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Intervista a Nicolas Godin (Air): “Ho iniziato a scrivere ciascuno di questi brani pensando a uno specifico edificio”

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(Credit: David Zagdoun

di Giorgio Valletta

Già noto per essere metà degli Air – nome storico del suono francese degli ultimi tre decenni, e solo momentaneamente in standby –, Nicolas Godin (che vedremo al TOdays festival) aveva pubblicato il suo primo album in proprio nel 2015. Contrepoint era influenzato da Bach ma non rinunciava a esplorare nuove soluzioni (qui l’intervista dell’epoca). Dopo la colonna sonora per la serie Au Service De La France, nello scorso gennaio è uscito il suo secondo album solista: Concrete And Glass dichiara già nel suo stesso titolo i riferimenti architettonici che lo ispirano, e propone una visione aggiornata dell’elettronica pop più onirica, con la complicità di ospiti come Alexis Taylor (Hot Chip), Kadhja Bonet e Cola Boyy. “Certo, è corretto dire che l’architettura sia stata il punto di partenza. L’ispirazione è arrivata da un progetto architettonico per cui ho lavorato, e ho deciso di trasformare quelle composizioni musicali in canzoni vere e proprie, con strofe e ritornelli. Ma volevo che il pubblico potesse ascoltare questa musica senza sapere da dove era nata, e che fosse un’esperienza divertente. Non volevo annoiare sottolineando in partenza che c’era un concept a fare da sfondo al disco, ma è vero che ho iniziato a scrivere ciascuno di questi brani pensando a uno specifico edificio”.

Infatti leggevo che hai composto musica per una mostra dell’artista Xavier Veilhan, dedicata a case iconiche.

“Sì, lui ha scelto otto case e in ciascuna di esse ha realizzato una mostra. Ho composto la musica per ciascuna di queste e un anno dopo, alla fine del progetto, mi sono ritrovato con questi brani, queste melodie, accordi e armonie, e mi sono chiesto cosa avrei potuto farne. Ho voluto trasformarle in canzoni, e ho chiesto a vari cantanti e collaboratori di aiutarmi in questo processo. Il risultato è Concrete And Glass”.

Fra le voci ospiti, c’è quella di Kate NV, un’artista russa che appare in Back To Your Heart.

“L’ho scelta perché ammiro il suo lavoro. L’ho vista dal vivo a Parigi ed è stata incredibile. Amo la sua voce, e inoltre lei ha studiato architettura. Sapevo che avrebbe capito il mio progetto, e che avrebbe capito il collegamento fra architettura e musica, che non è così evidente per altri musicisti. È stato facile lavorare con lei perché sapeva esattamente cosa fare, è stata perfetta”.

Mi ha sorpreso il coinvolgimento di un personaggio atipico come Kirin J Callinan, che appare in Time On My Hands. Era tua intenzione portare alcuni degli ospiti del tuo disco fuori dalla loro “comfort zone”?

“Sì, ed effettivamente non volevo lavorare con persone della mia generazione. Faccio musica da molti anni e sono amico di tanti grandi cantanti e musicisti. Ma per questo disco volevo lavorare con giovani che non conoscevo personalmente, che non sono nella mia sfera, che a loro volta non sono nella mia ‘comfort zone’. Cercavo una nuova energia, mi interessava scoprire nuove tecniche: ad esempio, il modo in cui oggi si fa musica è completamente diverso da quello con cui sono cresciuto. Ed è completamente diverso anche il modo in cui gli artisti odierni gestiscono la loro attività. Per me una collaborazione con un altro artista era un grande evento, mentre oggi ci si può contattare attraverso Instagram e le cose procedono in maniera facile e veloce, a differenza di quanto accadeva quando iniziavo il mio percorso”.

Un altro notevole contrasto è quello che si verifica con la voce lieve di Kadhja Bonet e i synth di We Forgot Love: direi che è qualcosa che non si ascolterebbe su un suo disco.

“Penso che lei sia la più grande cantante sulla scena oggi. Non potevo credere che lei accettasse di fare un brano con me, quando ho appreso la notizia è stato un bellissimo momento. Quando ha cantato su quel brano mi sono detto ‘Oh my God!’ Ha una voce incredibile, e la sua interpretazione è stata perfetta, sempre intonata, non ha sbagliato nulla. Bellezza e perfezione allo stesso tempo. Davvero formidabile”.

Tornando al tema del disco, è interessante notare come anche la discografia degli Air si sia aperta all’insegna del mondo architettonico, dato che il vostro primo singolo ufficiale (pubblicato nel 1995) era Modular Mix, ispirato da Le Corbusier.

“Torno spesso a quella fonte di ispirazione, inoltre il modo in cui lavoro adesso è molto simile a quello con cui ho iniziato. Lavoro in una piccola stanza con synth e computer, esattamente come quando ero molto giovane e iniziavo a far musica in cameretta. Mi sento molto più a mio agio così, dopo tutti questi anni in cui sono stato in grandi studi di registrazione con grandi tecnici del suono e musicisti. Avevo bisogno di tornare alle origini del mio suono, di riavvicinarmi profondamente alla mia personalità e alla mia natura”.

Sei tornato ad usare anche il vocoder: è lo stesso di Moon Safari, come ho letto da qualche parte?

“Sì, certo! Utilizzo due vocoder nel nuovo album, a seconda dei brani: uno è quello di Moon Safari e l’altro è quello che i Kraftwerk usavano nei loro dischi, con un suono più metallico. Non mi spaventa più tornare ai vocoder: in ogni album ho sempre voluto fare qualcosa di nuovo, ma dopo tutti questi anni ho fatto pace con la mia eredità sonora”.

A co-produrre l’album è Pierre Rousseau, che ha lavorato anche con artisti come Agoria o i Metronomy.

“Questo è un album solista, ma non mi piace lavorare da solo. Ho sempre bisogno di un complice. Uno dei più grandi piaceri nel fare un disco è incontrare qualcuno in studio ogni giorno e scambiarsi qualcosa, creare qualcosa insieme. Odio fare musica da solo, non mi piace per niente, ho bisogno del contributo di un’altra persona. Ti piace sempre quel che non hai. Per apprezzare un mio brano ho bisogno che qualcun altro ci metta qualcosa di suo, in modo che ci sia del mistero. Se fosse qualcosa di esclusivamente mio, non avrei neanche necessità di farlo, perché mi conosco perfettamente e sarebbe come guardarmi allo specchio”.

(Credit: Unité d’habitation Marseille, France di Iantomferry)

Uno dei brani secondo me più anomali arriva alla fine della scaletta dell’album: parlo di Cité Radieuse, che inizia come una composizione minimalista à la Philip Glass, e poi entra improvvisamente in un’atmosfera jazz da nightclub, con quel sassofono…

“Sì, è molto divertente, soprattutto se guardi quell’edificio di Le Corbusier (nda: La Unité d’Habitation, nota anche come Cité radieuse, appunto) a Marsiglia. L’intera struttura è molto ben organizzata, un complesso residenziale con numerosi appartamenti, ed ecco perché la scelta della musica concreta à la Glass. E poi c’è il tetto, che è una parte completamente libera, con una vista sul Mar Mediterraneo e sui suoi tramonti. Il brano è costruito esattamente come quell’edificio, ed è come se la parte con il sax fosse quel tetto”.

Qualche anno fa, in occasione del ventennale degli Air, sei tornato a esibirti dal vivo con Jean-Benoît Dunckel. Si può dire che anche quell’esperienza abbia influito su questo disco?

“Non saprei… Non ci ho pensato. Come parte degli Air il mio obiettivo principale è sempre stato di fare qualcosa che fosse senza tempo. Durante quel tour abbiamo suonato brani di 20 anni prima, e mi ha sorpreso constatare quanto fossero ancora freschi, è stato molto gratificante per me. Ecco perché ho voluto che il mio nuovo disco fosse molto attuale. Il mio obiettivo è che chi ascolta Concrete And Glass abbia la medesima sensazione di freschezza”.

In una recente intervista hai dichiarato che John Barry ed Ennio Morricone sono stati molto importanti per la tua formazione musicale, e in effetti verrebbe da dire che il tuo stile ha sempre avuto delle caratteristiche cinematografiche.

“Quand’ero bambino guardavo sempre la televisione. Fino ai 14 anni non ho mai comprato dischi, e prima di allora tutta la musica che ho imparato arrivava dai compositori di colonne sonore. È vero, ero un grande appassionato dei film spaghetti-western, e Morricone era il miglior musicista in quell’ambito. E poi guardavo James Bond, dunque ho assorbito le musiche di John Barry, e lo stesso per le musiche di John Williams per Star Wars: era roba che si imprimeva in me e nel mio sangue con grandissima forza. Era la musica che mi piaceva, capisci?”

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