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Intervista ai Daughter: “Credo nella natura dinamica della vita”

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(Credit: Marika Kochiashvili)

Il chitarrista dei Daughter Igor Haefeli racconta il nuovo album della band, Stereo Mind Games

di Letizia Bognanni

Sono passati sette anni dall’ultimo album dei Daughter Not To Disappear, sette anni in cui i tre – Elena Tonra, Igor Haefeli e Remi Aguilella – non sono scomparsi: ci sono stati lavori solisti, una colonna sonora (per il videogioco Life Is Strange: Before The Storm), collaborazioni, e tanto lavoro a distanza, da prima che fosse obbligo e nuova normalità, per il nuovo Stereo Mind Games. Prodotto da Haefeli e Tonra, è stato scritto e registrato in varie località tra cui Devon, Bristol e Londra in Inghilterra, San Diego in California e Vancouver, nello stato di Washington e suona come un disco quasi profetico, in cui connessione e disconnessione permeano i dodici brani in senso letterale e figurato. Ce lo siamo fatto raccontare dal chitarrista Igor Haefeli.

Comincerei dal titolo, qual è il significato di Stereo Mind Games?

“Viene da un verso del brano Party, noi tradizionalmente scegliamo un verso da uno dei brani come titolo dell’album, e in questo caso abbiamo pensato che rappresentasse bene il feeling generale del disco, che parla in un certo senso di voci conflittuali, come in uno stereo, dove hai il canale destro e sinistro e senti una cosa in un orecchio e una dall’altro orecchio. E mind games si riferisce a quando qualcuno ti tira uno scherzo ed è il tuo stesso stereo, sei tu che lo fai a te stesso, e quindi il conflitto diventa capire cosa è giusto e cosa è sbagliato”.

Infatti fra le altre cose dite che questo disco accoglie sentimenti opposti, appunto, e che “si tratta di non avere un pensiero assoluto”, che è un concetto interessante in un mondo dove tutti pensano di possedere la verità e c’è sempre meno disponibilità a riconoscere che ci possano essere diversi punti di vista.

“Esatto, sì. Personalmente sono molto sensibile all’argomento, mi piace vedere al di là, aspetti diversi, idee diverse dalle mie, e riconoscere che le cose e le persone possono cambiare, così come il tuo stesso punto di vista, che ciò in cui credi un giorno può cambiare il giorno dopo, i tuoi gusti possono cambiare… credo nella natura dinamica della vita”.

Sono passati sette anni dal vostro album precedente, come mai tanto tempo e cosa vi ha fatto decidere che fosse il momento giusto per tornare?

“Molto semplicemente abbiamo avuto la sensazione di essere pronti, che l’album fosse pronto. Abbiamo iniziato a lavorare all’album nel 2017, abbiamo fatto delle jam, registrato alcune idee, poi abbiamo fatto una pausa, che era una cosa che volevamo fare in realtà, e quando ci siamo riuniti di nuovo, verso la fine del 2018, l’inizio del 2019, per iniziare a lavorare seriamente, eravamo ancora tutti in parti diverse del mondo, San Diego, Londra, Portland, abbiamo raccolto e condiviso le nostre idee, poi è arrivata la pandemia ma noi eravamo già abituati a lavorare separati, perciò abbiamo continuato a farlo, anche se il processo è stato rallentato, e quello che succedeva ci ha influenzato, molte cose le abbiamo scritte in quel periodo, ed è stato solo alla fine del 2021 che ci siamo ritrovati con dieci/dodici canzoni finite e abbiamo sentito di avere un album finito”.

Quanto peso ha nell’album il fatto di essere stato realizzato per lo più a distanza, non soltanto in relazione alla pandemia, quanto conta il fattore distanza nella vostra relazione come band?

“Ha il suo peso, penso che la difficoltà maggiore sia rendere e mantenere organico il lavoro, è difficile mantenere un certo tipo di sinergia a distanza, ma penso che siamo riusciti a gestirla bene. Inoltre quando lavori per tanto tempo a un progetto, con modalità diverse, diventa in ogni caso come lavorare a una sorta di patchwork, e direi che questo album è come un collage, cosa che fra l’altro è illustrata molto bene nell’immagine di copertina. È un insieme di elementi diversi che però uniti creano un intero a sua volta differente”. 

In generale com’è la vostra relazione come artisti, siete il tipo di band che ha gli stessi gusti, gli stessi obiettivi, oppure di quelli che vivono di tensioni creative, opposti che si attraggono?

“Direi che abbiamo obiettivi comuni ma gusti diversi. Le tensioni creative ci sono e penso che sia inevitabile, ne abbiamo sempre visto gli aspetti positivi. Lavoriamo fino a quando siamo felici del risultato, e può volerci tempo”.

Com’è nata l’idea di costruire una canzone con i messaggi vocali? Sto parlando di (Missed Calls), è un brano piuttosto inusuale per i Daughter.

“Quella canzone è nata una sera in cui eravamo in studio ed Elena ha avuto questa idea di questi due accordi di archi che si ripetevano, io l’ho messo insieme con la mia attrezzatura modulare, che include sampler e cose del genere, con cui posso registrare, manipolare, rallentare, accelerare etc. e abbiamo iniziato a metterci alcuni messaggi vocali ricevuti in questi anni, in particolare quelli di sua nipote, che vive in Italia, e della sua amica Marika, che fra l’altro ha fatto tutte le foto per l’album, e li abbiamo manipolati per fare in modo che raccontassero una storia”.

L’album secondo me ha una qualità molto visiva, cinematografica, può dipendere anche dal fatto che il vostro ultimo lavoro prima di questo è stato una colonna sonora?

“Forse sì. Mi piace pensare che la nostra musica sia sempre stata cinematografica. Siamo molto influenzati dalla musica cinematica, dalle colonne sonore, è qualcosa che ha molto influito sul nostro sound. Per quanto riguarda questo album e quanto la musica che abbiamo fatto per il videogame abbia influito, penso che abbiamo pensato di più al modo in cui il suono potesse rappresentare un’immagine”.

Rispetto ai vostri album precedenti questo mi sembra più ricco a livello di sound ma anche più pop e immediato, come avete lavorato per raggiungere questo equilibrio?

“Molto duramente (ride). Intanto grazie, lo prendo come un complimento”.

Lo è.

“Non so dirti precisamente cos’è che ci ha fatto decidere che volevamo ottenere questo tipo di sound, ma sicuramente ne abbiamo parlato, e deciso che era quello che volevamo fare. Personalmente posso dire che mi sono concentrato molto sulla struttura dei brani, su quello che pensavo fosse necessario che stesse lì e quello che poteva essere tolto, e sulla composizione e gli arrangiamenti, mi sono preso del tempo per studiare durante le pause, ho cercato di fare in modo che tutto fosse al posto giusto e tutti gli elementi si valorizzassero fra di loro. Ho cercato di pensare al lavoro nella sua totalità, quasi come se fossi un compositore di musica classica, facendo attenzione a ogni singola parte. Quando suoni in una band devi tenere insieme persone diverse e lavorare come una squadra, è una cosa bellissima ma anche difficile, lavorare sull’equilibrio. Abbiamo cercato di farlo al nostro meglio e di stare sempre al servizio delle canzoni”.

Questo è anche il primo album in cui canti. Come mai questa scelta di aggiungere altre voci a quella di Elena?

“Semplicemente c’erano delle canzoni in cui ci sembrava appropriato che ci fossero anche voci diverse, cosa che in passato non era mai successa. In questo senso canzoni come Future Lover e Swim Back sono degli esperimenti”.

I vostri progetti fuori dai Daughter, come l’album solista di Elena o i tuoi lavori come produttore sono entrati in qualche modo nell’album?

“Oddio sì, tutto. Tutto quello che facciamo entra nei nostri dischi, anche l’ultimo film che ho guardato. Tutto quello che fai, tutto quello che impari, tutto contribuisce a creare la persona e l’artista che sei. In termini di lezioni creative che impari e da cui vai avanti, anche solo per non ripeterti. Perciò sì, siamo tutti arrivati cresciuti e cambiati come persone e come artisti dalle altre esperienze a fare questo disco”.

Hai detto che questo è il vostro disco più ottimista finora. Che tipo di persona sei in genere, ottimista o pessimista?

“In genere sono abbastanza ottimista, nel senso che credo nella bontà, ma ho anche un lato realista nel senso che non credo che le cose possano succedere fino a quando non le vedo succedere: lavoro per far accadere delle cose ma mentre lo faccio dico ‘no, non credo che succederà’”.

Hai una canzone preferita o una che consideri più rappresentativa dell’album?

“No, credo che questo sia l’album più valido che abbiamo mai prodotto, anche perché ogni canzone è diversa dall’altra, perciò è come se mi chiedessi qual è il mio figlio preferito (anche se non ho figli), no, non riesco proprio a scegliere una canzone che sia più importante all’interno dell’album. Però posso dirti che Swim Back ha un significato forte per me perché mi ha messo particolarmente alla prova per quanto riguarda l’arrangiamento. Per le parti degli archi siamo stati aiutati da Josephine Stephenson, e amo moltissimo il sound e l’atmosfera che abbiamo ottenuto”.

Come dicevi giustamente, ogni canzone dell’album è diversa dall’altra, però c’è anche un legame forte fra tutte, a livello di contenuti, questo tema ricorrente della lontananza, dei rapporti a distanza…

“Sì è vero, anche se le canzoni sono state scritte in tempi e luoghi distanti abbiamo cercato di far sì che ci fosse un concept che le legasse tutte. In particolare per Elena è stato un po’ come tenere un diario di un determinato periodo, e come dicevi tutte parlando di legami, connessioni, disconnessioni, di essere fisicamente separati, ed è curioso che tutto questo non abbia a che fare con la pandemia, essendo state scritte prima”.

Siete stati profetici.

“Sì esatto. O forse è solo che alcune cose si sono esacerbate con il Covid ma esistevano già prima”.

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