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Primavera Sound 2022: l’edizione più difficile

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(Credit: Clara Orozco)

Dopo due edizioni saltate a causa della pandemia, il Primavera Sound di Barcellona è tornato con un doppio weekend e una serie di concerti diffusi in tutta la città: senza dubbio l’edizione più complessa da gestire e organizzare. Vi raccontiamo come è andata

L’appuntamento col Primavera Sound è stata un’attesa spasmodica, sfiancante e per alcuni tratti quasi illusoria. Quando pensavamo fosse il momento giusto, vedevamo allontanarsi di nuovo il festival. Una croce sul 2020. Una croce sul 2021. Salto triplo dal 2019 al 2022. Di conseguenza, il classico giovedì al soleggiato Parc del Forum che apriva questa anomala dodici – sì, dodici – giorni di festival è stato un ritorno alla realtà e alla socialità soprattutto. Line up minata da annullamenti più o meno recenti che si aggiungevano ai Massive Attack di qualche mese fa: Afrikan Sciences, Bestia Bebé, Bikini Kill, DJ Black Low, Georgia, girl in red, Kehlani, Lingua Ignota, Pa Salieu, Rapsody e Strokes (annullata la data del primo weekend con possibilità per chi aveva solo il ticket per il giorno specifico di utilizzarlo la settimana successiva) davano forfait ed entravano in sostituzione Joan Miquel Oliver presents Surfistes en càmera lenta, Joey Bada$$, Let’s Eat Grandma, Los Hermanos Cubero and Nexcyia, 107 Faunos, Low, Marina Herlop, Paloma Mami e Rigoberta Bandini.

Tanta gente più del solito ai cancelli all’apertura. Un’anomalia che sicuramente non si aspettava l’organizzazione e forse nemmeno noi. Ma i tre anni di stop e la voglia di festival hanno cambiato tante cose. Nel frattempo una coda a serpente decisamente disordinata portava al primo vero atteso concerto all’Auditori: Kim Gordon. L’ex Sonic Youth è decisamente in forma, accompagnata dalla sua band, i panorami americani che sfilano veloci nel ledwall, le dosi generose di noise ma tanto spazio alla sua voce per il disco d’esordio uscito tre anni fa (No Home Record). Disco suonato interamente in ordine rigidissimo con l’aggiunta di una cover dei DNA (Blonde Red Head) e l’altro nuovo brano uscito sul finire del 2021, Grass Jeans, il cui ricavato delle vendite è andato a un’associazione per il diritto all’aborto in Texas. Concerto concluso col rumore e la sua chitarra lasciata in balia dei fortunati in prima fila. Ricordiamo che la signora sonica il prossimo anno ne fa 70 ma non ha proprio nulla da invidiare a nessuno. L’invidia è tutta nostra: avvicinarci a quell’età con un centesimo della sua dinamicità e ispirazione è impresa impossibile.

(Credit: Christian Bertrand)

Nel frattempo si vocifera di code per una birra. Panico e stupore. Se per buona parte dei festival musicali è la normalità – in Italia c’è chi deve scegliere se guardare una band o recarsi a prendere i token e la birra – al PS la normalità è non aspettare più di 3 minuti. 8 minuti esagerando dai palchi più popolosi. Siamo stati abituati bene ma è così che dovrebbe essere sempre. Invece, uscendo dall’Auditori ed entrando nel Parc del Forum, ci accorgiamo di due cose fondamentali: c’è molta più gente del solito a quell’ora e ci sono altri intricati serpentelli di persone che attendono il loro turno per ordinare da bere. Sembra un incubo. Un ritorno traumatico alla realtà che non ti aspetti. Qualcuno ti guarda male perché gli avevi raccontato tutt’altra vita qui, nella ridente Barcellona. Viene anche incautamente da pensare che l’organizzazione abbia venduto più biglietti del dovuto, ma l’avidità non c’entra, anzi, sarà la giornata più scarica di tutto il festival (66mila persone) contro le rispettive 74mila del secondo giorno e 80,5mila del terzo. Alcune testate online non vedono l’ora dello scoop e un po’ di clic facili sull’onda della sacrosanta – sia chiaro – incazzatura del pubblico, perché “un festival con le code” non fa notizia, ma se è il Primavera Sound, sì. Sta di fatto che qualcosa si è rotto, o meglio, come nel più classico dei sistemi un problema a cascata ricade su altri generandone a sua volta molteplici. Quindi, riassumendo, con tutte le imperfezioni e le correzioni del caso: è giunto all’apertura del festival un numero inaspettato di persone. Possiamo dire che il primo collo di bottiglia è stato ai bar, dove ovviamente appena entrate si sono dirette, e che parevano più lenti del solito – insider spagnoli diranno a causa delle defezioni last minute causa covid, altri addirittura parlano di problematiche interne più a livello di accordi legati alla paga oraria. Quel giorno sembravano meno celeri del solito e non proprio in bolla. Ancor meno con una mole di gente arrivata in blocco. Le code ai bar di conseguenza rallentano tutto, movimentazione del pubblico in primis e difficolta di circolazione. Aggiungiamoci poi la non ultima problematica della chiusura quasi totale del ponte di ferro, ossia quello che collega all’area Bits (la “spiaggia elettronica”, per intenderci), che su ordine della capitaneria di porto qualche settimana prima è stato chiuso, o meglio, è stato praticamente reso nullo il passaggio obbligando, chi voleva recarsi in quell’area, a fare molte centinaia di metri in più. Infine, le code per bere hanno creato altrettante code alle fontanelle di acqua che diventavano gli uniche fonti per abbeverarsi.

(La mappa del festival com il percorso alternativo al Primavera BITS)

Ma la musica, ovviamente, andava avanti con palchi già saturi e imballati alle 18:55, come per gli americani Les Savy Fav – un po’ punk, un po’ post e un po’ indie rock: live incredibile col frontman Tim Harrington che crea scompiglio facendosi addirittura portare a spasso dal pubblico su una pedana. L’effetto è quello di Gesù che cammina sulle acque. Per i Dinosaur Jr, stesso discorso: un numero spropositato di persone, un audio non proprio perfetto ma la solita certezza per la band di J Mascis, Lou Barlow e Murph. Sharon Van Etten si conferma artista solida con un concerto dal vivo che parte più oscuro e che si muove verso la luce. Bene il post punk dei Gustaf e assolutamente incredibile il live degli Armed, la band-collettivo che all’ex palco Pitchfork – ora intestato a un marchio energetico – mette a ferro e fuoco il Primavera. Chi ha scelto gli Yo La Tengo in contemporanea non ha sbagliato, sia chiaro, ma gli Armed sono da vedere il prima possibile: devastante caos controllato, hc ipesteroideo e incursioni sperimentali che danno fiato. Sul palco si susseguono più musicisti, la formazione muta in corso d’opera. Miglior live/sorpresa del primo giorno. Arriva il momento di dirigersi verso i main stage, quest’anno strutturati nella posizione di due palchi affiancati. Scelta discussa; non una novità nel mondo dei festival ma i pro e i contro sono da valutare: sicuramente chi non ama andare avanti e indietro per i palchi ne è avvantaggiato ma questo potrebbe, in parte, aumentare però lo stazionamento del pubblico. Gli organizzatori in conferenza stampa si sono detti soddisfatti, ma non è sempre filato tutto perfettamente. È capitato di ritrovarsi qualche ondata di gente obbligata a uscire solo da una parte e ritrovarsi pressoché bloccati. I due palchi uno di fronte all’altro, pur obbligando a doversi muovere per ogni concerto sicuramente obbligavano a un maggior movimento. Quindi, in attesa dei Pavement, ci si ritrova a guardare un po’ di lato anche i Tame Impala che da circa 5 anni – pur portando un live di livello – non aggiungono molto a quello che di loro si sapeva dai tempi di Currents (2015). Suonano molto furbescamente Last Nite dato che gli Strokes hanno annunciano il forfait causa covid un giorno prima. A dirla tutta servirebbe un cambio di rotta nell’idea di live e di suoni dei Tame Impala, ma per ora continuano così.


Tutt’altra storia quella dei Pavement: si chiude così il cerchio iniziato con quella cartolina che girava nell’ultimo Primavera Sound 2019 che annunciava la reunion del gruppo californiano formato da Stephen Malkmus, Scott Kannberg, Mark Ibold, Steve West e Bob Nastanovich. Sono esattamente come ce li aspettiamo, anzi meglio. Suonano oggettivamente bene con un set pieno di brani che almeno da un decennio volevamo risentire: doppietta strappacuore con Shady Lane e Range Life verso fine della scaletta. Ventisette brani che profumano di puro slacker indie rock. Perché quando pensi alla parola indie l’unica band che potrà portare quella etichetta sulla pelle per sempre, sono e saranno loro. 

Tornando al main stage non si può non parlare della questione spazi VIP che quest’anno sono stati gestiti e posizionati in un modo che non incentiva di certo la spesa o ne caratterizza i vantaggi di quel biglietto, a partire dalla posizione delle due tribune: una con capienza ridotta rivolta verso i due palchi (ma all’altezza della regia) che va a coprire la mancanza dei pit adiacenti al palco. Poi un’altra a sostituire quelle che una volta erano laterali e terrazzate con la geniale possibilità di non vedere i due palchi ma un mega ledwall. Il luogo giusto a chi non interessa vivere il festival, semplicemente. Tanti cambiamenti tutti assieme dopo un lungo stop portano inevitabili problemi o nuove problematiche che pesano. Mentre le prospettive dei giorni seguenti sembrano decisamente grigie si fa ancora in tempo a vedere il gruppo punk giapponese totalmente femminile, le Otoboke Beaver: piacevoli, rumorose e decisamente iraconde sul palco Ouigo, il vecchio Adidas stage. Al Cupra (ex Ray-Ban) c’è DJ Shadow e una marea di gente, ma la notte è ancora lunga e di quello che ci si aspetta il giorno dopo non c’è certezza.

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA

Non era praticamente mai successa una giornata così nella storia del Primavera Sound nei suoi 20 anni di esistenza – e circa 60 giorni ufficiali di festival. Ce la ricorderemo e alcuni non gliel’hanno perdonata, salvo poi riprendere contatto con la realtà. Il giorno seguente arrivano le scuse dell’organizzazione sui social per i disagi passati e l’annuncio di qualche piccola nuova accortezza – più punti acqua e bar decisamente più reattivi. Tutto apprezzabile, contando che solitamente dalle nostre parti nessuno si è mai scusato per code chilometriche e disagi, ma anzi, più facilmente cambia nome, si sposta di poco e torna con le stesse problematiche non risolte ripetendo gli stessi errori, anno dopo anno. Il venerdì (3 giugno) sembrava tutto tornato come sempre: stavamo riabbracciando il classico Primavera Sound dove la vivibilità era di nuovo centrale nell’idea dell’evento, dove per bere non dovevi sacrificare nessun concerto ma solo – al massimo, nella peggiore delle ipotesi – 10 minuti del tuo tempo. Eppure, il secondo e il terzo giorno con 74mila e 80,5mila presenze avrebbero dovuto farci presagire il peggio ma non è andata così. Intanto a colpo d’occhio si notava decisamente meno pubblico al palco Cupra, come se si fosse distribuito meglio e fosse arrivato più scaglionato rispetto al giorno prima. Questo fa decadere tutte le ipotesi di sovrannumero o più biglietti singoli venduti e altre imprecisioni dettate dal momento di sconforto. Così si riparte, sapendo di non essere stati traditi nelle aspettative da un giorno balordo che servirà da insegnamento agli organizzatori che in conferenza stampa hanno ammesso l’errore di non prevedere l’affluenza massiva iniziale il primo giorno. Cosa mai successa peraltro, ma più di due anni di pandemia cambiano molte carte in tavola e abitudini.

Quindi si riparte dall’Auditori con la sacra messa dei Low; l’indie rock/power pop dei Beach Bunny che brilla al sole del Cupra; la delicatezza di Weyes Blood e la devastante performance degli australiani Tropical Fuck Storm che si confermano dal vivo una via di mezzo tra art punk, psichedelia sporchissima e una presenza che ti tiene attaccato al palco. Intanto i Fontaines D.C. sul main stage si prendono il loro momento e lo sfruttano al meglio, in crescita esponenziale, ormai. Gli Shellac annunciano dal palco che hanno cinque brani nuovi e che l’album nuovo uscirà… tra 10 anni, o giù di lì. Beck è uno spettacolo ma lo rivedremo più avanti. Little Simz è attesissima ma è più simile a un diesel, serve più minutaggio per raggiungere i picchi che ci aspettiamo. Ci concediamo il caro vecchio Hidden stage (ora NTS stage) e c’è Valentina Magaletti alla batteria con Joe Andrews e Tom Halstead (ovvero Raime) che compongono i Moin: live incredibile tra i fumi e le nebbie del club creato nel parcheggio; post core, noise, post rock che diventa una miscela esplosiva. Intanto i Parquet Courts stanno concludendo il loro concerto ed è affollatissimo; le Warpaint rimangono in parte sempre un piccolo mistero ma il seguito c’è e il pubblico apprezza e la loro componente sognante ha il suo appeal. Dopo di loro tocca ai King Gizzard & Lizard Wizard che suoneranno altre quattro volte, per un totale di cinque scalette differenti durante tutto il Primavera Sound. Dall’altra parte Caribou fa un set pauroso – arriviamo giusto per le ultime battute – ed è avvolto in una magia di colori e suoni che lui e la band riescono a rendere organica.

Dalla vicina Boiler Room, strutturata come una Rotonda sul mare del porto spagnolo, arrivano le foto di un buco che si è creato nel pavimento. Verrà riparato e il giorno dopo tornerà attiva. Anche la scelta della posizione di questo stage non è molto funzionale: è molto fastidioso a livello di suono per il vicino palco e nell’area Bits avrebbe avuto decisamente più senso, invece una buona parte di pubblico che vorrebbe ballare rimane qui, creando lunghe file per poterci entrare vista la ridotta capienza. Il nostro Lorenzo Senni lascia un segno indelebile con il suo set al main stage dell’area Bits che raggiungiamo passando sul ponte e i Mogwai creano quello atmosfere sospese nel post rock che solo loro possono alle 3 di notte passate. I Lightning Bolt sono certezza di velocità e rumore a qualsiasi ora, meglio se tra le 3 e le 4 di mattina. Si chiude con Jeff Mills che parte non proprio di fioretto per migliorare via via. 

Il sabato, in ordine sparso, con un programma che come sempre può soddisfare quasi chiunque, sia con gli artisti più grandi che con le nuove scoperte, ci ritroviamo un menù vario e abbondante: la scelta tra Nick Cave e i Bauhaus è sanguinosa, ma questi ultimi sono alle battute finali della carriera e perdere Peter Murphy e soci non è il caso, anche a costo di sacrificare come sempre un Cave cattedratico con la sua funzione religiosa intensissima. Sono incredibilmente solidi i Bauhaus e si resta lì con il Murphy mattatore con camicia costellata di brillanti grossi come albicocche. Per fortuna che gli Einstürzende Neubauten ce li siamo visti in apertura di giornata, certo col sole facevano un certo effetto, ma almeno Blixa e soci hanno alleggerito il traffico di incroci pericolosi.

I Black Country, New Road suoneranno solo inediti e dopo l’abbandono repentino del loro cantante e autore dei brani non sarà un concerto facile, vedremo gli sviluppi futuri, ma evitiamo e scegliamo i Jawbox di J. Robbins che non deludono mai perché quelle band scuola Dischord degli anni 90 sono una certezza. Poi i Napalm Death ci mettono in riga, gli Abbath tirano fuori la voglia di black metal più recondita in ognuno di noi in attesa dello show degli Idles praticamente in contemporanea coi Gorillaz (ahia!). Live possente, alla loro maniera, che potrà anche essere un limite alla lunga ma è solido. Regalano anche un mix partendo dalla loro Love Song e in un sing-along collettivo fare From Her to Eternity di Nick Cave, Nothing Compares 2U di Sinead O’Connor, Easy dei Commodores, Wonderwall degli Oasis, All I want for Xmas di Mariah Carey). Si fa giusto in tempo per arrivare ai Gorillaz di Damon Albarn che salgono per i tre brani finali i De La Soul per Feel Good Inc., slowthai per Momentary Bliss e Sweetie Irie per Clint Eastwood. Incredibile la folla per i Boy Harsher per i nostalgici del synth pop 80s bello dritto e ritmato alle 3 mezza di notte.

PRIMAVERA A LA CIUTAT & BRUNCH ON THE BEACH

Un esperimento in parte riuscito, sicuramente con tanti buoni propositi dato che fungeva da raccordo tra i due weekend con concerti e dj set gratuiti per chi aveva varie tipologie di abbonamento. Prima dell’inizio del festival c’è il Poble Espanyol – che è una piccola Italia in Miniatura con la rappresentazione degli scorci architettonici tipici spagnoli. Le giovanissime Linda Lindas ci mettono tutte loro stesse su quel palco che con loro sembra enorme – nulla di indimenticabile ma c’è tempo. Poi tocca alle Wet Leg e ci viene voglia di riascoltare le band di NME 2005-2010. Di loro resta oggettivamente poco, tranne Chaise Longue, ovviamente. Tocca ai brasiliani Teto Preto: un mix di punk, elettronica, rumori, costumi minimali – molto minimali – e un po’ di confusione che non aiuta molto a delinearne un senso compiuto. C’è poi Rina Sawayama, ossia come il pop dovrebbe suonare oggi dal vivo. Chiusura notturna nel piccolo club adiacente – la sala Upload – con una dose di hardcore-noise sintetico del duo De1l Girlz x Dani Rev e i congolesi Kokoko! in formazione ridotta con electro-funk e ritmiche spezzate.

Ma come detto, la cosa migliore che può capitare durante gli eventi della Ciutat è l’opportunità di assistere al live di Beck in un club di 2000 posti; una di quelle esperienze che difficilmente ci dimenticheremo: concerto di rara perfezione per una macchina da palco e un performer stupefacente come lui con una scaletta densa di singoli clamorosi. Peccato che sotto il cielo di Barcellona durante questi giorni di festival diffuso fra i club e il Poble Espanyol regnava anche una buona dose di insensatezza nella gestione degli ingressi e delle priorità come ci è capitato al Razzmatazz 1 che per due giorni permetteva alla stampa l’ingresso prioritario insieme a chi aveva acquistato il ticket su Dice, mentre il terzo giorno ci viene detto che “Sei stato fortunato a entrare le altre due volte, non c’è nessun ingresso stampa. È impossibile che tu sia entrato ieri da un accesso stampa”. Non è tanto l’ingresso stampa che interessa – ci siamo messi nella coda Pro/VIP e dopo un po’ siamo entrati – ma è cambiare le carte in tavola da un giorno all’altro e farci passare per scemi, perché al Razzmataz non ci entri di fortuna, ci entri perché ti fanno entrare ed è quello che è successo. Per i concerti di Beck e Yung Lean c’era una coda, il giorno dopo per il concerto degli Slowdive viene abolita senza nessun motivo. Per chiudere, sul fronte delle attività extra weekend, il Brunch on the Beach 2022 è stato gestito malamente aprendo le prenotazioni dei ticket per il dj set in spiaggia senza aver dato per tempo il giusto risalto all’estrema limitatezza dello spazio. Certo, non hanno aiutato le successive limitazioni di capienza impostegli per l’area della spiaggia ma a saperlo prima, magari, molti sarebbero tornati a casa un giorno prima dato che era quello l’unico evento domenicale di fine festival. La marea di lamentele per il sold out immediato – sono bastati davvero pochissimi minuti – ha portato gli organizzatori ad allestire altre serate gratuite nei club per dare un’alternativa a chi si sentiva preso in giro. Una toppa a una malagestione e a una comunicazione claudicante dell’evento specifico. Questo non deve accadere, lo spettatore che poi è un cliente, lo “freghi” una volta, la volta dopo non lo vedi più. Errori che non si devono più ripetere e il Primavera lo sa, perché sul rispetto e sulla chiarezza non ha quasi mai sbagliato negli anni addietro.

Ma non è tutto negativo quello che capita durante i giorni della Ciutat, c’è la fortuna di poter vedere gli artisti italiani che durante il festival si sono esibiti al palco Night Pro dell’area Bits. Un palco scomodissimo e che non ha aiutato né dato la giusta visibilità alle band emergenti europee e internazionali che vi hanno partecipato. Anche perché la cosa più sensata sarebbe stata quella di avere in area Bits la Boiler Room e il Night Pro nel Parc Del Forum che nella precedente posizione (non lontano dal main stage) ha sempre riscosso un buon numero di pubblico passante, curioso e interessato. Così decidiamo che la piccola e accogliente Sala Vol – non lontano dal Razzmatazz – sia il posto giusto e non ci sbagliamo perché Her Skin, Koko e Nother propongono i loro live estremamente diversi ma solidi: dall’indie/bedroom pop di Her Skin al pop sintetico e sognante di Koko fino alle sperimentazioni elettroniche/ambient di Nother. Il pubblico c’è, è attento, partecipa e la situazione è perfetta, forse anche meglio che al Night Pro dove i suoni dei palchi vicini disturbavano non poco.

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA, parte 2

Con l’inizio del secondo weekend ci stabiliamo praticamente ai palchi Pull & Bear ed Estrella: Amyl and the Sniffers sono i soliti garage -punkers incazzati; i Khruangbin, malgrado il loro successo sono sempre più la declinazione funk strumentale dei Cigarettes After Sex che non è prettamente un complimento; gli Interpol riportano la giusta oscurità prima dei Gorillaz. Un live enorme, molto dinamico, pieno di ospiti (Mos Def, Bootle Brown, Hypnotic Brass Ensemble, Moonchild Sanelly) e Damon Albarn a tenere le fila di tutto questo progetto che più di vent’anni fa non avremmo immaginato sarebbe arrivato così fino a oggi. Durante la giornata fanno come sempre molto bene i Ride ma stupiscono con grande piacere nella resa live gli Squid che cesellano post punk, punk funk, nu rave e sperimentazione con una sapienza impressionante. Bene anche gli High on Fire per chi di notte necessita di stoner doom; buonissimo concerto dei nigerini Mdou Moctar mentre Tyler the Creator ha uno spettacolo solitario in un palco foresta quasi magico che ormai lo ha consacrato come uno dei più grandi tra i “nuovi” rapper degli ultimi 10-12 anni. Come chiusura scegliamo i Bicep che salgono in cattedra spiegandoci coi suoni come dev’essere fatto un set che arriva fino alle 4 di mattina: vario, coinvolgente e movimentato senza sporcarsi le mani con sonorità di dubbio gusto. E nei giorni successivi godremo assai per lo show senza eguali di M.I.A. con critica aspra alla sorveglianza di massa e una non celata nuova direzione religiosa verso il cristianesimo. I Run The Jewels hanno uno spettacolo solido, potente ma con pochi colpi di scena.

Poi il ritorno degli Yeah Yeah Yeahs che sembra riprendano le fila da dove avevano lasciato. Karen O decisamente emozionata e un live solido prettamente incentrato su pezzi storici, principalmente, e tre nuovi brani dal prossimo album Cool It Down. Non ci possiamo nemmeno lamentare con gli Strokes, fanno quasi tutto quello che devono dopo il primo forfait, anche se Julian Casablancas ammette di essere stato lui quello col Covid e non Nick Valensi. JC è un po’ troppo verboso sul palco e non fanno Last Nite, ma d’altra parte ci avevano già pensato i Tame Impala. Grandi soddisfazioni dai bielorussi Molchat Doma e soprattutto dai Viagra Boys che portano un live diretto senza troppe digressioni strumentali: punk e pugni nello stomaco. Stella Donnelly è deliziosa in tutta la sua delicatezza e nell’arguta scrittura tra indie rock, pop e folk. I Phoenix con il loro live rodatissimo non sbagliano un colpo. Da segnalare al palco NTS l’hardcore rave indonesianizzata dei Gabber Modus Operandi e l’industrial grindcore dei Duma: due manate in faccia che abbiamo apprezzato tantissimo, due di quei nomi piccolissimi che danno grandi soddisfazioni. La bellezza del Primavera Sound resta anche questa, scoprire e vedere artisti mai visti ed effettivamente piccoli in contesti idonei. Chiusura definitiva di questi 12 giorni con Dj Coco, a suo modo. Fuochi d’artificio e tanti saluti all’edizione più difficile di sempre che ci fa capire limiti ma anche pregi, e soprattutto, ciò che non si vuole perdere e che è inscalfibile per chi frequenta questo evento da anni: la vivibilità di un festival che oltre alla direzione artistica è sempre stato il motivo per cui si è scelto il Primavera Sound di Barcellona.


Quasi mezzo milione di persone: 220.500 al Weekend 1 (66.000 + 74,000 + 80.500), 40.200 at Primavera a la Ciutat e 240.000 al Weekend 2 (79.000 + 81.000 + 80.000) e 349 milioni di euro di impatto economico sulla città. Ora la partita si sposta sul continuare a Barcellona: il prossimo anno il PS è previsto una sola settimana in Catalogna e la successiva sarà a Madrid. Una cosa però è certa, la città e il Primavera Sound devono trovare il modo di continuare assieme e molto probabilmente lo troveranno, perché con una loro separazione ci perderebbero entrambi.



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