lasciato andare per quanto mantenga quella componente.

Hai sentito If You’re Reading This It’s Too Late, il suo ultimo tape? Cosa ne pensi?

Ovvio. A me piace. Sono un fan, quindi è una bomba. Tra l’altro ero molto gasato perché il brano con cui ha campionato Jungle, che è il mio preferito, lo conoscevo. Era un EP [di Gabriel Garzón Montano] che mi aveva passato un mio amico, e di quell’EP quel pezzo [6 8] era il mio preferito. Quando l’ho sentito campionato mi sono gasato. Ripeto, sono abbastanza fan suo. Quindi non aspettavo altro che della roba nuova, detto sinceramente.

Di quel tape si è discusso molto, e alcuni l’hanno paragonato a quello che fece Beyoncé con il suo ultimo self-titled. Secondo te una pubblicazione a sorpresa di questo genere funzionerebbe anche da noi?

Secondo me funzionerebbe, e non ha nessun contro. È che in Italia purtroppo per fare una roba del genere o sei veramente grosso e c’è un’etichetta dietro che crede all’idea – che è già stata sperimentata e in teoria funziona – o te lo fai da solo. Se sei un artista tra virgolette medio, come posso essere io per esempio, se dovessi proporre una cosa del genere non la farebbero. Le major hanno delle burocrazie per cui risulterebbe difficile fare un discorso del genere, siamo indietro con il mercato musicale. Se l’hanno fatto in America l’anno scorso, in Italia forse tra cinque anni.

Voi, come Blue Nox e Unlimited Struggle, avete qualche contatto con le Major?

Abbiamo sempre fatto da noi. Il mio disco è stato il primo ad essere Macro Beats, però ad essere distribuito da Universal. Ci siamo sporcati le mani anche noi. Anche io, anzi (ride).

Essendo tu un graphic designer, non posso non chiederti dell’artwork del disco. Spiegami com’è nato, e come hai lavorato con Pietro Cocco.

Ti dico, ovviamente sono stato sempre abbastanza attento alle copertine e all’immaginario grafico, quasi mi viene spontaneo dato che è il mio lavoro e una passione. Per questo artwork volevo uno still life, mi balenava nella testa l’idea di questa rosa ghiacciata, questo momento preso lì. Tramite un mio collega sono venuto a conoscenza del lavoro di Pietro Cocco, un ragazzo della mia età che lavora tra Milano e New York, specializzato in still life. L’ho contattato, lui già conosceva le cose grafiche che facevo – non ho mai capito bene se gli piacessero anche quelle musicali (ride). Quelle di prima almeno, quelle nuove gli sono piaciute – e quindi l’ho tirato in mezzo, lui si è preso bene e abbiamo sviluppato insieme quest’idea. L’ho lasciato abbastanza libero. Stavolta ho fatto più l’art director che il graphic designer. Il risultato mi sembra una cosa particolare, diciamo.

Ho apprezzato molto la scelta di non mettere te stesso in copertina, dato che è ormai molto comune sbattere la faccia sull’artwork. 

Sì, esatto. Volevo proprio evitare. Per il discorso che ti facevo prima delle etichette e delle major – avendoci lavorato per artisti anche grossi so che la faccia in copertina è molto importante. Ma mi ha fatto molto piacere nel momento in cui hanno visto la copertina non hanno detto niente, si sono lasciati guidare da quello che avevamo già costruito.

Quanto è stato difficile scattare le foto per l’artwork? Avete usato Photoshop?

Sono foto. Non abbiamo troppo barato. Che quello non è ghiaccio vero. È un effetto speciale. Siamo andati in questo posto che lavora con il cinema e per shooting fotografici e abbiamo comprato questi prodotti chimici che in ugual misura, una volta asciugati, creano una specie di silicone. Ma nel momento in cui lo vai a tagliare fa esattamente l’effetto del ghiaccio. Ovviamente con le luci, eccetera, sarebbe stato un casino avere un blocco di ghiaccio vero. Quindi lo sbattimento è stato anche maggiore (ride).

Non dovrei essere qui è il pezzo del disco in cui vai più a parlare della scena italiana: “A disagio come molti altri rapper / Ma il mio disagio è stare con gli altri rapper / A cercare di dire una cosa figa che dicono i rapper”. Il modo in cui pensi al tuo ambiente è cambiato da quando hai pubblicato Disco inverno?

Guarda, mi sono sempre trovato abbastanza distante da certe cose. Non mi definisco un rapper, mi piace la musica e la faccio. Che sia rap oppure no non me ne frega molto, quindi non me ne frega molto di essere inserito in determinati contesti. Da quando sono venuto a Milano mi sono trovato in situazioni con addetti ai lavori e colleghi, e il risultato è Non dovrei essere qui. Quindi si capisce qual è il mio punto di vista. Non è molto cambiato. So che è un gioco e bisogna starci dentro, ma mi considero comunque un musicista prima che un rapper. Anche se non suono nessuno strumento, però mi piace fare musica prima che fare rap.

Parlando di tecniche, secondo me l’uso che hai fatto dell’autotune nel disco ci sta perfettamente, anzi migliora alcuni pezzi.

Anche secondo me (ride).

Apprezzi anche artisti che usano praticamente solo l’autotune, metti cose come Future – o Maruego da noi?

Assolutamente sì. Sono assolutamente pro-autotune. Quelli che hai citato secondo me fanno roba figa.

Maruego, soprattutto, ha portato in Italia qualcosa che nessuno aveva fatto prima.

Esatto, però in America lo fanno da un bel po’ e ha molto successo. Favole è praticamente quasi tutto autotune, e poteva benissimo non starci. Ma spesso appena vedono l’autotune dicono, “Tu non sai cantare e quindi devi metterlo”. No, è uno strumento con il quale ci si esprime. È come la scelta di un piano al posto di un synth.

Dopo averti visto dal vivo al MI AMI con la band mi sarei comunque aspettato una sperimentazione con strumenti veri anche su disco, e invece no.

In realtà questo era un po’ il mio sogno, dopo Disco Inverno. E difatti nelle sedi in cui hai citato lo avevo provato. Poi sono cambiati proprio i miei ascolti. Prima ascoltavo un sacco di soul, ultimamente ascolto molti produttori tipo Shlohmo, Cashmere Cat, questa gente qui. Quindi per forza di cose mi sono infatuato di altri suoni e ho accantonato questa voglia, questo desiderio. Ma magari, in futuro.

Te l’ho chiesto perché sono curioso di vedere chi, dopo Ghemon, farà un disco come ORCHIdee.

In quella maniera assolutamente, perché comunque alcune band ci sono – Salmo, Gué Pequeno. Ma quello che ha fatto Ghemon è una cosa abbastanza diversa. Anch’io sono curioso.

Secondo te pensare a un Genius italiano è troppo? Quanto è importante secondo te la comprensione dei testi e dell’immaginario rap da parte dei fan?

Sinceramente credo che sia una cosa marginale. Come ti dicevo, alla fine la musica è fatta anche per non farti capire le parole e se hai voglia di capirle vai, ti sbatti, te le traduci e il significato lo cerchi. Quando iniziai ad ascoltare Eminem andavo a leggermi tutti i testi e me li traducevo. Se adesso un ragazzino non ha quella voglia sono cavoli suoi. È una cosa che deve partire per forza dal singolo, secondo me. Per quanto riguarda invece il Genius dei testi in Italia, probabilmente non ha troppo senso di esistere. Credo che i rapper in Italia siano tutti abbastanza… li si vede in giro, glielo chiedi cosa vogliono dire. Non è difficile trovare dei significati chissà quanto profondi o diversi da quello che può esserci quello che vai ad ascoltare. Certo è che spesso non si capisce il senso di certe frasi, e lo vedi dai commenti che ricevi su internet. Ma credo che quelle siano questioni più legate a dei preconcetti che si hanno sugli artisti, per cui se ascolti un artista non ne puoi ascoltare un altro e ci butti merda sopra. È che non siamo tantissimi alla fine, per quanto si è cresciuti tanto. Non la vedo una cosa enorme.

In Intro dici, “Vorrei file al Fila Forum con tre dischi fuori”. Ma tu per chi l’hai fatta la fila?

Sono sempre andato a un sacco di concerti, anche molto lontano. La mia fila più lunga fu in Canada per sentire Frank Ocean, quando ancora non immaginavo potesse venire in Europa. Sono andato a sentire Drake a Bruxelles. Questa cosa cerco sempre, nel mio piccolo, tramite la mia comunicazione, di spingerla. Leggo di ragazzi che magari fai la serata a Bari, stanno a Lecce e dicono “vieni a Lecce”. Porca troia, se ti interessa veramente un modo lo trovi. Anche se sei più giovane. Io ricordo che sono stato fino ai miei 18 anni a Foggia, e lì non c’era molto rap. Per andare alle serate dovevo andare o a Pescara, o a Bari, o a Termoli. Quindi quando arrivava qualcuno io e i miei amici prendevamo i treni, dormivamo in stazione, e via. Non è che uno deve fare così per forza, ma un modo si trova. Di file ne ho fatte, e spero che la gente se la faccia. È una dimensione diversa, il live va visto.

In Non ci sei più poi dici, “Jay Z e Kanye West, che bomba di live”.

Esatto, quello era a Parigi. Quel pezzo è un percorso di varie cose che sono successe all’interno di una storia che poi, appunto, è andata male.

Morale, alle favole non ci crediamo più? 

No. Per quanto io come persona sia abbastanza un sognatore, sono sempre stato con i piedi per terra e credo che con questo disco si senta di più. C’è un po’ più di consapevolezza. Il sapere come vanno determinate cose, accettarlo e andare avanti per la propria strada.

Mecna sarà in concerto a breve: la data di sabato 14 al Biko di Milano è Sold Out. Qua le date del tour.

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