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“Noi facciamo musica, non siamo scienziati”: intervista a Colle Der Fomento e Fabio Piccolino

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Renato Failla ha incontrato i Colle Der Fomento e Fabio Piccolino, autore del libro Solo Amore

di Renato Failla

Ventotto anni, quattro dischi, migliaia di concerti in lungo e in largo per lo stivale, collaborazioni di vario tipo. La storia del Colle Der Fomento è fatta di epoche perché le ha segnate, volontariamente o meno, guidando migliaia di persone verso l’Hip Hop, verso una cultura e un modo di intendere la vita, il rapporto con la società, con le persone, con la musica stessa. Nonostante il nucleo riconosciuto da tutti si configuri principalmente in Masito e Danno, non sono mai stati veramente da soli, la loro carriera artistica, che è poi la loro vita, si è sempre incrociata con altre mille vite artistiche, tutte confluite in ciò che viene definita “scena”. Quella scena che molto spesso è la semplice unione di persone con il medesimo intento e scopo e un’energia tale da sconfinare i quartieri per arrivare, in blocco, a conquistarne altri, mettendo le loro bandierine simbolo di unicità e fratellanza, la stessa che lega Massimiliano e Simone da tantissimi anni, oltre i dischi, i palchi e il Colle stesso.

È stato detto tutto e forse il contrario di tutto nelle loro rime ma questo non bastava ancora, perché gli anni non si fermano a ventotto ma continuano a procedere, inesorabili, verso il futuro per continuare a raccontare quelle storie, le stesse che Fabio Piccolino ha voluto mettere su carta mentre era seduto con Simone Eleuteri e Massimiliano Pliuzzi e davanti ad un registratore acceso gli ha chiesto: “Che cosa hai fatto per tutto questo tempo?”. Solo Amore è il libro sui primi ventotto anni del Colle Der Fomento uscito ad ottobre per la Minimum Fax: un libro intervista che va ancora più a fondo di una vita lunga chilometri di rime, scratch e necessità e che, per nostra fortuna, non è la conclusione di nulla ma il riassunto di quanto fatto fino ad ora per mettere a sistema un’esistenza vissuta fino ad oggi, perché domani bisogna ancora scriverlo, tanto il marker in tasca c’è sempre.

Fabio, possiamo dire tu sia il Deus Ex Machina di questa operazione?

Fabio Piccolino: “Sì, mi hanno definito così” (risate, nda).

Da chi e come è nata l’idea di questo libro?

F: “Sostanzialmente l’idea era di raccontare la loro storia, a me piaceva…
(suonano alla porta di Masito, è arrivato un pacco ed è quel piccolo imprevisto che aiuta a rompere il ghiaccio perché ci mettiamo tutti a ridere).
Dicevo, l’idea era quella di raccontare la loro storia perché dura da tanti anni con pochi dischi tantissimi live ed è una band che comunque tende a non raccontare troppo di sé, lo fa benissimo in musica, negli album, con le parole nelle canzoni. Intanto, avevo io la curiosità di saperne di più, cos’è successo in quegli anni, come è passato tutto questo tempo, cosa volevano dire in questa o in quella canzone. Ovviamente non è che arrivi e dici: facciamo un libro, ok, fatto, finito. Innanzitutto, non ci conoscevamo e quindi bisognava entrare in contatto e il primo l’ho avuto con Danno durante la prima del documentario “Numero Zero” al Cinema Farnese a Campo de’ Fiori. Sono andato a vederlo perché mi interessava, anche per lavoro, e rientrava un po’ in quelle curiosità del periodo visti i tanti punti interrogativi. Una volta lì mi sono trovato di fronte Simone (Danno), Ice One, un po’ di gente della scena e mi sono semplicemente presentato dicendogli che avrei voluto raccontare la loro storia partendo proprio dagli inizi. Ci abbiamo messo un po’ per entrare in confidenza, entrare in relazione, e all’inizio ci siamo incontrati io e Simone anche per capire come impostare il lavoro. Gli incontri erano fatti sempre in un clima tranquillo, sul divano, registratore acceso e tante chiacchiere”.

Masito: “Tè caldo”.

F: “Sì, tè caldo. È partita un po’ a rilento, visto anche il clima rilassato, ma ad un certo punto ci siamo messi sui binari giusti e abbiamo iniziato a sentire anche altre persone, in primis Ice One che era un pezzo molto importante della storia e poi gli altri…”

Danno: “…Baro, Craim, Kaos, Piotta, tutti quelli che dovevano dire la loro perché fanno o hanno fatto parte del percorso, del viaggio, della storia del Colle”.

F: “Esatto. È stato utile incontrarci prima in tre per farmi raccontare la storia dall’inizio e che non conoscevo nel dettaglio, ovviamente, per cui poi è stato più facile fare le interviste con le altre persone tenendo come traccia quello che mi avevano raccontato ma seguendo un criterio temporale, com’è nel libro poi”.

Dall’altra parte, invece, quando è arrivata la proposta il Colle come l’ha presa? Magari poteva essere interpretata come un’operazione un po’ estranea a quello che è stato il percorso fino ad oggi.

M: “Personalmente, non ero convinto che l’avremmo portata a termine. Non per sfiducia ma per quanto c’era da raccontare, ventotto anni so’ tanti. E pensavo sarebbe uscito molto più in là, come a conclusione di tutto il nostro percorso, invece la particolarità sta proprio nel raccontare una storia ancora in corso, ed ha anche un aspetto meno tragico”.

D: “Era quello che serviva dopo un disco come Adversus. Quell’album ha aperto nuovi spiragli in chi osserva, ascolta il Colle, dando anche una prospettiva diversa. Con quell’album abbiamo, come diciamo sempre, rotto l’armatura, lasciato vedere attraverso la maschera e con il libro abbiamo fatto vedere ancora di più. Visto che avevamo messo in un disco Massimiliano e Simone, oltre che Masito e Danno, era il momento giusto per raccontare tutta la storia, fino a quel momento, di Massimiliano e Simone e quindi di conseguenza di Sebastiano, Alessandro, Marco, Lorenzo, Tommaso, di tutto l’universo del Colle Der Fomento”.

F: “Ci sono stati poi altri due momenti fondamentali che hanno spinto verso quella la direzione. Ad un certo punto, quando è uscito Adversus, ho realizzato con loro una lunga intervista per Rockit in cui raccontavano il disco da un punto di vista un po’ più pratico. Avevamo già qualche elemento che andava verso la direzione del racconto, anche se nello specifico si parlava solo di quell’album. E poi sicuramente il Covid ci ha dato “una mano” perché senza concerti e questo grande punto interrogativo davanti. Poteva quello essere il momento giusto, anche se poi il libro è uscito un po’ dopo”.

C’è stato un momento in cui avete avuto paura di romanzarlo?

D: “No, perché quel rischio può esserci se ti metti personalmente, da solo e senza confronto, a scrivere la tua storia. La romanzi e allora la trasformi in mitologia. In questo caso Fabio ha fatto le interviste singolarmente confrontando sempre la versione di uno con l’altro e viceversa. Avevamo diviso la nostra storia per tappe, argomenti, dischi, facendo un passo alla volta e c’era sempre la raccomandazione di fare molta attenzione perché la maggior parte delle informazioni sono legate ad avvenimenti e fatti di tantissimi anni fa e quindi la possibilità che non sempre i ricordi fossero precisi, nel dettaglio. Io posso dirti una data e Massimiliano un’altra, uno si ricorda un luogo e l’altro confonde magari il concerto di un altro posto. Quindi c’è stato tutto un lavoro, che ha fatto anche Fabio, di incrociare le varie versioni e metterle a confronto. Insieme abbiamo cercato di ricostruire il più verosimilmente possibile lasciando sempre quel pizzico di mitologia personale, perché ognuno colora come vuole i suoi ricordi ed è anche giusto così, altrimenti non ci sarebbe la bellezza del racconto”.

M: “Leggendo alcuni libri sul Rap italiano ho capito quello che non volevo fare. La narrazione è proprio mitizzata, non perché inventano ma magari non raccontano cose negative ma solo quelle positive gonfiandole un po’, invece questo è metodo diverso perché ci mettiamo lì a parlare liberamente. Anche se scriviamo poco sui social, quando si tratta di parlare ci piace raccontare noi stessi, e lo facciamo sempre volentieri, con tante parole. Ci è piaciuto da subito lo stile diverso perché naturalmente discorsivo, scorre veloce, ed è reale, non puoi dire una cazzata perché poi c’è un altro che commenta o racconta lo stesso aneddoto e si fanno i paragoni. Ci piaceva essere, come sempre siamo stati, i più sinceri possibili. Una parte di mito chiaramente c’è ma è la gente che lo crea e noi facciamo musica, non siamo scienziati. Però abbiamo cercato di non enfatizzare troppo questo aspetto, anzi siamo stati fin troppo reali”.

D: “Diciamo che se c’è non riguarda tanto noi ma i nostri miti che vengono riportati. Abbiamo cercato di far capire che il Flaminio era un posto per noi mitologico, che il primo Circolo degli Artisti per noi è stato un posto leggendario; magari qualcun altro ti dirà ‘Bah, io ci sono stato, non era nulla di che’. Sotto questo punto di vista per noi c’è molta mitologia”.

M: “Esatto, esatto”.

D: “Crash Kid è una figura leggendaria, e allora lì ci trovi la mitologia del Colle. Ma noi non cerchiamo di creare la figura mitologica di noi stessi, abbiamo sempre cercato di limitare questo. Per noi è mitologico l’Hip Hop, i posti di Roma che abbiamo abitato. Se dici Fortitudo ci vengono gli occhi lucidi ma era una fabbrica abbandonata dove andavamo da ragazzini a fa’ casino e provavamo i primi tag. Per tutti gli altri romani non significa niente Fortitudo ma per noi, per la nostra cerchia di amici, è uno di quei posti che va messo sulla mappa della nostra Roma. Una parte di mitologia personale c’è, non su di noi come artisti ma sul quel periodo e sull’ambiente che in qualche modo abbiamo vissuto”.

M: “Anche perché era un periodo mitico. C’erano una o due riviste, non c’era internet, tutto era tramandato oralmente e quindi crescevano i miti. Mi ricordo, c’erano certi personaggi arrivati a noi come leggendari, a Roma o in altre parti d’Italia, ma che abbiamo visto essere persone normalissime una volta conosciute da grandi. Magari si vedevano poco e già solo questo innescava il meccanismo del: “Ah, non sai quello che ha fatto una volta”. Ovviamente anche su di noi hanno creato alcune cose non vere, succede. Un tempo dicevano che i Flaminio Maphia giravano con un machete in macchina, mi ricordo ‘sta cosa” (risate).

D: “Fucili a pompa”.

M: “Li vedevano come i cattivi, invece erano delle persone tranquillissime. Anzi, sentivi che nei testi scherzavano, non c’era quel tipo atteggiamento. La gente vuole il mito e avevamo anche quell’età in cui era facile si innescassero altri meccanismi”.

D: “Un’età in cui giustamente mitizzavamo. Ancora mi ricordo un concerto, che non ho potuto vedere ma che vide Massimo quando era ragazzino, se non sbaglio un connubio tra Devastatin’ Posse e l’Isola Posse dove c’era Dj Basic Basse Speaker Dee Mo. Massimo è stato un’ora al telefono a parlarmi di come Dee Mo aveva il cappello storto, dei movimenti, del modo di rappare, quella era mitologia per noi. Un’ora al telefono per dirmi: “tu non hai capito come si muoveva sul palco, come rappava, gesticolava!”. Erano cose per noi da afferrare, assorbire, perché c’era solo quello, ovviamente”.

M: “Noi parlavamo giornate intere di come si portava il cappello. Un amico nostro se lo metteva in un modo tale da sembrare più alto, era lo stile di quegli anni. Si metteva leggermente poggiato sulla testa, quindi altissimo. E c’era una scienza dei cappelli: storto, se hai stile te lo puoi permettere; se non te lo puoi permettere lo metti al contrario ed è una cosa, dritto un’altra. Tutto un mondo mitico”.

D: “Qualunque cosa, la cassetta Notte di Rime Dirette in cui potevi sentire che Isola Posse rappavano con Gruff ai piatti che gli mandava il break beat ma avevano Alessio Manna che suonava il basso dal vivo. Allora dici: “aspetta, usano un musicista dal vivo insieme al dj che gli manda il break beat”, probabilmente erano i dischi di Simon Harrisin cui trovavi loop di due minuti di batterie scarne per poterci rappare sopra, ed erano gli stessi che usavamo noi per fare le prove. Una volta chiamammo un amico nostro che suonava il sassofono per venire in camera nostra e suonare su di un beat messo da noi; esperimento andato malissimo”.

M: “Perché la cosa giusta era che c’aveva il sax, però suonava il sax classico e quindi non si trovava, diceva: ‘È vuota ‘sta cosa’”.

D: “Però, ecco, con una briciola cercavi di aprire un forno. Ti bastava per metterti in testa che tu il giorno dopo aprivi un forno per fare il pane”.

Guardando l’orologio, stiamo parlando da circa quindici minuti e sono già stato investito da questa ondata di ricordi, informazioni, nomi. Tu Fabio, come hai fatto a gestire tutto questo flusso di informazioni?

D: “Digli le ore…”

F: “Ne parlavamo ieri perché Masito mi chiedeva i numeri di questo lavoro, non avendone mai avuto di precisi. Controllando poi i file, sono circa sessanta ore di registrazione complessive per tutte le interviste, a loro e agli altri”.

M: “Non solo quello ma anche il doverle riordinare dopo, quindi Fabio ha fatto un lavoro estremo, impossibile. Personalmente io non ci sarei riuscito, perché ricordare tutti quei passaggi è complicato. Infatti, nella fase finale Fabio ci ha chiesto dove magari inserire gli ultimi tasselli rimasti. Il lavoro che ha fatto Fabio è enorme”.

F: “Dico, appunto, che sessanta ore è una stima perché c’è anche tutto il lavoro a registratore spento. Considera che ad ogni incontro la prima mezz’ora era passata a sistemare cose dette in quelli precedenti e poi messe su carta. Più che raccogliere le storie perché, hai notato pure tu, con loro fare domande e chiacchierare viene facile, il difficile forse è stato il dover poi legare tutto insieme, procedere con un racconto che portasse avanti una storia. Le vicende sono tante, anche se le abbiamo disposte in ordine cronologico sono venuti fuori dei temi che sono stati cuciti insieme, come quando cammini e metti un passo avanti all’altro. Trovare quel passo da fare era la connessione che mi consentiva di andare avanti per procedere con la storia ma anche affrontare il tema. Cucire insieme i pezzi, ecco, forse questo è stato il lavoro più difficile, oltre al fatto che il lavoro è durato anche tanti anni per tutta una serie di motivi: le tempistiche nostre, il disco Adversus mentre lavoravamo già a questo progetto e quindi la promozione dell’album, il tour. È durato tanto anche perché ho avuto molto tempo per lavorarci, non avevamo fretta, era un lavoro che non ci stava commissionando nessuno, non c’erano scadenze. Ci siamo presi il nostro tempo per farlo e poi abbiamo consegnato alla casa editrice un lavoro sostanzialmente finito, in pieno stile Colle come fanno con gli album. Come tempistiche e modalità di lavoro è stato molto in linea con quello che loro normalmente fanno con la musica”.

Durante la presentazione di Torino hai raccontato anche un po’ il tuo rapporto con il Colle, perché non eri fan della prima ora, quindi immagino la tua visione fosse più distaccata. Non ti chiedo il Colle com’è ma ti chiedo Massimiliano e Simone che persone sono, che persone hai conosciuto.

F: “Come ho avuto modo di dire in altre occasioni, ero comunque già in sintonia con loro da ascoltatore, con il loro modo di porsi, di dire le cose, tanto che nel propormi a loro ho cercato di fargli capire quanto fossimo simili, che ero come loro, tra virgolette…”

D: “No, non è vero, non porti il cappello. Non hai studiato alla stessa scuola di cappelli in cui abbiamo studiato noi” (risate, nda).

M: “Non ti sei fatto rapinare dai Flaminio come noi” (risate, nda)

F: “Però, ecco, avevamo una serie di connessioni. Venivo da altri generi musicali ma anch’io come loro ero quello sfigato in classe che ascoltava musica che non conosceva nessuno, andava ai concerti che non piacevano a nessuno. E poi conoscendoli entri anche in connessione con il loro rapporto, capisci che hanno un loro equilibrio di compensazione reciproca e lo vedi nelle canzoni, come stanno sul palco. Hanno due caratteri completamente diversi ma sono le due metà differenti ma complementari e la cosa funziona. Non abbiamo mai avuto grosse discussioni, siamo un po’ sulla stessa lunghezza d’onda, motivo per cui loro hanno sopportato me e le mie richieste per tutti questi anni riuscendo a fare un lavoro insieme. Mi sono trovato molto bene, spero anche loro”.

Nei dischi avete sempre utilizzato il vostro codice linguistico, usato determinati filtri magari, imparato a trovarne sempre nuovi. Nei libro avete utilizzato gli stessi filtri, codici, avete avuto lo stesso approccio o uno diverso? Perché comunque è una forma di comunicazione diversa.

M: “Secondo me nel libro siamo andati molto più a ruota libera. Nei dischi, nelle canzoni che scriviamo spesso c’è una ricerca maniacale delle parole da usare, metti, togli, correggi. Anche nel libro abbiamo fatto delle correzioni ma partendo da dialoghi, quindi è un lavoro diverso. Chiaramente mentre parlavamo capivamo che, come un disco, tutto sarebbe rimasto per sempre, e la prima volta che ho visto le nostre parole scritte su carta mi ha fatto impressione, però lo abbiamo fatto con più naturalezza. Anche perché, come ho già detto, sui social scriviamo pochissimo di noi, quindi questa era l’occasione giusta per “ora o mai più”, per dire tutte le cose che non abbiamo detto, tutti i particolari dietro le quinte, i retroscena. Certo, abbiamo dovuto correggere dopo la prima stesura ma solo perché nel flusso di parole qualcosa te la perdi e rileggendo capisci dove devi sistemare, però era già buono in prima battuta. Rileggendolo ho notato che, personalmente, racconto di un sacco di sconfitte e magari le parti riguardo avvenimenti belli sono un po’ più striminzite, mentre c’è il dettaglio sulle cose amare. Forse è carattere, me le vivo così a fondo quelle brutte esperienze che poi le ricordo bene e le descrivo in maniera dettagliata. Comunque un lavoro diverso”.

D: “Sì, è molto diverso rispondere ad una domanda in completa libertà rispetto al trovarsi davanti al cosiddetto foglio bianco, e mentre stai chiuso cerchi le parole giuste, il concetto giusto, la pausa al punto giusto, sono proprio due approcci completamente differenti. Su una strofa puoi starci anche un mese, due mesi, tre mesi, la riscrivi, la correggi, cambi dieci volte una parola finché non trovi quella giusta. Probabilmente chi scrive un romanzo fa questo tipo di lavoro, ritorna su una frase, un paragrafo o un dialogo, questo è un libro intervista, sicuramente Fabio nella trascrizione sarà ritornato, avrà corretto, cambiato parole ma da parte nostra abbiamo fatto un altro tipo di lavoro, hai un altro approccio mentale. Era una chiacchierata, un continuo confronto con una persona che ti fa una domanda a cui rispondi pescando dalla tua memoria, poi come dice Massimo vai anche a correggere ma non è lo stesso tipo di correzione che fai su una strofa”.

M: “Se avessimo fatto questo lavoro senza Fabio, sarebbe stato meno dettagliato, più ricamato. Non dico che avrei esagerato le cose scrivendo di mio pugno ma le avrei scritte in una maniera differente, che è quella che non mi piace. Invece lo scambio tra domanda e risposta ti porta ad uno stato di libertà che tira fuori le cose vere, quindi è stata una scelta ottima lavorare con Fabio”.

A proposito di questo, Fabio, lavorando a stretto contatto con loro, per molto tempo, c’è stato un momento in cui hai creduto di immedesimarti tanto da eliminare quella visione dall’esterno che avevi all’inizio del percorso?

F: “Non credo perché i tempi lunghi hanno evitato questa presenza costante e continua tra di noi in maniera quasi morbosa, e anche perché al di là dell’aspetto lavorativo non c’era quel rapporto confidenziale che portava ad incontrarci tanto anche al di fuori, rischiando quindi di entrare troppo nella storia, nella vicenda e perdersi un po’. Al contrario, è stato proprio questo che ha funzionato. Sono arrivato al punto in cui, quando c’è stata la fase finale della prima stesura da dare a loro per avere le correzioni, ho capito che era il momento di dire basta. Anche se non avevamo una data di scadenza imposta dall’esterno cominciava ad esserci un’esigenza, almeno da parte mia, di concluderla. Quando sei in quell’ultima fase ti chiudi dentro e vedi solo quello, lo rileggi, non sei più in grado di capire se va bene o no. Arrivato a quel punto ho dovuto mollarlo, darlo a loro e i mesi passati in cui hanno lavorato poi ad una riscrittura, alle correzioni, ha permesso a me di farci pace. Per i primi due tre mesi non ho più potuto neanche guardarlo, quindi è stato utile. I tempi poi spesso si allungano anche per questo tipo di esigenze”.

Massimiliano prima ha anticipato involontariamente una domanda che volevo fare quando ha detto che “il libro comunque resta” e nel caso loro anche un disco resta. Oggi si produce a velocità supersonica, invece il Colle ha pubblicato pochi dischi ma perché in relazione ad una carriera molto lunga e di cui ancora ne stiamo parlando, oggi. E lo stiamo facendo insieme ad un’altra persona che ha detto: “io voglio raccontare la vostra storia”. Può essere questo uno dei “segreti” di longevità del Colle o in generale di un progetto culturale? Ragionare veramente sulle cose e tirarle fuori solo quando si è veramente pronti.

M: “Non c’è una formula precisa, noi siamo così. Non riesco a vedermi o a vedere il Colle dall’esterno, mi piacerebbe. L’unico momento in cui riesco a vederlo dall’esterno riguarda un aspetto che ho ritrovato nei Sangue Misto, l’unico esempio che mi porta lì. Erano i live dei Sangue Misto, qualunque fosse la condizione: che l’impianto suonasse bene, male, con tanta o con poca gente. Se sei stato ai loro concerti te lo ricordi ancora trent’anni dopo. Provavo dei brividi assurdi, mi sudavano le mani, mi emozionavo proprio tanto e quella carica mi dava la voglia per mesi di scrivere, mi durava tanto dopo quel live. Quindi, forse la gente prova questo nei nostri riguardi”.

D: “Non so quanto possa esistere una formula e non so neanche quanto sia mai stata ragionata la questione di “facciamo tanto, facciamo poco”, ci siamo sempre mossi abbastanza ad istinto. Credo che il motivo principale per cui il Colle ancora esiste sia, diciamo, sentimentale: l’affetto, la fratellanza, il legame che c’è fra noi è forse il primo collante che ci fa rimanere insieme. Non siamo rimasti insieme perché è un gruppo molto famoso, siamo diventati tutti ricchi e abbiamo l’interesse a portare avanti questa cosa. Siamo rimasti insieme anche in un periodo in cui non avevamo un disco fuori, facevamo le nostre serate ma molto underground, eppure abbiamo sempre continuato a suonare, metterci sui treni, a viaggiare per l’Italia per portare la nostra musica. A noi piace questa musica, ci piace farla. Abbiamo probabilmente un vero amore fraterno che ci tiene uniti, è probabilmente quell’ingrediente segreto che l’ha mantenuto unito fino ad ora. Il Colle è forse un gruppo atipico che spesso se ne sta un po’ in un mondo suo, e c’è questo aspetto un po’ ingenuo che però fa sì ci sia poca contaminazione dall’esterno, esiste in una dimensione sua dove forse il tempo scorre pure diversamente rispetto a come scorre fuori. Sono passati tutti questi anni? Per noi il tempo è passato come sarà passato, quello che dobbiamo fare lo facciamo, come ci va di farlo, quando ci va di farlo”.

M: “E poi, oltre ai dischi ci sono stati comunque dei progetti bellissimi da Gli Originali con Franco Micalizzi, Kaos, Turi, ci sono stati dei live, delle cose molto importanti anche parallele al Colle, Welcome to the Jungle è una branca. Tra un disco e un altro non è che non facevamo nulla, per noi questa cosa è 24 ore su 24, da sempre, e quindi i numeri per noi non sono importanti. Non stiamo a vedere se oggi abbiamo scritto qualcosa o meno sulla pagina con la paura che potrebbero dimenticarsi di noi, è un po’ triste questa cosa che fanno gli altri. Noi siamo fortunati, forse, non lo so. O forse abbiamo fatto tanta gavetta? Non lo so. Comunque sia a noi diverte, e visto che ci piace tanto ancora oggi, soprattutto, non riusciamo a vederlo come un lavoro, per quanto facciamo di tutto per essere professionali. Però, personalmente non ci riesco e il giorno che succede ho smesso di farlo. Non mi interessa più”.

Parlando di musica, epoche e velocità, stiamo attraversando un momento musicale che è quello che è: molto mescolato, tra social e tutto il resto. Non si capisce se fai musica, se intrattieni o sei semplicemente un Social Media Manager di te stesso. Però qualcosa di bello c’è sempre. Il vostro sguardo sul presente com’è?

D: “Ci sono tante realtà, fra quelli grossi uno molto forte secondo me è Massimo Pericolo che sa scrivere molto bene. Fra quelli underground a Roma c’è la realtà Do Your Thang, capace di passare dalla Trap al Rap più classico, al Rap fatto con gli strumenti suonati dal vivo, e questa è una chiave molto classica che invece sarà sempre usata dal vivo, la presenza degli strumenti intendo. Dopo una grande esplosione di produzioni più “a sintetizzatore”, più digitali, si andrà secondo me verso una musica un po’ più suonata dal vivo. Anche noi abbiamo in cantiere progetti del genere ma lo abbiamo già fatto con La Batteria, con i Bud Spencer Blues Explosion. Ad esempio, c’è questo gruppo nuovo, Studio Murena, con cui ho collaborato: anche loro sono una realtà molto giovane, suonano gli strumenti, mischiano Jazz, Funk, Soul, Rock e hanno il rapper. Ed è bello che accanto a questa “esplosione” non tanto più nuova della Trap, che è molto fredda come suoni, invece rinascano realtà più calde, con un approccio più live in cui la gente sale sul palco e monta la batteria, accorda la chitarra, attacca gli amplificatori e poi si è in sette, otto sul palco ognuno con uno strumento a suonare. Ed è un qualcosa che apre delle porte… staremo a vedere…”

M: “In questi anni i social hanno aumentato la possibilità di uscire fuori con i dischi e farsi conoscere e quindi, al di là del mischione tra musica Pop, Trap e quant’altro, c’è troppa musica. Forse c’è troppo in giro e non tutto vale, quindi ti sporchi le orecchie di qua e di là e poi quando arrivi una cosa buona sei confuso, intasato. Noi abbiamo scelto di fare il Rap, il RAP, che tu lo voglia chiamare Hip Hop o Rap, comunque è una cosa precisa, non è un trampolino che molti hanno usato per poi arrivare a cantare. Questi hanno una voglia di cantare, cantano nei ritornelli canzoncine, hanno tutte queste ragazze da corteggiare, non fanno altro, “la tua tipa, la mia tipa…” è un incubo in questo periodo. È chiaro che ci sono delle potenzialità ma tutte le stesse? Questo mi chiedo. Fate tutti la stessa cosa nello stesso modo? Vestite alla stessa maniera, quando parlate lo fate tutti nella stessa maniera, non si capisce da che città venite perché a Roma parlano milanese, a Milano parlano romano, “daje” sta ovunque, “frate” lo dicono a Roma. Ci sono delle cose che hanno confuso tutto, questa forse sarà la globalizzazione, non lo so, a me non piace. Forse prima c’erano delle differenze più interessanti, evidenziate e volontariamente tirate fuori che facevano la qualità del genere. Oggi è veramente un campionario, escono troppe cose, non c’è veramente il tempo nella vita per ascoltarle tutte. Ne esce una ogni minuto, forse…”

Ultima domanda per ognuno: Fabio, quel dubbio da sciogliere a prescindere dal suo inserimento nel libro.

F: “Beh difficile… mentre parlo intanto ci penso (risate, nda), perché in realtà erano tante, quasi tutte le cose che gli ho chiesto e poi finite nel libro. Quando dicevo che non c’era un libro sul Colle, la loro storia era sospesa e uno poteva immaginare ciò che era successo, io pensavo proprio a questo. Mi ricordo che dopo i primi incontri tornavo a casa pensando a quante cose mi avessero raccontato. In realtà non te lo so dire di preciso, forse sapere cosa fosse successo nello lo spazio tra un progetto e l’altro, tra un disco e l’altro. La famosa frase “che cosa hai fatto per tutto questo tempo”, citata in Adversus e che poi trovi nel libo con tre capitoli specifici in cui c’è il racconto della vita di ognuno di loro e quello che è successo nel frattempo. Ma allo stesso tempo per me, da amante della musica, mi interessava sapere delle singole canzoni, delle rime, cosa ha portato a scrivere quello o quell’altro. Su quasi ogni canzone avevo delle curiosità, soprattutto in relazione a tutti i rimandi che fanno nei loro testi. Mi viene in mente Più forte delle bombe, una delle loro hit, un brano che mi gasa ma di cui non ero mai riuscito a cogliere i tanti riferimenti: quando me li hanno raccontati mi hanno spiegato che quella è una canzone nata come una continua citazione e un continuo rimando a tanti elementi. Sono quelle cose che ti fanno un po’ pensare di non averci capito niente (ride, nda), dall’altra parte hai poi maggiore chiarezza. Non ti ho risposto in realtà”.

Era una domanda difficile, lo so. Ma sono famoso per fare le domande marzulliane e tocca sempre a tutti. In questo caso a te (risate, nda). Ultima domanda per il Colle e anche un po’ personale: Adversus l’ho consumato e continuo ad ascoltarlo incessantemente, ne parlo costantemente in radio, ho fatto una specie di talk partendo dal vostro disco, insomma: quando esce il nuovo?

D: “Eh… stiamo, stiamo… stiamo progettando, stiamo lavorando”.

M: “Ci piace fare questo, quindi difficile immaginare una cosa così che c’è da quando sono minorenne e che debba finire. Magari non finirà mai, forse, in qualche modo. Il marker in tasca ce l’ho sempre”.

D: “Esatto”.

E il cappello alto…

D: “Ancora facciamo battute su come si porta il cappello”.

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