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Editoriale 374: musica sostenibile?

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makaya mccraven Fanzine

L’editoriale del numero 374 di Rumore, marzo 2023, di Rossano Lo Mele

Di Rossano Lo Mele

Uno dei temi principali attorno alla musica degli ultimi anni, specie dalla pandemia in poi, è quello della sostenibilità. Non proprio in termini ambientali, semmai economici: il rapporto tra costi e ricavi, domanda e offerta, appare sbilanciato, da lì quindi emergono problemi. Dalla candida confessione di Little Simz che manifesta l’impossibilità di andare in tour, non riscendo a gestire la montagna di spese, alle band americane che rinunciano a tour europei perché il prezzo del noleggio furgone e il caro benzina hanno la stessa piacevolezza di un cappio al collo. Si chioserà: è tutto il sistema a essere sfocato, se ci si aggiunge che le piattaforme digitali hanno sottratto una significativa fetta di guadagni ai musicisti, specie a quelli che i dischi li vendevano (vendono) anche dal vivo. Il cane si morde la coda, senza che il problema venga risolto. Ma di certo se ne può discutere, come ha deciso di fare Makaya McCraven. Uno dei nostri beniamini (fra i migliori del 2022 per queste colonne) ha realizzato un’incuriosente fanzine assieme alle sue case discografiche: XL, Nonesuch e International Anthem. La fanzine – 24 pagine in rigoroso bianco e nero, acquistabile al prezzo di cinque dollari su Bandcamp – si chiama “Artists In These Times”. Lo scopo è quello di ragionare sul ruolo dell’artista “in questi tempi”. 

Molti ricorderanno che il formidabile album del jazzista americano si chiama proprio In These Times, ma forse non tutti sanno che questo è anche il nome di una testata giornalistica di Chicago che tratta temi di vario tipo. Circa dieci anni fa, nel 2014, fu proprio il periodico “In The Times” a intervistare Makaya su argomenti come lo sviluppo del paesaggio socioeconomico attorno all’industria musicale. Simbolica la conclusione dell’intervista: “Il sogno di tutti i musicisti jazz è di avere abbastanza tempo per pensare al proprio lavoro e suonare per svilupparlo”. A un decennio di distanza si torna sullo stesso luogo, domandandosi cosa significhi essere un artista oggi. La giornalista Emma Warrern abbraccia il tema dopo che, appunto, McCraven ha deciso di chiamare il suo ultimo album come la rivista in questione. Le interviste, rivolte alla comunità di musicisti vicini a Makaya, parlano di aspetti fondamentali del mestiere: la disciplina richiesta, la creatività, le frustrazioni, le responsabilità amministrative, la volontà degli artisti di seguire i loro sogni e la contraddittoria realtà circostante: cosa significa, in sintesi, essere un musicista lavoratore oggi?

Una delle ragioni per cui la fanzine in oggetto suscita interesse è che, visti dall’Italia, questi temi sembrano essere inaccessibili, chi tocca si brucia. Per un musicista di medio calibro affermare la compresenza di un mestiere extramusicale equivale all’autodichiarazione di un fallimento esistenziale. Siccome qui non la pensiamo così, da anni scriviamo di esistenze “oscillanti” fra musica creata, suonata e lavori – il termine fa un po’ paura – “normali”. Prima con la rubrica denominata “Che Fine Hai Fatto?” e oggi con il suo ampliamento, “I Complessi”. “In These Times” ha il pregio di cancellare la forfora ipocrita che traccheggia su questo tema e, contestualmente, ribadirci quanto il contesto sociale, culturale ed economico statunitense sia così disallineato rispetto a quello italiano. Prendiamo per esempio il caso del chitarrista Jeff Parker, afroamericano, eminenza grigia della sei corde da 30 anni, avendo suonato con mezzo giro post rock, già componente dei Tortoise, sperimentatore votato al jazz e praticante il mondo di McCraven. Si dichiara professionista dal 1992, essendo anche docente nel dipartimento jazz del California Institute Of The Arts a Santa Clarita. Aggiunge che negli Stati Uniti il rapporto tra musicisti di area sperimentale e le università è così stretto da poter garantire loro di sopravvivere. Parker è un esempio mirabile di chi ha saputo garantire (prima di tutto a se stesso) un livello creativo costantemente alto grazie alla comunità circostante. Discorso che si può copiare e incollare per altri nomi della scena coma Damon Locks o Sulyiman Stokes.

Ma la fanzine “In These Times” è interessante anche perché punta i riflettori su musicisti giovanissimi che affiorano dalla scena indie rock DIY statunitense, tipo gli Horsegirl, già approfonditi su queste pagine. Penelope Lowenstein, cantante e chitarrista del trio, racconta quanto segue: “Tutti i musicisti che conosciamo lavorano o stanno ancora studiando. Stiamo cercando di capire come fare funzionare l’aspetto economico della band. Mio padre è sempre stato interessato alla fotografia. Ricordo, nella mia infanzia, quando accompagnava a scuola me e mio fratello in auto. All’improvviso si fermava per scattare delle foto se vedeva una luce particolare. Noi restavamo in auto mente lui scattava, mesi dopo avremmo visto il risultato. Vedere qualcuno che trova ispirazione nella vita quotidiana, mentre accompagna i figli la mattina, è un continuo monito su come intendo affrontare la creatività nella vita”. La rivoluzione comincia a scuola e all’università. E nel percorso per arrivarci. 

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