L’editoriale di Killer Mike per USA Today sull’uso dei testi rap nei processi

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Killer Mike, metà dei Run the Jewels assieme ad El-P, non è nuovo ad interventi scritti per commentare fatti e notizie: recentemente aveva pubblicato un pezzo d’opinione per Billboard in cui parlava delle rivolte a Ferguson. Adesso, assieme al prof. Erik Nelson della University of Richmond, ha scritto un pezzo per USA Today sull’uso dei testi rap nei processi. Intitolato “L'(In)giustizia poetica del rap“, il pezzo nasce da un caso recente: gli Stati Uniti contro Elonis. Nel 2010, il ventisettenne Anthony Elonis postò stati violenti sulla sua pagina Facebook diretti a sua moglie (da cui si era separato) e a una poliziotta. Molti dei messaggi contenevano versi di testi rap aggressivi. Uno era la trascrizione di uno sketch satirico del gruppo di comici The Whitest Kids U’ Know. Oltre a quegli stati, ne postò altri propositivi e non aggressivi: “L’arte significa mettere alla prova i propri limiti. Sono pronto ad andare in prigione per i miei diritti costituzionali. E voi?” Elonis è stato poi accusato di diffamazione, e diverse corti hanno giudicato i suoi messaggi come minacce illegali. Il caso è arrivato ora alla Corte Suprema. Qua trovate un pezzo del Guardian sull’accaduto. Mike spiega:

La corte suprema ha preso il suo caso per risolvere una domanda legale piuttosto ristretta riguardo alle “vere minacce” in giurisprudenza. Ma scegliendo Elonis, la giustizia è incappata in un dibattito nazionale sui sempre più comuni procedimenti giudiziari sul rap, il che pone enormi problemi sul ruolo dell’arte e della libertà di parola nel sistema legale, oltre che sulla comune visione della cultura hip-hop come una minaccia per la società. All’interno del sistema legale, questa visione sta diventando sempre più evidente. Come delle recenti ricerche hanno rivelato, i testi rap sono stati introdotti come prova del comportamento criminale di un accusato in centinaia di casi, in tutta la nazione, e spesso il risultato finale è stata una condanna basata su una caratterizzazione palesemente sbagliata del genere da parte dell’accusa. Ignorando molti degli elementi che identificano il rap come una forma di espressione artistica, come l’uso di soprannomi da parte dei rapper o il frequente uso di metafore o iperboli, le accuse presenteranno sempre il rap come autobiografia prendendolo alla lettera. A tutti gli effetti, viene chiesto ai giudici di sospendere la distinzione tra autore e narratore, realtà e finzione, in modo da ottenere verdetti in favore dell’accusa.

Il pezzo continua:

Nessun altra forma di finzione – musicale, letteraria o cinematica – viene usata in questo modo all’interno delle corti, creando un preoccupante doppio standard che la ricerca suggerisce essere radicato, almeno in parte, all’interno di stereotipi sulle persone di colore associati in modo primario con la musica rap, insieme all’idea (sbagliata) che l’hip-hop e i suoi artisti siano pericolosi. In realtà, la vicenda dell’hip-hop racconta una storia molto diversa. Negli anni della sua formazione, ad esempio, era esplicitamente considerato da molti un’alternativa alla violenta cultura da gang che consumava città come New York. Da allora, ha offerto a innumerevoli ragazzi e ragazze opportunità per fuggire dalla povertà e dalla violenza dei centri urbani d’America. Come una volta disse Ice T,”Se non avessi avuto l’opportunità di rappare, sarei morto o in prigione”.

Potete leggere il pezzo di Mike per intero a questo link. Qua sotto invece potete ascoltare Blockbuster Night Part 1 dei suoi Run the Jewels (che hanno da poco pubblicato in free download il loro secondo disco RTJ2).

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